CRY MACHO di Clint Eastwood
Ho sognato che ero in un bar nel deserto, ma ci sono davvero
di Giovanni Festa
Mike Milo, un uomo anziano, ex stella del rodeo, senza famiglia (la moglie e la figlia sono morte in un incidente) deve andare in Messico a prendere il figlio di un amico e riportarlo negli Stati Uniti, dal padre (i cui sentimenti nei confronti del figlio sarebbero ambigui: lo fa per riparare tardivamente all’abbandono o per ricattare la ex-moglie e riavere alcune proprietà che i due hanno in comune?)… Milo non vorrebbe, ma è obbligato al viaggio da un debito d’onore (è l’amico che lo ha tenuto a galla e gli ha prestato denaro durante i giorni bui dell’alcolismo).
A Città del Messico il ragazzo, Rafael, vive in mezzo alla strada: fin dalle prime immagini ci è subito simpatico, con quell’aria poveramente trasandata e gli occhi accesi, da ragazzo di vita pasoliniano trapiantato nei barrios della megalopoli latinoamericana. Lontano da casa, cioè lontano dalla madre, magnifica figura di dark lady attraente, colpevole e divoratrice che passa da un amante all’altro e deve la sua vita agiata ai proventi di attività illecite. Durante il viaggio di ritorno, in auto (c’è, nel film, un elemento del viaggio on the road, iniziatico, e tipicamente americano, su e giù dalla frontiera), il vecchio intesserà con il giovane un rapporto profondo di fiducia e amicizia. Già da queste prime linee sorgono, come tracciati aurei su una parete di roccia, i tre assi portanti del film: il debito che bisogna onorare (elemento, questo, che il film condivide con altri film di Eastwood, pensiamo solo a Debito di sangue) e che possiede lo stesso ruolo del destino nell’epica, quello di trascinare l’uomo riluttante e al crepuscolo, che almeno all’inizio agisce suo malgrado, in una peripezia; lo scavalcamento della frontiera (che ritorna, per esempio, in The Mule) intesa come operatrice di questa transvalutazione di tutti i valori; il bildungsroman, il romanzo di formazione (presente anche in Gran Torino). C’è anche un quarto elemento: Milo, durante l’avventura, si innamorerà di una locandiera messicana.
Il passaggio Messico-Stati Uniti non è mai stato, nel cinema americano, un atto senza conseguenze (vengono subito in mente gli sconfinamenti reiterati e pericolosamente mortali di Peckinpah, i detour di Monte Hellman ma anche, per citare un esempio più vicino e legato alla produzione “di genere”, l’ultimo, dolente Rambo di un regista colto e sensibile come Stallone) e comporta due aspetti essenziali: una posizione dichiaratamente realista e quindi “politica” (la polizia corrotta; l’ombra del narcotraffico sul lato sud; i rapporti affettivi consumati dalla logica perversa del profitto nel lato nord) e la presa (parola che contiene l’idea di afferrare ma anche di trattenere) di una direzione rettilinea e implacabile da parte dell’eroe volitivo, di una strada che non deve, semplicemente, percorrere o attraversare, ma che comporta scarti, soste, cambi di direzione, ri-mappature, sacche di tempo: era quello che faceva il protagonista del precedente film interpretato da Eastwood, Leo Sharp. L’uomo, che diventa un corriere della droga per saldare i debiti, riesce a sopravvivere al cambio di regime dello scavalcamento inserendo nella direzione unica e sempre uguale, senza fermate, del percorso stabilito dai narcos, tutta una serie di finte, fermate inattese, improvvisazioni che assumevano il ruolo, nel rigido plot del passaggio della droga, di creazioni estemporanee che “fanno” il film e lo alimentano attraverso il ritardo e lo scarto temporale (che era il gran tema di Sully). Alla fine sarà la malattia terminale della ex-moglie e la morte a obbligare il corriere al movimento di svolta e all’arresto temporale – diversi giorni senza consegnare la merce per congedarsi dalla donna morente – decisivi per riconquistare affetti che si credevano perduti, fino all’amara constatazione che il tempo (che aveva provato a disseminare come i soldi che andava guadagnando) è l’unica cosa che non si può comprare. Anche Milo sembra in possesso di una sapienza simile a quella di Leo, quella di frammentare e parcellizzare la linea retta della consegna (non dei pacchetti di droga, ma di un figlio) in una serie di soste che permettono il fermentare e l’approfondirsi della relazione duale e il crescere dell’affetto fra il vecchio e il ragazzo.
