Con Wang Bing la Cina è un po’ più vicina
di Sergio Arecco
Nelle oltre nove ore di Il distretto di Tie Xi (Tie Xi gou, 2003, in tre parti rispettivamente di 4, 3 e 2 ore: Ruggine – Resti – Rotaie), un Wang Bing trentacinquenne, diplomatosi da poco presso l’Istituto del Documentario di Pechino, offre la sua prima folgorante prova di un cinema fenomenologico in cui la documentazione del reale – qui un complesso industriale in via di dismissione (Shenyang, Manciuria), con le famiglie operaie ridotte a vivere in scantinati e luoghi di fortuna, tra malattie e sudiciume – si snoda in primo luogo attraverso la microscopia del singolo gesto o movimento (inquadrato ora con camera fissa, ora a mano, ora con lunghi carrelli) di ciascun individuo, sfidando la categoria della promiscuità connaturata ad alveari del genere. E in secondo luogo attraverso una ciclicità di riprese della durata di anni (1999-2001), sinonimo a sua volta di una continuità dello sguardo nella discontinuità del tempo che depone ancora a favore dell’idea di scrutinio in profondità, di sondaggio in interiore homine. Il tutto a dispetto dell’istituzione sociale e del collettivo. Non tanto in senso politico – Wang Bing è solito dichiarare che la rappresentazione del reale comporta inevitabilmente una connotazione politica, senza per questo implicare rivendicazioni politicamente mirate – quanto in senso estetico. A dispetto, cioè, dell’istituzione-cinema nella sua traduzione di fatto più spettacolare e collegiale. Filmare, come fa Wang Bing in Il distretto di Tie Xi, senza uno straccio di autorizzazione, da solo, con una videocamera Panasonic, per centinaia di ore (ridotte nel montaggio definitivo a quasi 10), con acribia e puntiglio, l’agonia di un luogo storico nel momento del trapasso dal vecchio al nuovo secolo, dalla veteroindustrializzazione alla neoindustrializzazione, significa filmare innanzitutto la vita e la morte degli individui (a Shenyang c’è anche un ospedale che accoglie i colpiti dalle esalazioni tossiche) e non solo delle cose. Nel loro farsi e disfarsi davanti al video, nella loro assoluta indifferenza alla sua presenza o meno, in altre parole nel loro divenire autistico. E quando, nel 2007, Wang Bing viene invitato dalla Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona a collaborare con altri cinque registi di tendenza (il portoghese Pedro Costa in primis, e poi Chantal Akerman, Apichatpong Weerasethakul, Vicente Ferraz, Ayisha Abraham) a un film a episodi su O estado do mundo, il contributo che un intellettuale cinese come lui può recare non può non essere una memoria storica (ricordiamo: Ruggine – Resti – Rotaie) della Rivoluzione culturale e delle sue derive totalitarie. Brutality Factory (Bàolì gongchang, appena un quarto d’ora, quale eccezione che conferma la regola) è giusto una memoria ambientata in una fabbrica dismessa, situata in un distretto e in una periferia industriale di cui non si fa il nome per l’opportunità, qui sì politica, che non ne abbia o non ne conservi uno, in considerazione delle brutalità che al suo interno sono state perpetrate contro i cosiddetti reazionari o controrivoluzionari dell’epoca – solo una data: 14 luglio 1967, l’anno secondo della nuova Rivoluzione voluta da Mao. Per il resto, un wu ming, un collettivo senza nome, per l’appunto (cfr. Wu ming zhe, 2010). Oppure, con il semplice nomen fictum della donna vittima simbolica delle sevizie, mrs Tiande – la prima delle tante mrs o miss che costelleranno i documentari di Wang Bing, da mrs Fengming o He Fang Ming (Cronaca di una donna cinese, 2007) alle miss Yingying/Zhenzhen/Fenfen (San Zimei, Le tre sorelle dello Yunnan, 2012) a mrs Fang (Mrs Fang, 2017) alle testimoni femminili di Dead Souls (2018). A