Dance, Dance, Dance: quando il balletto si fa iridescenza cinematografica
di Sergio Arecco
Voglio che i miei quadri scenici, come i gradi quadri della pittura e del cinema astratti, catturino per densità di materiali e un uso forte e inaspettato dei colori. Con la mia esplorazione del corpo, tento di mettere in scena l’impermanenza e la fugacità dell’essere. I corpi sono prima chiamati a dialogare e poi a perdersi.
Sidi Larbi Cherkaoui, Il nostro corpo feroce è la tèchne più potente che abbiamo, agosto 2023
Road to the Stumping Ground
(Jiri Kylián, David Muir, Hans Hulscher, Olanda / Australia, 1980-1983)
Nel 1980 non ha la barba, nel 1983 sì. Si tratta di Jiri Kylián, il celebre coreografo direttore del Nederlands Dans Theater (NDT), cui approda – è di nascita praghese – nel 1975 per farne una delle compagnie di danza contemporanea più innovative del mondo. Nel 1980 lo vediamo, in Road to the Stumping Ground spettatore di una delle “coreografie” – possiamo chiamarle così in quanto seguono a loro modo, un modo certo primitivo ma autentico, e modellato fin nel minimo dettaglio – del gruppo Tribal Dancers, operativo in quel di Groote Island, Australia. Kylián se ne sta di lato, seduto sotto una palma, e ammira quelle evoluzioni di ballerini seminudi, con il solo perizoma e il corpo impastato di fango o spalmato di elaborate pitture apotropaiche (la danza ha fini apotropaici, deve scacciare il maligno), che infuriano scalciando sulla sabbia del pianoro ergendo bastoni e quant’altro, al suono di altrettanto primitivi strumenti ricavati da ossi e pietre.
Gli aborigeni, alti e magri, sembrano scomposti nelle movenze, sovente a inseguimento; eppure, ce ne accorgiamo dopo un po’, ottemperano a geometrie studiate, formalizzate, essendo, queste, parte integrante di un rituale omologato da tempo. Infuriano assecondando il ritmo scandito delle percussioni a bordo campo, infuriano in danze diurne, più che altro propedeutiche, e in danze notturne, al fuoco dei falò, durante le quali i loro corpi già ‘percossi’ da un che di mistico e metafisico tendono a trasformarsi in ombre, apparizioni, fantasmi di quell’aldilà cui alludono. Pestando piedi e soprattutto pestando, con palme febbrili, cosce, petti, braccia, addomi, spalle, in un’ebbrezza onirica ove ogni stumping (impronta) equivale a battito fisico e battito musicale, ed è sinonimo di esaltazione e corresponsione del soma con l’ekos.
La camera oscilla tra il campo medio di Kylián e i campi lunghi sui Tribal Dancers, istituendo con il trascorrere delle immagini una sorta di ulteriore corresponsione spettatore-attori, un’empatia intuibile nello sguardo del coreografo sì sofisticato, civilizzato, smaliziato, eppure visceralmente intrigato da quella stilizzazione di una carnalità a volte franta, involuta, stonata, eppure sempre insinuante, effusiva, contagiosa. E quell’impronta primigenia, di cui parla l’aborigeno capoclan – è lui che spiega davanti alla mdp il senso di quell’atavismo, di quel costume ancestrale tramandato nel tempo e divenuto oggi corpo stesso di una tradizione incarnata, come un avatar o un totem – deve aver esercitato un ascendente molto forte su Kylián. Anche se non impreveduto, dal momento che egli si è recato apposta a Groote Island per cercarvi ispirazione. Tanto da indurlo a tradurre tre anni dopo, con tre anni di scrupolosa preparazione, sul palcoscenico del NDT, quella cifra arcaica in una cifra contemporanea evocativa tuttavia dell’arcaico, del tribale originari.
Nel 1983, un Kylián con la barba, seduto accanto a un pianoforte oppure al lavoro in palestra con i ballerini per insegnargli passi e piegamenti, attorcigliamenti e convulsioni, pestaggi e… timbri, ci dà ragione, una ragione visiva e trasformativa insieme, della lezione acquisita in Australia. Dopo aver avuto il coraggio di interpolare, alludendovi laggiù, un breve frammento della sua Sinfonietta (da Leos Janacek, il balletto che nel 1978 gli diede la fama, e la Sinfonietta del 1928 che di recente ha pervaso di sé lo splendido 1Q84 di Haruki Murakami, 2009) e alternandolo alle evoluzioni degli aborigeni – giusto per ricordarci che certe evidenze nella danza sono comuni ab aeterno – ora ha il coraggio di ricapitolarci per intero le suggestioni trasmesse tre anni prima ai suoi sensibilissimi ricettori di coreografo, suggestioni che si concretizzano ora nel suo emulativo ma pure evolutivo stumping, di cui il documentario Road to the Stumping Ground è stato l’antefatto.