Durante il viaggio di ritorno Eastwood fa una sosta che si rivelerà decisiva in un villaggio nel quale, a causa della caccia della polizia corrotta e dei “dipendenti” della madre di Rafael, si avverte la presenza del bildungsroman. L’educazione del giovane Rafael prende l’avvio e si articola infatti attraverso due spazi gemelli e circolari: l’arena dove si affrontano i “gallos de pelea” e il corral dove i cavalli selvaggi vengono addestrati, figurativizzazione, entrambi, di un elemento circolare, di una traiettoria che evoca la circolarità, l’eterno ritorno e la ripetizione, all’interno di una direzionalità che avevamo pensato fosse solo rettilinea. Due ripetizioni, dunque: Deleuze però ci suggerirebbe di scorgere nell’una e nell’altra una diversità radicale: una è infatti cattiva, l’altra buona. La prima è cattiva perché allude alla vita di Rafael prima dell’incontro con Milo, che vede il giovane immerso nella precarietà della vita di strada, fra arresti della polizia, povertà e reiterate fughe da casa.
Nel recinto dei cavalli, invece, Rafael apprende non solo a cavalcare, ma anche ad amare gli animali e a diventare abile in un mestiere che gli consente di guadagnarsi onestamente da vivere: attraverso il lavoro, l’adolescente scapestrato diventa uomo. Inoltre è proprio grazie alla ripetizione della domatura dei cavalli che il rapporto fra questo figlio perduto e il suo padre putativo cresce e si rinsalda. Il Cavallo in un certo senso sostituisce (secondo una relazione più antica e pura e che si ricollega a forme di vita preindustriali e raminghe che erano quelle del vecchio west con la sua mitologia, che tra l’altro affascinano fin da subito Rafael e lo motivano a partire) il simbolismo che era proprio dell’automobile rosso fiammante di Gran Torino (concrezione splendidamente inutilizzata della forza lavoro dell’uomo nella catena fordiana della fabbrica di automobili). Eastwood, nella sua ultima trilogia che lo vede protagonista in veste di autore-attore (scritta dallo stesso sceneggiatore Nick Schenk) in quella che è una coraggiosa resa dei conti con se stesso e la sua mitologia (azione iniziata però già quasi trent’anni fa con Gli Spietati), in quest’ultimo film è come se avesse portato al limite o comunque a compimento questo scavo, dissodamento, apertura di crepe nel monumento che la storia del cinema gli aveva eretto in vita.
La cattiva ripetizione porta con sé, inaspettatamente, un elemento positivo, ossia Macho, il gallo de pelea: non si tratta di un personaggio banale ma di una figura che lo sceneggiatore di Eastwood preleva dal cine de oro messicano (El gallo de oro di Gavaldon, a sua volta derivato dalla nouvelle di Juan Rulfo e sceneggiato da Fuentes e Marquez) e moderno (il remake di Ripstein, El imperio de la fortuna) e che riveste nel film il ruolo che per Propp l’ “aiutante magico” aveva nelle fiabe russe. Il gallo trascina allora il romanzo di formazione e il realismo del film nei territori della fiaba (il gallo risolve positivamente o aiuta la coppia a tirarsi fuori da due situazioni difficili).
Fiaba che scivola all’improvviso nel crinale del sogno: Milo, durante la prima sosta nel pueblo messicano e nella locanda di Marta, si addormenta su uno dei tavolini accanto alla finestra che danno sulla strada e quando riapre gli occhi dice: “Ho sognato che ero in un bar nel deserto, ma ci sono davvero”.