mrs Tiande la “banda dei quattro” – non è una battuta, gli aguzzini sono proprio quattro-quattro e, se esiste allusione, va addebitata unicamente all’intelligenza del regista – chiede, prima con le percosse e poi con metodi contigui alle pratiche della tortura, di “fare i nomi”, di denunciare i componenti della cricca controrivoluzionaria diretta dal marito latitante, e di scriverli quei nomi (sul pavimento un’allusiva marea di pezzi di carta), se vuole aver salva la vita. Certo, trattasi di una storia di ordinaria violenza quotidiana, come se ne sono viste tante al cinema. Ma al punto che un entomologo del quotidiano come Wang Bing, e futuro entomologo del quotidiano delle istituzioni totali e concentrazionarie – il campo di lavoro forzato in Il fossato (Wu Ming zhe, 2010), l’ospedale psichiatrico in Follia e amore (Feng Ai, 2013) –, intuisce che, nell’arco stavolta ridottissimo della durata di un corto, deve inventarsi qualcosa. Pena l’atonalità di un memoriale delle rovine e di una demolizione dell’umano che, in Brutality Factory, finirebbe per risultare sì cupamente evocativa ma anche cupamente neutra, come quella di un disco inceppato, ritornante in perpetuum sullo stesso solco, “incantato” per così dire. Ecco. Un disco? deve pensare Wang Bing. Il quale ha già tappezzato il pavimento di quella marea di pezzi di carta allusivi a probabili denunce. Eccola la soluzione. Perché non abbinare le due metafore? Facciamo martirizzare mrs Tiande facendola urlare di dolore in virtù delle urla registrate su un 33 giri che ruota sul piatto del giradischi. Allestiamo, in altri termini, in conformità con il nomen fictum, un analogo exemplum fictum, un cinema nel cinema che sia un’autobiologia del cinema in sé, con la messa in scena della messa in scena, dei suoi trucchi, delle sue retoriche, dei suoi standard. Evidenziamo, in Brutality Factory, le tecniche in base alle quali si combina il singolo resto con l’insieme dei resti, impiegando certo la medesima minuzia impiegata per girare in extenso Il distretto di Tie Xi. E tuttavia, dovendo riprodurre l’extenso in un quarto d’ora, dovendo cioè documentare una brutalità del passato e non del presente, mimetizziamo, riduciamo l’insieme a icona. L’effigie dei lugubri cameroni di accesso alle stanze della tortura, ingombri di calcinacci e ferraglia. L’effigie in panfocale di un uomo nudo (sarà uno specifico filmico di Wang Bing) intento a ciclostilare fogli in un antro fiocamente illuminato, in fondo a un corridoio buio. L’effigie di un uomo altrettanto nudo irrigato dai getti d’acqua lanciatigli addosso dalla banda dei quattro per “fare paura” a mrs Tiande, costretta a prendere immediata visione di quel corpo disteso in mezzo ai rifiuti. In Brutality Factory non vale infatti l’estasi del maniacalmente ripetitivo che Wang Bing farà valere nella paziente, minimale visualizzazione dei veri prigionieri esemplati in Il fossato o in Follia e amore o in Dead Souls (i primi due superiori ai 200’, il terzo vicino ai 600’). In Brutality Factory la prigioniera non è una prigioniera vera, è una personificazione: una dramatis persona, non una persona. Né la fabbrica, di cui pure, nei due minuti iniziali, Wang Bing mima con la cinepresa a mano l’ascesa delle scale in rovina, un piano dopo l’altro, lungo gradini scricchiolanti, fino a raggiungere il piano deputato, è una vera fabbrica dove andrà in scena il drama – presieduto non a caso da un quinto personaggio, un‘capo’, o un ‘capocomico’, che si mostra perlopiù sdraiato su un divano o su un letto sfondati; e che, quando si alza, tradisce sul volto una calcolata espressione di rammarico per l’indecoroso spettacolo in corso. Solo una location scelta all’uopo, per la sua desolante appariscenza.