Un’altra interpolazione nella road ‘dal vecchio al nuovo’ è rappresentata dal breve video di uno spettacolo degli stessi Tribal Dancers in Europa, in anni lontani. Qualcosa di distorto, come l’aver fatto esibire – sottintende Kylián mostrandoci lo spezzone tv – il buon selvaggio dell’America da poco scoperta del quale ci riferisce con raccapriccio Montaigne nei suoi Saggi, esibito sui palchi della Parigi del XVI secolo. Una cosa goffa e indecente, colonialista e razzista. Che Kylián ci mostra come forma di violenza perpetrata nei confronti di un’etnia e di una civiltà semplicemente diverse – si, civiltà. Laddove il suo innovativo Stumping Ground davvero innova e preserva al tempo stesso, simulando gesti e afferenze ma non dissimulando, non manipolando, non mistificando.
Ecco, l’ekos, la straordinaria – alla fine gli applausi scroscianti sono veri, il pubblico è vero, la messa in scena è vera, in diretta dal NDT – performance dei ballerini, una decina di donne e uomini in concerto, coperti di una calzamaglia color carne con polsi e caviglie orlati di rosso a omaggiare il decorativo dei nativi di Groote Island, che pestano i piedi, si schiaffeggiano il corpo, si avvoltolano sulla piattaforma come fosse sabbia e si rialzano atleticamente, muscolarmente provetti. Il tutto, nei primi 10’, senza l’accompagnamento di alcun suono, producendo essi stessi lo stumping in una giostra pletorica di grovigli che lì, nel contesto del NDT, appare persino più remota di quella aborigena. Solamente nei secondi 25’ intervengono le percussioni sonore di Carlos Chavez, compositore influenzato dalle culture native messicane (la Sinfonia India tutta percussioni) e dunque musicista più che ad hoc per commentare i balzi e controbalzi ‘selvaggi’ della coreografia di Kylián. Espressione oltranzista, questa volta, di quella fisicità che ha sempre connotato il suo teatro del corpo, il suo spettacolo tentacolare di tendini e tessuti pulsanti in simbiosi perfetta con l’orchestra – essendo essi stessi orchestra, orchestrali e orchestrati (dall’etimo greco che significa, pensate un po’, danzare).
La chambre
(Joëlle Bouvier e Régis Obadia, Francia, 1988)
“La camera è molto piccola, il tavolo nudo. Le pareti divisorie sono molto sottili. Un tipo un po’ robusto le farebbe traballare appoggiandovisi con forza. Sui muri di carta da parati, cade una fitta pioggia verticale di raggi neri, paralleli. Il letto è ben fatto, coperto da un copriletto bianco. Davanti al tavolo, una sedia. Lei si siede. Che fare? Dieci giorni oggi, è morto Nicolas. È vero. È passato del tempo ma la cosa non finisce”. Così Marguerite Duras, nella clausola del frammento iniziale della Seconda parte (la prima è meno interessante) di La vita tranquilla (1944), il testo a cui Joëlle Bouvier e Régis Obadia dichiarano, nei titoli di coda, di essersi ispirati per la loro coreografia La chambre. Dichiarano. Perché in presenza della loro videodance, assistiamo ovviamente a una trasposizione tutta interiore, mentale, filtrata attraverso il training del linguaggio corporeo, e, dunque, movenze plasmate ora dalla resistenza ora dalla flessibilità, ora dall’ipnosi ora dell’estasi, ora dal passionale ora dall’astratto, ora dal fluido ora dal sottopelle. Duras, nel ventunesimo frammento, chiosa: “Nella camera, quando la finestra è chiusa, quattro muri mi stanno addosso come fossero quattro domande: Nicolas è morto e Tiène se ne andrà, per raggiungere i vecchi genitori. E io, a quel punto? Io?”.
