CIVILTÀ PERDUTA di James Gray
Di confini e di orizzonti
di Michele Moccia
Da dove poter cominciare, persi, come si è, nell’assenza della profondità di campo, nelle sfocature del verde della vegetazione, nell’equorea trasparenza dell’acqua e delle sue increspature, nel controluce che talvolta abbaglia, nei riverberi opachi e legnosi degli interni. Forse potremmo cominciare da quell’abbraccio tra Percy e Nina, colti quasi d’improvviso dal vento, come fosse un vento metafisico, che agita le fronde degli alberi e i vestiti, con lei che si chiede e gli chiede se lui è reale, o ancora, e da sempre, sprofondato nella foresta dell’Amazonia, fin dalla sua prima avventura esplorativa. O da quei fuochi ‘irreali’ sparsi a illuminare la fitta e nera, notturna vegetazione del Mato Grosso; o dagli specchi, quello nel quale si riflette sfaccettata l’immagine di Percy, prima del ballo, o quello nel quale entra Nina nel finale del film, soglia onirica e insieme sogno di un attraversamento, con le piante del giardino e la luce che ricordano, ancora, la grande foresta.
Civiltà perduta (The Lost City of Z) di James Gray è un dissidio, come ha scritto Massimo Causo su queste pagine, “tra la realtà che si abita e il sogno che si sente a portata di mano ma puntualmente sfugge”[1]. E in ciò si muovono nel film due immagini simboliche, quella del confine e quella dell’orizzonte. Due immagini che restituiscono all’ultimo lavoro di Gray un sapore poetico-filosofico. Percy Fawcett parte alla volta del Sudamerica per la Royal Geographical Society per mappare un confine, quello tra Bolivia e Brasile, assegnare dei limiti ad un territorio. È questa missione che apre il passaggio a un territorio sconfinato, che apre il paesaggio reale al paesaggio del sogno. Passaggio che fa delle immagini, ancora una volta, una riflessione filosofica, “mentre l’inazione è inerte, la sospensione dell’azione equivale invece ad «appendere l’azione entro una sorta di ideale cornice», cioè a confinarla su un supporto immaginativo, ossia a supportarla con la fantasia a farne appunto un fantasma, […]. Sospendere l’azione significa assegnarle un confine che la delimita in figura e questo appunto è fingere”[2].
È proprio dal confine che la spedizione di Percy Fawcett e dei suoi uomini, prima, e di lui e di suo figlio, dopo, si apre a una dimensione spaziale non delimitante, fatta di orizzonti e dunque di incessante scoperta. Lo spazio della ricerca, immergendosi, allora, nell’infinità dell’orizzonte, diventa come scrive Karl Jaspers “una diversa esperienza di pensiero, si presentifica qualcosa che non può essere colto con il pensiero oggettivo. Conquistiamo uno spazio nel quale non ha più luogo una conoscenza di qualcosa. Perveniamo ad orizzonti che, se ci muoviamo in essi, non ci additato più qualcosa di sinora sconosciuto nel mondo”[3].
Quella di James Gray è una storia di confini e di orizzonti, in cui a tornare indietro alla fine possono essere solo gli strumenti materiali, o razionali, di ogni esplorazione, come la bussola. Ecco tutta la meravigliosa parte finale di Civiltà perduta, l’ultima esplorazione di Percy e di suo figlio, un solo cuore, il loro perdersi per sempre tra i ‘fuochi fatui’ che illuminano d’ocra e d’oro la nera notte della grande foresta.
[1] Massimo Causo, Rivoli d’irrealtà, Filmcritica 674.
[2] Carlo Sini, Il sapere dei segni, Jacka Book, Milano 2012.
[3] Karl Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico, SE, Milano 2006.