Dal sacro al profano. I due primi film italiani a colori: Mater Dei e Totò a colori
di Francesco Salina
Mater Dei di Emilio Cordero, 1951
Sia lodato cautamente questo presbitero, Emilio Cordero, prete paolino cineasta. Filmò il suo terzo lungometraggio convertito a un neorealismo spontaneo, apologetico e colorato. In apertura una sequenza bucolica, un laghetto, cigni bianchissimi, paesaggi, uccelletti cinguettanti sui rami. Molti altri animali. Anche feroci, una tigre, un orso, un lupo, un leone, presunti mansueti. Una voce narrante fuoricampo favoleggia di un serpente, che avvinto ad un albero induce Eva a cogliere il solo frutto proibito, la mela. Accorti esegeti sostengono, con buona ragione, che il frutto era un fico. La coppia originaria gusta il proibito. Ha disobbedito, ‘peccato’. Viene cacciata dal Paradiso.
Il film è articolato in due parti. Nella prima, Maria, la Madonna, Tota Pulchra, è raffigurata dall’infanzia all’adolescenza, all’annuncio che il suo corpo sarà teofanico, fino allo strazio patito nell’assistere alla cruenta via del calvario, al sacrificio di suo figlio inchiodato a una croce di legno sulla cima di un monte, il Golgota. Seguono resurrezione e assunzione in cielo di entrambi.
Il film è anche una preghiera, rituale, pastorale, cristianamente militante. Restaurato in digitale a cura di Vittorio Giacci per il Centro Sperimentale di Cinematografia, si ripropone. Pregiati appaiono i primi e primissimipiani. Stacchi perentori e dissolvenze attraversano spazio e tempo, eventi e luoghi, celebrando la Storia Sacra. Una saga si svolge, una liturgia dedicata alla Vergine e Madre figlia di suo figlio, la Theotokos, generatrice di un Dio. Una catechesi mariana, una esegesi escatologica ad populum. Con sorprendente naivetè il film si evidenzia anche per l’interpretazione ieratica degli attori nel rallentamento recitativo di un cast di non professionisti. In controtendenza al movimento cinematico le attanze si statizzano come manichini hi-tech. Il film piacque a Rossellini e a Pasolini. Nel suo primo cimento cinematografico, Accattone del 1963, le panoramiche su figure allineate, i primi e primissimipiani sui volti dei ragazzi di vita protagonisti, rivelano l’imitatio dal film di Cordero. Naiveté sacrale e innocente nel sacerdote regista, scaltra e meditata in Accattone, come mostrano le storyboards disegnate di sua mano sulla sceneggiatura.
Mater Dei nella seconda parte rallenta e scivola nell’eccesso didascalico, apologetico, nel patetismo, parzialmente riscattato dal cromatismo del metodo americano Ansco Color. Riprende quota con due eccellenti sequenze, le Nozze di Cana e L’ultima Cena, e la ricognizione iconografica di Sacre Maternità. L’infante, Gesù Bambino, è ritratto avvinto, felicemente poppante al seno prosperoso e generoso della sua dolce madre, Virgo lactens. Opere eseguite nel tempo e nei Templi dai più eccellenti pittori dal Medioevo all’Ottocento, fino ad alcune algide, accollate e pudìche Maternità del Novecento. Nel rappresentare le Nozze di Cana Emilio Cordero ricorre al Vangelo di Giovanni, il più dettagliato, il più esplicito, il più mariano. Hanno finito il vino, dice Maria a suo figlio, e rivolta ai servitori: fate tutto quello che lui vi dirà. Gesù replica: Donna, non è giunto il mio momento. Non dice Madre, non dice Maria, dice Donna. Lei non tiene conto delle parole del figlio, ripete l’ordine: fate tutto quello che lui vi dirà. L’acqua si muterà in vino. Grande Donna, grande Domina, grande Madre. L’altra sequenza eccellente raffigura L’ultima Cena. In un assetto memore di iconografie classiche, Gesù solleva il calix sanguinis, e il logos, la parola, si fa carne. In questa sequenza Cordero apre uno spiraglio inquietante. Uno di voi mi tradirà. Giuda si accosta a Gesù: forse io sono quello? E Gesù a lui: tu l’hai detto. Ma aggiunge: fai quello che devi fare. Fraseggio imperativo che il regista sceneggiatore introduce nella scena: fai quello che devi fare. Cordero non poteva avere cognizione di quanto venne scoperto in Egitto negli anni 70 del Novecento, il Vangelo di Giuda. Celato per 1600 anni, il papiro fu ritrovato casualmente in una grotta da un pastore all’interno di un orcio. Redatto nel II secolo, raccoglie le memorie tramandate oralmente dei dialoghi tra Giuda e Gesù, scritte in aramaico. La scoperta stupì e sconvolse non solo i cristologi. In totale contrasto ai Vangeli del Nuovo Testamento, al contrario del famigerato traditore, Giuda si rivela tra tutti gli apostoli il preferito. Il solo degli ignoranti discepoli a comprendere le sue parole, dice Gesù. Di denunciarlo glielo ha chiesto, in modo che la sua missione possa compiersi, secondo la volontà del Padre. Giuda, il più vicino a Gesù, il più amato, il solo affidabile, eseguirà. Dopo il sacrificio del Redentore, sarà catturato, incarcerato. Quale fedele seguace, il più vicino al proprio Maestro, sarà giudicato, condannato, squartato vivo. Giuda Iscariota nel suo Vangelo, si rivela come martire designato, sacrificato, venerato. Figura Santa. Emilio Cordero, prete paolino, regista, attore, sceneggiatore, produttore, direttore della Sanpaolo Film, ha realizzato due altri lungometraggi, Inquietudine, b/n, 90 min, 1946, e Il piccolo ribelle, b/n, 92 min, 1947, oltre a numerosi documentari.