La camera di Duras è una camera da letto affacciata sul mare, prevede una sedia ma pure un armadio a specchio, nella quale la protagonista senza nome si guarda a lungo. In La chambre versione Bouvier-Obadia, coppia indivisibile della modern dance francese, fondatrice della compagnia “L’Esquisse” (Le Havre, 1980-1998, 17 spettacoli), la finestra in alto è ermeticamente chiusa come quella di un cella, e non c’è nessun letto; c’è, come dentro una cella, soltanto la sedia: seduta sulla quale, con una postura coatta da letto di contenzione – la mdp di Obadia, nel suo adoperarsi a fare della coreografia teatrale una performance cinematografica, le ruota attorno di 360° –, la prima ballerina Nathalie Million si divincola come una menade, si allunga per tutta l’estensione corporea che l’ancoraggio alla sedia le consente, accavalla istericamente le gambe, le rimette diritte, la allarga con uno scarto secco, le accavalla di nuovo, dondola il tronco, resetta con un gesto automatico il vestito. Mentre un quartetto d’archi da… camera – musica di Denis Levaillart – ne movimenta a sua volta il plasticismo dinamico.
Un’unica sedia. Sennonché, quando la mdp punta lo sguardo verso il muro di destra, che cosa scopre? Altre otto ballerine, prima tra tutte Joëlle Bouvier con i capelli agitati dal vento, appese alla parete su dei sedili aerei, intente a ripetere, identici, i gesti di Nathalie, come in uno specchio a otto facce – l’armadio a specchio di Duras. Del cui testo sopravvive quindi qualcosa; addirittura, forse, il movente stesso del discomfort (la morte di Nicolas). E forse anche la suggestione delle “quattro domande”, alle quali la coreografia di Bouvier/Obadia non può che rispondere nelle forme ‘sospese’ – il vento, le posture inclinate a mezz’aria, la coazione a ripetere, la mimesis delle forme in bilico tra sensualità ed estasi – che le sono connaturate: con risposte fisiche ed emozionali, quattro quante sono le domande di Duras – a ulteriore conferma che la scrittura durasiana non è per Bouvier/Obadia mero pretesto per una semplice decrittazione o destrutturazione.
1. Camera da letto. Lo abbiamo constatato: la sedia in assenza del letto, la finestra chiusa anziché aperta, lo specchio a… muro. 2. Camera di sicurezza. La finestra, irrimediabilmente chiusa (da dove arriva la ventilazione? lo scopriremo più avanti: dal basso), è come una finestra da segreta, manda una luce neutra, grigia, cinerea, opaca (l’uso del b/n, sostituito solo per un breve segmento dal colore). 3. Camera di tortura. Le otto compagne di pena di Nathalie si dimenano sui loro seggiolini per emularne gli spasimi, vi si allungano al punto da inclinarli sulla parete – la pioggia verticale sulla carta da parati di Duras? –, in un tentativo di eludere modalità da impiccagione, un tentativo che alla fine riuscirà (il segmento di colore, azzurrino, in cui vediamo i loro piedi nudi discendere oniriche scale da esecuzione capitale): anche se solo a raddoppiare, a ottuplicare, il rotolio isterico del corpo di Nathalie sul pavimento. 4. Camera a gas. Il pavimento su cui rotolano le ballerine emana miasmi sulfurei – ecco il motivo della ventilazione –, è un lembo vulcanico che ne ustiona e ne annerisce le carni, un magma ribollente da cui le vittime cercano di tenersi lontane, al contrario di Empedocle, addossandosi alle pareti come tante silhouette o cloni in attesa del proprio destino.
Fino a che il video ne sgrana i contorni e proietta quello di Nathalie, tornata seduta sulla sedia, in una schermata da televisore difettoso, a bande ondulate e punteggiate, su cui lo stemma di lei, allontanandosi da noi, si slabbra e si dissolve. Più Merce Cunningham che Carolyn Carlson (l’empedoclea), più Pina Bausch che Merce Cunningham, il palinsesto di La chambre riafferma l’autonomia della camera, della videocamera, quand’essa reinventa al meglio un evento coreutico e ne ritraduce l’alfabeto dell’irrequietezza nell’anatomia vieppiù stilizzata del cinema d’avanguardia.
For Bird with Love
(Thomas Grimm, Danimarca/Germania, 1990)
Nel suo A Tribute to Alvin Ailey (1990), Thomas Grimm, eminente director di balletti filmati, firma, e filma, con For Bird with Love (primo tributo ad Alvin Ailey a un anno della morte; il più recente, Ailey, è un rigoroso documentario di Jamila Wignot, 2021), la sua regia più cinematografica. A partire dai titoli di testa, ‘sparati’ in primo piano come in un musical di/da Broadway, alla Stanley Donen o alla Vincente Minnelli o alla West Side Story. Sullo sfondo glamour delle insegne al neon dei jazz club in cui “Bird”, alias Charlie Parker (1920-1955), si è esibito nel corso della sua fulminea e bruciante carriera – peraltro sufficiente, con la creazione del suo specifico, traumatico, personalissimo bebop, a rivoluzionare l’intera storia del jazz moderno.