Milo, l’anziana stella del rodeo diventa all’improvviso savio come Chang Tzu: se il savio cinese sognò di essere una farfalla e al risveglio non sapeva se fosse un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che stava sognando di essere un uomo, in Messico perde quelle coordinate che la frontiera voleva tenere stabili e forzare in senso manicheo (e che erano ancora ben chiare al protagonista di The Mule che, quando aiuta la famiglia con l’auto in panne, li apostrofa come “negri” dicendo che loro e i bianchi “non sono la stessa cosa”, o divide i nordamericani “mangiatori di carne” dai messicani “mangiatori di fagioli), da un lato i messicani, dall’altra i gringos, da un lato il mondo urbano, dall’altra il deserto costellato da piccoli villaggi che sembrano comunità autosufficienti e ancora legate ad una economia preindustriale, da un lato lo “striato” e dall’altro il “liscio”. Ma, anche, se vogliamo, fra utilitarismo e forme di religione e credenze “millenariste”, come nella cappella della Virgencita, la Vergine di Guadalupe dove i due trovano riparo: se per l’americano ateo e volitivo è solo un posto dove passare la notte al caldo, per Marta e Rafael è un luogo di culto, che non può essere occupato altrimenti che per l’orazione.
Il Messico è il luogo dove la durezza dei contrasti subisce un processo di intenerimento grazie alla musica del paesaggio che lavora come un’imbibizione che apre e commuove, come quando Milo, dal finestrino dell’auto, commenta il paesaggio che scorre al di fuori come un nastro. Intenerimento che avviene anche nello slittamento (progressivo, temporale) fra le due parti che programmaticamente compongono il titolo tenendolo insieme in un ossimoro, Cry macho.
Da un lato un aggettivo, macho (allusione al passato di stella di rodeo di Milo, ma anche all’intera prima parte della carriera eastwoodiana, costellata di personaggi tutti d’un pezzo, dotati di un sistema di valori dualistico e di un atteggiamento aggressivo, affermativo, positivo, senza l’ombra del dubbio: viene subito in mente, come un flash, Clint che avanza con una jeep in una sterminata terra desertica mentre un indio lo tiene sotto tiro da una scarpata in L’uomo dalla cravatta di cuoio di Don Siegel, dove interpreta la parte di uno sceriffo dell’Arizona che vive dentro un sistema di valori antiquato e “altro” rispetto a quello della Big City (per non parlare, ovviamente, dell’urbanizzato e violento Callaghan); Eastwood, accusato più volte da Godard di essere un fascista anche nell’elezione dei “punti di presa” e che vota il partito repubblicano…
Dall’altro il verbo, Cry che implica il sorgere di un altro orizzonte di sentimenti, quello della commozione: è un po’ come vedere le maschere inalterabili del teatro Nōsolcate da una impossibile crepa (e non è una maschera, appunto, anche la recitazione cosiddetta “sottotono” tipica della Hollywood classica che Eastwood ha trapiantato nella modernità e dove l’attore transita attraverso la galleria dei suoi personaggi rimanendo sempre se stesso come cifra individuale e marchio?) Non che le lacrime di Milo si vedano, intendiamoci, quando, ad esempio, nel momento di massimo turbamento si congeda da Marta (anche lei una donna a cui non piace cedere alle emozioni del cuore e che pure rompe in un singhiozzi e lacrime trattenute) e abbandona il villaggio; eppure, inquadrato di spalle, la cinepresa che si ferma davanti a quel corpo alto e curvo di vecchio salice scosso da mille buriane, possiamo indovinare il peso di un addio che gli lacera, per l’ennesima volta, il cuore troppo pieno di immagini, di stagioni, di vite, per potersi rinsecchire come una foglia o un fiore.
Il nostos, il “ritorno a casa”del sottotitolo italiano assume allora un senso diverso: più che essere il ritorno a casa di Rafael, il figlio, è quello di Milo che, alla fine del film, davanti alla frontiera con gli Stati Uniti, inverte la direzione dell’auto e, al contrario di Leo Sharp, il corriere che su un pezzo di strada rettilineo incontrava la sua condanna, spezza la logica della linea retta e sempre uguale, fa subire alla retta la passione (il “cry”, appunto) della curva e ritorna indietro, nel pueblo, da Marta, nella locanda, dove per la prima volta dalla morte dei suoi si era sentito finalmente a casa.
Per ricominciare quel ballo che aveva iniziato e aveva poi dovuto interrompere bruscamente sapendo che, adesso, non dovrà concluderlo mai più.