Totò a colori di Steno, 1952
Proiettato nelle sale con atteso, clamoroso successo, Totò si presenta in tricromatico Ferraniacolor. Si esibisce in scene e ruoli riproposti da film precedenti realizzati in b/n. Ѐ il suo ventiquattresimo film, vivace, esilarante, colorato, rivoluzionario e unitamente reazionario, un’antitesi costante in Totò. In quattro episodi il Principe napoletano esibisce magistralmente buona parte del suo repertorio. Mimica, gestualità e popolare volgarità, con smisurata abilità attoriale, cinematografica e teatrale. Tuttavia senza dimenticare la lezione di certo appresa dal comico messicano Cantinflas, noto e visionato in mezzo mondo, Italia compresa. Inizia in un teatro ambulante, poi nei varietà di provincia. Nel 1936 debutta nel cinema. Accolto a Hollywood si affaccia al Premio Oscar. Gratificato come il ‘Charlie Chaplin messicano’ è stato definito dallo stesso Chaplin il più grande comico vivente, con un pizzico di generosità. Il suo repertorio mimico, la gestualità da marionetta, di certo sono stati visionati dall’esordiente de Curtis, già dalle prime apparizioni sulle scene dei teatrini napoletani. Nel primo episodio Totò si propone nei panni di un musicista, stonato ma imperterrito. Fino al trionfo paesano, ma con un imprevisto, movimentato finale. Nel secondo episodio, giunto a Capri come venditore ambulante, viene accolto da un branco di snob eternamente in vacanza. Acclamato da vecchi ragazzi, da giovani spensierati, da gay raffinati, da ricchi diseredati, da donne molto ciarliere e da altre assai procaci. L’episodio, che vorrebbe apparire una satira pungente nei confronti di quelli che negli anni cinquanta venivano definiti intellettuali, si annovera invece come moralistico e reazionario, complici il regista Steno e l’interprete Principe e principale. Nel terzo episodio, mentre su un treno, in un vagon-lit, duettano Totò e Castellani, sua spalla abituale, irrompe la bella, formosa Isa Barzizza, nel ruolo di una ladra dal fondo schiena clamoroso e intoccabile. La bella si acconcia per la notte, in uno spogliarello tanto casto da venire risparmiato dalle forbici della censura, all’epoca servilmente andreottiana. Totò, dando le spalle alla bella Isa, seguendo con un dito lo sguardo infoiato del proprio partner Castellani, le punta l’indice sul punto cruciale, e col solo dito lo tasta. La furbacchiona non si scompone. Nella notte sfilerà i portafogli ai due compari. Nella tranche successiva un duello verbale, duellato tra Alberto Talegalli e Totò. Si azzuffano in napoletano e in ciociaro, in una prolungata inquadratura fissa propria all’avanspettacolo. In fine il Principe ci delizia con un suo numero classico. Mima magistralmente le movenze di una marionetta. Figura composita, tra un Pinocchietto e un improbabile Pierrot lunare. Animata da fili invisibili, gesticola meccanicamente, avanza a passi legnosi, piroetta, saluta il pubblico e si accascia contro una quinta, come fosse abbandonata dai fili manovrati da un abile marionettista. Totò ha interpretato novantacinque lungometraggi, dal 1937, Fermo con le mani per la regia di Gero Zambuto, fino a Il padre di famiglia del 1967, di Nanni Loy. In tutte le sue performances Totò non ha molto da condividere col classico Pulcinella, l’antica maschera indossata dal grande Antonio Petito in pieno Ottocento sul proscenio del teatro San Carlino di Napoli. Amato dal popolo, dall’alta borghesia e dall’aristocrazia napoletana, lo straordinario interprete di Pulcinella morì sulla scena nei panni del personaggio che aveva riportato in auge. Morì indossando l’antica maschera nera. La sua fede liberale, indusse la chiesa cattolica, ancora imperante su vita e morte dei cittadini, a vietarne ‘cristianamente’ le esequie.
Il repertorio di Totò non sembra appartenere a quella maschera. Totò non ha propriamente una maschera. Lui stesso in carne e ossa la ‘incarna’. E come tale, nasce, gioisce, patisce, si esibisce nei più disparati, disperati ruoli. In arte e in vita, come aristocratico Principe nato povero, come proletario divenuto milionario, come il comico più popolare, il più sottile e il più scurrile, come rivoluzionario strettamente intrecciato col reazionario, come poeta e come musico, Totò non ha una maschera. Ѐ il fool, l’antico menestrello, girovago nelle strade e nelle piazze. Quello che, durante il XV e XVI secolo, venne ingaggiato nelle Corti europee. Dove, in qualità di giullare sagace e sferzante, poté permettersi qualche licenza nei confronti degli stessi Monarchi e Re. Audacia che, non di rado, gli costò la testa. Totò, dalle Corti più antiche, dai geniali, mordaci giullari fino ad oggi, sarebbe il solo capace di far sbellicare dal ridere il Re più angustiato, più indaffarato, più preoccupato, il Re più triste. Totò non ha un volto privato come ogni interprete quando esce dal ruolo e si toglie la maschera. Da sempre e per sempre, in arte, in vita e in morte, Totò è stato ed è, corpo e anima, solo e solitario, irrimediabilmente una maschera.