Del resto Alvin Ailey (1931-1989), fondatore nel 1958 dell’Alvin Ailey Dance Theater, ha esordito giusto con i musical di Broadway, per poi abbandonarli per sempre a beneficio di messe in scena all black intrise di movenze afro, contaminate tutt’al più con qualche ascendenza classica (si veda, nel Tribute citato, Memoria). Staged by Masazuki Chaya. Music Charlie Parker Dizzy Gillespie, Count Basie Jerome Kern. Original Music Coleridge-Taylor Perkinson. Sets & Costumes Randy Barcelo. E che stage, che costumi, variegati e cangianti, in For Bird with Love, da puro coloured people (creazione del 1985, penultima delle 79 coreografie di Alvin).
Poiché si tratta innanzitutto di evocare uno slum di Kansas City, in dettaglio il sobborgo natale di Bird/Parker, con le freccine di una segnaletica sbilenca, e un’unica panchina sulla piattaforma blu tenebra di una malinconica strada di periferia. Poi, si tratta, dopo la consegna all’apprendista Bird, da parte del minister spirituale dello spettacolo-cerimonia, abito scuro, gardenia bianca all’occhiello e bastone da investitura, o bacchetta magica, del feticcio rituale del saxofono dorato – rito in chiave gospel (chiave ancestrale) vieppiù vivacizzato dall’incursione di quella modern dance di cui Ailey è stato uno dei massimi artefici. D’illuminare quella tetra piattaforma da antinferno. Di purificarla della malinconia e di trasformarla nella piattaforma scintillante di un Birdland o di un Three Deuce – i locali che hanno decretato il successo di Bird –, sovreccitata dalle sonorità afro degli ensemble di un Parker già stellare, già spalleggiato da un Gillespie alla tromba che emulsiona più degli altri la scena con i suoi assoli di modernistico impatto (musicali e coreutici al tempo stesso).
Dopodiché, si tratta di patinarla, quella piattaforma, per dare spazio alle 4-donne-4 di Charlie, Rebecca Ruffin, Geraldine Scott, Doris Durante, Chan Richardson (i nomi dettati dalle biografie: nel balletto ondeggiano come flessuose entraîneuse in bilico tra sedie e lustrini, in gara tra loro per contendersi Charlie, per respingere da sé gli altri musicisti del quintetto e gettarlo in quella narcosi da disinserito che sfocerà nell’assuefazione alle droghe e nella tossicomania. Da qui, il via libera, sempre coreografico e cinematografico, perciò muscolare e cadenzato, dialettico e sillabato, a un nuovo ottenebramento, a una nuova nudità della ribalta, alla misura – gemiti del sax alto – dello spasimo e della lacerazione. Fino alla straziante prova danzata della camicia di forza: che impedisce, più al Bird ballerino – ecco il bello dell’invenzione coreutica, dinamica e geometrica insieme – che al Bird internato nel reparto agitati del Camarillo State Hospital e successivamente del Bellevue, di lanciarsi come ha sempre fatto, di volare come ha sempre fatto, in quegli assoli vertiginosi di cui solo lui era capace, con un timbro del sax tra lo spezzato e il continuo, tra il legato e il destrutturato, pura angoscia in sol minore o furore in re maggiore.
Infine, un suo ritorno sulla scena jazzistica, tra specchi deformanti e ralenti cinematografici e focalizzazioni acide, che è mero inabissamento da brivido in accordi striduli e sincopati – è il periodo di Lover Man, la registrazione interrotta per malore presso gli studi Dial (1945), magnificamente ricostruita da Clint Eastwood in Bird (1988) –, culminanti nel gesto isterico del lancio del sax contro i piatti della batteria di Max Roach. E da lì l’inferno. Ovvero, la ricomparsa del minister, in corrispondenza con tre icone identiche di Charlie trentacinquenne, simmetriche all’icona giovanile da fototessera, con tanto di dati anagrafici, chiamata a fare da sfondo al primo numero di danza. Il quale minister non indica più, adesso, con la bacchetta magica, l’incandescente aureo futuro del protetto; se mai si adopera, con movenze felpate, a ostacolare l’avvento prima dei cinque diavoli in tuta rosso fuoco e poi delle 4-donne-4 in svolazzante abito da ballo parimenti rosso fuoco. Una scansione di passi, la loro, tumultuosa e arrembante, da destra e da sinistra rispetto alla pedana, liberatoria e ferale al tempo stesso, indirizzata alla sublimazione come all’affondamento. Bird – il reietto, l’eletto e insieme il reprobo – non c’è ancora. Ma quando il reietto riappare in un completo bianchissimo da angelo e non da demone, con il suo aureo sax svettante verso l’alto, non potrà che essere salvato dal minister, salvato sia dall’inferno sia dall’antinferno, e innalzato al rango dei beati.
