40º Tff: Corpo dei Giorni di Santabelva
La cosa giusta
di Francesco Scognamiglio
Un’automobile avanza nelle campagne del Viterbese. Vi sono dei giovani all’interno che cercano di orientarsi per arrivare a destinazione. Uno di loro sta filmando.
Ecco un casale sperduto, è questa la destinazione.
Varie persone del luogo iniziano ad apparire dinanzi alla camera, ma in un primo momento solo una sembra interessare maggiormente al collettivo. Come in una caccia si avvicinano sempre di più a quello che sembra essere il soggetto della loro documentazione.
È un uomo di 76 anni, con i capelli bianchi, tranquillo. Ha un sigaro in mano. Sta osservando intorno a lui i giovani registi dietro le strumentazioni tecniche. È praticamente circondato ma pare così sereno.
Non è un attacco frontale che permetterà ai ragazzi di “SantaBelva”, il collettivo vincitore per questo documentario, Corpo dei Giorni, del premio Concorso Doc. Italiani del Torino Film Festival, di creare un confronto. Anche se la tentazione è forte devono studiare prima una strategia, ma nessuna servirà se non quella di documentare l’intero corpo dei giorni.
Quest’uomo è Mario Tuti, fondatore del Fronte Nazionale Rivoluzionario, personalità problematica per lo stato italiano in quanto terrorista nero. Condannato a due ergastoli per omicidi e responsabile di altri svariati atti criminali, nel 2020 a causa dei problemi pandemici e del lockdown ha ottenuto un permesso speciale per trascorrere 100 giorni fuori dalla galera.
E così il film ci mostra l’intero arco temporale di libertà provvisoria concessa a Tuti in un casale di un amico nel Lazio.
Il collettivo si destreggia nel filmare momenti reali che mostrano il lavoro nelle campagne cercando di catturare parole sincere dalla bocca del loro nemico giurato, soprannominato “caterpillar”. Nascosto dietro il suo ghigno se ne guarda bene dal mettersi a nudo.
Tuti è spesso al telefono, gli arrivano messaggi, chiamate, fotografie. Molti amici vogliono sapere come se la passa un ergastolano che presto tornerà tra le sbarre. Potrebbe essere scambiato per un simpatico zio, forse un po’ cieco poiché costretto ad avvicinarsi al piccolo schermo retroilluminato, simbolo della pandemia.
Non è più il mondo che conosceva e lui lo sa. Gli sta bene così. Ha già speso le energie per combattere per quello in cui credeva o forse ha combattuto semplicemente per essere qualcuno, per sentirsi vivo?
Questi giorni sono un regalo, ma anche in galera Mario Tuti riesce a vivere senza alcun rimorso, senza apparente delusione. L’eroismo lo ha persuaso.
Ed è proprio questa convinzione, questa salda giustizia autoindotta, che non fa andare giù il boccone alla Belva a caccia della doppia faccia del “vecchietto”.
Il film allora rende chiaro il motivo della presenza dei filmmaker. Loro sono ragazzi della nuova generazione e per di più avranno studiato e visto tanto cinema. Non possono dunque abbracciare un’unica visione delle cose. Per loro la realtà è un punto di vista. Ma proprio quello di un terrorista nero contento degli andati bei tempi violenti li rende vogliosi di un confronto diretto.
Iniziano quindi a mettersi in gioco apertamente, in quanto rappresentanti della nuova generazione, ponendo al terrorista una serie di interrogativi.
Tralasciando il credo politico vogliono sapere se Tuti prova rimorso per gli omicidi che ha commesso.
Per questo tentano in tutti i modi di fargli leggere l’estratto di una sua intervista tenuta da Marco Gasperetti per il «Corriere della sera».
«Con la giustizia credo di aver saldato il mio conto. Il carcere cambia radicalmente le persone e, anche se non amo definirmi pentito, oggi non sono socialmente pericoloso e non mi ritengo neppure una persona malvagia. Con la mia coscienza, però, il conto è ancora aperto. Non ucciderei più, ma ciò non mi consola. Provo un dolore profondo e incancellabile per ciò che ho commesso.»
Ma Tuti si rifiuta di leggerlo, non vuole cedere a quell’immagine di sé, conscio del proprio apparire, ha già deciso di tenersi lontano da certi commenti. Preferisce far intendere che non avrebbe cambiato nulla di quello che ha fatto.
In una delle ultime conversazioni dice che è stato forte e deciso in tutte le decisioni prese e continua dicendo che i giovani d’oggi non hanno il diritto di giudicare quello che ha fatto poiché non hanno la facoltà di capire il suo percorso di vita.
Sembra quasi che ai suoi tempi la cosa giusta era più facile da incontrare per strada o probabilmente cresceva sugli alberi, o forse i tempi ti costringevano ad abbracciarne una per poterti sentire meno solo. È facile cedere ad un ideale.
Per la nuova generazione è difficile avere un ideale. Persino questo documentario si rivela un’impresa. Cosa possiamo ottenere da questo diario di quarantena non essendo questa un’effettiva indagine su un assassino fascista?
È sottointeso dall’inizio che il mostro è marginale. È lontano. Sono parole su Wikipedia.
Ma come dimenticarsi delle bombe e del sangue.
Le persone vicine al male, sono anch’esse vittime di questioni universali.
Pio, il proprietario del casale e gli amici che passano di lì hanno tutti qualcosa da condividere. Attraverso le conversazioni a tavola o durante il lavoro nei campi comprendiamo che tutti sono ingabbiati nel proprio passato, schiavi della crudele e aspra natura che genera sia tante soddisfazioni che sofferenze. Un signore vede finalmente sua nipote in videochiamata, il rapporto con sua figlia si sta ristabilendo piano piano. Ma l’amarezza permane.
Pio invece soffre di solitudine, presto si troverà nuovamente da solo nelle sue terre. Si è affezionato all’idea di avere Mario e i ragazzi tra i piedi, per non parlare di tutte le persone che venivano a salutare il vecchio amico, per loro un “eroe”.
Pio non ha moglie né figli, sembra una persona semplice e gentile, vuole bene agli altri. Quando Tuti torna in galera si commuove. Ma è proprio la sua umanità a farci ricordare che l’essere umano è elementare e che solo se si ha la voglia di ascoltare si comprende la nota del canto.
Siamo vittime dell’esperienza, la caccia per “Santabelva” è finita. Così il documentario si conclude in una rinuncia alle armi. La mancata risposta a quello che sembrava essere il tema della ricerca portata avanti dal collettivo tramite il confronto con Tuti, cioè smascherare il male e rendere visibile la debolezza dell’essere umano infimo, confluisce in un’apparente frustrazione e quindi in una rassegnazione pari a quella provata nel guardare un mostro immobile in un’ampolla di vetro.
Per i giovani registi e per tutti i giovani rappresentanti di una nuova generazione la fitta storia di violenze e di lotte armate degli anni duri italiani appare così aliena e sfiancante. Abbiamo trovato una reliquia oscura e non sappiamo come osservarla.