CRY MACHO di Clint Eastwood
L’ombra dell’archetipo
di Massimo Causo
Cry Macho è un film di una semplicità archetipale pura, ha una limpidezza che lascia vedere in trasparenza la struttura su cui l’intera opera di Clint Eastwood si è retta. L’ingenuità di questo film orgogliosamente “tardo”, da molti rimarcata come debolezza, non è che il frutto della spoliazione alla quale è sottoposta l’architettura del film.
Clint Eastwood libera Cry Macho da tutte le motivazioni sovrastrutturali che appartengono alla forma narrativa (snodi, soluzioni, climax, motivazioni: tutti fattori intoccabili nell’impero dello storytelling seriale contemporaneo…), per lasciare sullo schermo il nudo archetipo eastwoodiano. Che è il superamento dell’opposto sentire, la ricostruzione di un rapporto dinamico con la parte di sé organicamente rimossa, trascurata, sacrificata nel segno dell’iconografia che l’eroe ha vestito per anni: “I used to be a lot of things, but I’m not now. This macho thing is overrated”, dice Mike a Rafo che gli rimprovera la sua debolezza e lo pone dinnanzi alla verità che ora non è più nulla di tutto ciò che un tempo è stato.
Cry Macho è esattamente questo: la raffigurazione semplice, al limite del naïf e dunque della sincerità assoluta, del processo di trasformazione del mito nella sua verità. Non è un caso che Clint Eastwood abbia atteso tanto per lavorare su questo romanzo di N. Richard Nash, apparso nel 1975 e già passato per le sue mani alla fine degli anni ’80: Clint non era interessato al tono crepuscolare della storia, alla questione dell’ex campione di rodeo con la schiena rotta. Nel personaggio di Mike, Eastwood vedeva l’ombra dell’archetipo e il corpo della transizione che nasce dalla consapevolezza,dalla presa d’atto del valore dell’opposto.
Che il film sia collocato dinamicamente sulla linea di un confine è fondamentale, proprio perché su quella linea si definisce l’idea del trapasso, del transito da una condizione all’altra. È un film quasi orfico, Cry Macho, Mike è un eroe rimasto solo che si reca negli inferi per riportare indietro con sé ciò che di più caro ha perso. E Rafo, col suo gallo da combattimento chiamato Macho, è ovviamente l’ingenua incarnazione di quel mito archetipale dal quale Mike/Clit si sta separando. Ma è anche la forma plastica di quella ingenuità, la figurazione dinamica di un’iconografia da depotenziare e reincarnare nella vita reale.
Rafo è quel confine, incarna quella transizione, e Mike/Clint glielo espone chiaramente quando rifiuta di fargli indossare il suo cappello da cowboy e gli ricorda che lui è per metà messicano e per metà “gringo”, americano. Lo sconforto che ciò provoca in Rafo è lì a dire di un processo di ridefinizione in corso, di rivalutazione dell’essere, che deve essere esattamente la ragione per cui Eastwood ha voluto fare Cry Macho. Tutt’altro che un film “senile”, piuttosto un film di rigenerazione, di trapasso e ridefinizione, di ricollocazione del mito nel suo corpo vero, autentico: alla fine a Mike risulta evidente che non è andato in Messico per tirare fuori un ragazzino dall’inferno, ma per liberare il suo corpo dall’ingenuità del mito e restituirlo alla vita reale.
Su quel confine è solo Rafo a calcare i passi orfici e a voltarsi, lasciando infine indietro Mike e Macho, il suo gallo. Il mito del cowboy, Clint, resta serenamente a ballare con la sua Euridice nel fuori tempo astratto di un vecchio saloon, nel controluce della polvere del tempo. Nella dolcezza del suo cinema.