Troppe allegorie in For Bird with Love? No. Nient’affatto. In primo luogo la danza, specie la modern dance, è intrinsecamente allegorica, in quanto figurata, immaginale, traslazione fisica-metafisica, corporea-incorporea, proiezione astratta del concreto. In secondo luogo, il with Love traduce di per sé la complicità tutta afro con cui un afroamericano come Alvin Ailey, da Rogers (Texas razzista), ha trasposto sulla scena, nella cifra astrale della coreografia, il vissuto di un artista che – da “persona magnetica” quale lo ha descritto la poetessa Anne Carson in un excursus di Autobiografia del Rosso (1999, XVI, 11) – ha segnato profondamente la cultura americana di colore. Di colore e di dolore, ci si consenta (Bird è morto per un’overdose di stupefacenti, Ailey morirà di Aids). In terzo luogo, la complessa, contraddittoria, vicissitudine umana e musicale di Bird (che significa anche “uccello da cortile”) necessitava di una danza-contraddanza fatta di simulazioni e dissimulazioni, dilatata nell’arco di uno spettacolo scandito in almeno cinque numeri o episodi. Ascesa-caduta-ascesa-caduta-ascesa ma non solo.
La leggenda ultima di Lover Man, allora? Forse. Ma di Bird esiste, a monte, una leggenda prima, quella di un Charlie ragazzino fuori scuola che si aggirava per le strade malfamate di Kansas City con il suo strumento avvolto in un giornale, sempre pronto a unirsi a qualche gruppo di strada e a suonare jazz (in principio, quello dell’adorato Lester Young). Ebbene. Che cosa offrono i ragazzi e le ragazze di strada del primo numero, sotto l’alto patrocinio del minister, al ‘predestinato’ Charlie se non un sax fasciato in un panno bianco? Un sax abbagliante come oro, però. Tanto che egli (Gary Deltoach) lo accoglie come un dono magico, il dono iniziatico tanto atteso; lo brandisce; ne fa uscire i primi suoni-vagiti; lo sbandiera in alto in segno di trionfo. E tanto che i cinque ragazzi del gruppo (Dwight Roden, Desmond Richardson, Stephen Smith, Andre Tyson, Dereque Whiturs) – mentre le quattro ragazze (le sublimi Marilyn Banks e Deborah Chase, muse di Ailey, più Elizabeth Chase e Desire Vlad), assecondano già il ritmo indiavolato del jazz – s’impossessano all’istante di altri strumenti.
Uno di loro, in particolare, si appropria di una tromba ugualmente dorata e giostra al centro della piattaforma dettando un ritmo lancinante – l’introverso Parker è sempre stato psicologicamente subalterno al vulcanico, estroverso Gillespie. Chi è l’intraprendente? Davvero Gillespie? In ogni caso è il medesimo trombettista che, nel secondo numero – accompagnato fuori programma da un’inconfondibile voce femminile, quella di Billie Holiday –, il numero frenetico del Three Deuce o del Birdland, s’impone da trascinatore, indossando un paio d’occhiali scuri. Per cui si dissipa ogni dubbio: sì, era proprio Gillespie il ragazzo esagitato del primo numero, impersonato alla grande da Desmond Richardson. Così come – da interprete a personaggio vs personaggio a interprete – il minister provvidenziale e moderatore di ogni eccesso (e sono tanti, coreutici ma non solo: attoriali, sonori, plastici), il sesto uomo – non già un ragazzo, quanto il maturo celebrante della liturgia – non potrà che essere impersonato da Dudley Williams, il fiore all’occhiello maschile dell’Alvin Ailey Dance Theater. È lui che incorona Bird. È lui che ne guida i passi (Gary Deltoach è, non sappiamo se per volontà di Ailey, un po’ impacciato, un po’ statico, nel corso dell’intero balletto) verso l’ascesa, lungo la caduta e verso l’ascesa finale. È lui che ne propizia l’assunzione in cielo.