DE OLIVEIRA O LA MACCHINA DEL TEMPO
De Oliveira o la macchina del tempo
di Alessandro Cappabianca
Il treno del racconto.
Il film (Singolarità d’una ragazza bionda) potrebbe benissimo cominciare con un giovane affacciato a un balcone, in una pausa del lavoro (lavoro d’ufficio, si tratta d’un contabile), e con una bella ragazza che, come per caso, si affaccia dalla finestra del palazzo di fronte, sventolandosi con un ventaglio rotondo. E poi andare avanti, mostrando la nascita dell’amore tra i due giovani, e le vicissitudini cui va incontro, fino alla sorprendente rivelazione finale, seguendo la traccia del racconto di Eça de Queiroz.
Ma de Oliveira non lavora così. Il film si traduce nella visualizzazione della storia attraverso il racconto che ne fa il giovanotto (di nome Macario) a una signora che siede accanto a lui in un treno diretto alla regione dell’Algarve, nel sud del Portogallo. Il giovanotto e la signora, due perfetti sconosciuti, sono solo vicini di posto – ma una voce fuori campo risuona alle orecchie degli spettatori (e del giovanotto), dicendo pressappoco: “Quello che non puoi raccontare a tua moglie, quello che non puoi raccontare ai tuoi amici, raccontalo a una sconosciuta”.
Perché de Oliveira sente il bisogno di far raccontare la storia dal suo protagonista a una sconosciuta, durante un viaggio in treno? Non conosco il racconto di Eça de Queiroz, e pertanto non so se anche lì venga utilizzato questo espediente ferroviario – ma quand’anche fosse, il regista non era obbligato a seguirlo. No, si ha l’impressione che de Oliveira senta proprio il bisogno di dinamizzare la storia, facendola raccontare sul vagone d’un treno in corsa, un po’ come faceva Buñuel in Quell’oscuro oggetto del desiderio (ma senza secchiate d’acqua, né psicologi nani).
Bisogno di dinamizzare? Ma come, e in che misura, visto che i due viaggiatori sono bloccati ai loro posti sul treno, come la famosa mosca che viaggia senza muoversi? Il treno infatti continua a correre sui binari anche dopo che la storia è finita, ma allora la mdp lo inquadra dall’esterno, nel suo allontanarsi all’orizzonte, mentre il tempo del racconto è andato avanti solo a prezzo di una provvisoria abolizione del tempo del viaggio, durante il quale Macario si è ritrovato quasi contemporaneo di de Queiroz o di Pessoa, in una casa borghese nel Portogallo dell’800, benché si parli di euro (e la parola suona strana).
Bisogna, insomma, che il raccontatore e l’ascoltatrice, anzi, il raccontare stesso, in un certo senso, viaggino, accompagnati dal rumore del treno, anche quando questo non si vede più. Ogni storia non è raccontabile, per de Oliveira, altro che in una sospensione, indotta dalla contaminazione temporale.
Non si sa mai bene in che epoca si è. Viaggiamo nello spazio assoluto, come Isaac avvinghiato alla sua Angelica, spiriti volanti, perduti nel vertiginoso iper-spazio dell’universo di de Oliveira.
Il copia-incolla della Memoria.
Credo che il cinema, avendo ormai accumulato materiali (film) per più di cent’anni, permetta oggi di effettuare una specie di copia-incolla temporale, in cui ciò che viene copiato (p. e., brani di vecchi film, propri o altrui) può diventare, nel momento in cui è incollato e per il fatto d’essere incollato (in un nuovo film), altra cosa.
Lo sguardo di Jean Vigo sulla Nizza del 1929 (A propos de Nice), quello sguardo d’un occhio al tempo stesso clinico e critico, carico della rabbia anarchica di chi sente d’essere di fronte a un mondo profondamente estraneo (e nemico) di pupazzi grotteschi (viventi o di cartone), quel mondo, fatto proprio da de Oliveira in Nice… à propos de Jean Vigo (1983 – più di cinquant’anni dopo), resta critico, ma anche stranamente malinconico, come se, scavando nell’archeologia della memoria, non potesse fare a meno di imbattersi in un destino di morte.
I borghesi di Vigo, le signore obese oppure ossute, maschere grottesche in bianco e nero, le sue ragazze sgambettanti sul palco del Carnevale, sono diventate altro: vecchie signore, vecchi signori malinconici,seduti nel parco ad ascolatre musica malinconica attorno al padiglionein cui suona una malinconica orchestra. Si, la Nice di de Oliveira, a cominciare dalle bianche statue di angeli che già avevano colpito Vigo, è tutta nel segno della morte – alla maniera di de Oliveira, però, ossia sotto l’apparenza gioiosa degli zampilli d’acqua che non cessano di mascherare col loro perpetuo movimento, nelle fonane, nelle piazze e nei giardini, la raggelata immobilità delle statue. Oppure risalendo il sentiero lungo il quale, solitario, amava inoltrarsi Nietzsche, per dimenticare Lou Salomè e riflettere sulla composizione del futuro Zarathustra.
In Viaggio all’inizio del mondo, da Nietzsche addirittura si parte, dalla sua esortazione (che apre il film e il viaggio) a padroneggiare “il caos di cui siamo fatti”. Viaggio, dunque, nel caos della memoria, svolto tramite la macchina del tempo chiamata cinema , e solo apparentemente a bordo di un’automobile. Si notano infatti due cose: primo, ci sono parecchie inquadrature dell’interno dell’auto, con i personaggi che parlano tra loro, si scambiano opinioni sulla memoria, sulla vecchiaia ecc., ma non si capisce assolutamente chi stia guidando, come se la macchina avanzasse da sola; secondo, lungo il percorso, la strada è come se fosse sempre ripresa dal lunotto posteriore, è sempre lasciata indietro, allo stesso modo in cui avanza l’Angelo di Klee e Benjamin. La macchina avanza, ma non si vede altro che quello che si lascia dietro – forse perché, durante le soste, non ci si imbatte che in rovine (rovine del Grand Hotel ecc.), ossia nel futuro miserevole di un passato sfolgorante nella memoria. O il passato si presenta sfolgorante solo nella memoria? E in questo caso, la memoria di chi? Di de Oliveira, di Mastroianni (morto poco dopo la fine delle riprese) o di quell’attore francese di origini portoghesi, per il quale, nominalmente, il viaggio sembrerebbe essere organizzato?
In ogni caso, nessuno può togliere il peso dalle spalle di Pedro Macau. Al massimo più tardi, nel camerino del teatro, si potrà re-citare la filastrocca che lo riguarda.