Jean-Luc Godard e Jean-Marie Straub: luce viva, presente, futura, nel rimpianto
di Francesco Salina
Si incontrano tramite la scrittura nei Cahiers du cinéma dei primi anni Cinquanta. Godard è integrato nel gruppo dei critici futuri registi della Nouvelle Vague. Straub è vicino al gruppo, ma indipendente, solitario. Un legame e uno strappo, non condivide l’assenso alle produzioni cinematografiche. Godard ha origini borghesi, è un borghese rivoluzionario, Straub origini operaie. Nato a Metz, al confine con la Germania, parla tedesco. Si laurea in lettere e filosofia. Cinema e politica lo appassionano. Nel 1955 viene accolto come assistente volontario da Renoir sul set di Elène et les Hommes, e da Bresson in Un condamné à mort c’est échappé.
Godard nel 1954 filma il suo primo cortometraggio Operation Béton. Primipiani, campilunghi e dettagli sulla costruzione della più grande diga d’Europa, in Svizzera a mille metri di altezza. Operai e macchinari si alternano, si intrecciano in un montaggio rapido e descrittivo. Nel 1955 gira il suo primo film narrativo Une femme coquette, tratto liberamente dal racconto Le Signe di Guy De Maupassant del 1886. Capovolge la locazione del racconto. Quanto Maupassant svolge in un interno lo filma in esterno. Dalla finestra del proprio appartamento, Agnès, giovane e bella signora, osserva una prostituta che affacciata alla finestra adesca passanti con un cenno seducente e invitante. Agnès, attratta da irresistibile curiosità, scende nella strada. Imita quel cenno, adesca uomini sconosciuti. La coquette, la civettuola, tradirà lo sposo per imitazione. Il film di 10 min. è stato girato in due giorni a Ginevra. La cinepresa segue i passi della peripatetica improvvisata. La segue, la insegue, la rincorre, l’anticipa lungo le strade, panoramica morbida, lenta o veloce, o si arresta. L’occhio di Godard al mirino segna già un modo di vedere che sarà del suo sguardo. Straub nel 1963, con la sceneggiatura di Danièle Huillet, filma il suo primo lungometraggio Non riconciliati, tratto dal romanzo Biliardo alle nove e mezzo di Heinrich Bӧll. Tra presente e passato si alternano narratore, dialoghi, monologhi, flusso di pensieri. Una Germania attuale, proiettata verso il futuro, tenta di dimenticare il proprio recente passato. Il film si connota come decisamente politico. Critica, pubblico, editore del romanzo non lo tollerarono.
Bӧll vinse il premio Nobel nel 1972. Straub, con filmica filologia, segue il romanzo, ma introduce alcuni fraseggi che turbarono gli animi. Denuncia la continuità tra Germania e nazismo. Troppo forte per chi voleva dimenticare il recente passato. Troppo infame per essere dimenticato. Jean-Luc e Jean-Marie amavano il cinema americano, Ford, Vidor e le origini aurorali. Griffith è presente. Nei primi filmati dei due francesi si avverte una eco, un’allusione segreta. Un’ombra di cinema muto si profila in certi silenzi, tra le sequenze, tra i dialoghi, tra fughe di Bach, il Dio dell’astrazione e le Cantate di Händel. Una eco del muto si evidenzia nella loro predilezione per i pianisequenza, dove è la scena che costruisce, con un montaggio implicito. Entrambi sono attratti dall’uso del trasparente frequente in Griffith, segnatamente in The Birth of a Nation del 1915. Una sola volta Straub lo utilizza in Cronaca di Anna Magdalena Bach del 1967, sceneggiato da Danièle, sua compagna e sua collaboratrice di un’intera vita. In una inquadratura fissa di 4 min. Straub filma Gustav Leonhardt che dirige orchestra e coro nel Branderburghese n. 5.
In trasparente, sullo sfondo, palazzi di Lipsia. L’orchestra sembra suonare in esterno-giorno. La fiamma serpentina di una torcia fa lume, mostra chiaramente che il concerto si svolge in un interno-notte. Straub e Godard, nei loro primi cimenti, puntano e immergono la cinepresa nella realtà. Ma l’astrazione si genera nella ‘relazione’, tra immagini, tra sequenze, nelle pause di riflessione, nel già sapiente montaggio. Come una gnosi sottile, eterodossa, non rivelata bensì esperita, irriverente, sorprendente, del tutto laica e paradossa. Visionando i loro primi filmati stupisce come un cinema sonorizzato, dialogato, rumorizzato, convergente sull’immanente, evochi e faccia rianimare quello silente. Il silenzio nel cinema apre lo scenario di una rappresentazione mentale. La realtà, per sortilegio, si muta in seducente estraneità, in un limbo, ombratile, volatile, trasognato..
Godard e Straub lungo il loro sodalizio si incontrarono poche volte personalmente, ma comunicarono costantemente, dalla Svizzera, dalla Francia, dalla Germania. Straub nel proprio cinema accorda o disaccorda le differenti dimensioni del tempo. Regola l’ora col non ancora. Sa che togliere genera il testo significante, lo emancipa dal momentaneo significato. La sua immagine è icastica, non si cura di cineasmi alternativi. Controverso nei confronti della mistificazione, si contrappone alla mercificazione dell’impero digitale. Il suo cinema vuole essere interamente didattico. Insegna e apprende, traversa dall’arcaico all’antico, dal moderno al contemporaneo. Godard non ha inteso insegnare niente a nessuno. Ma per tutti lo ha fatto, cineasti e non solo. Dal 1998 si inoltra in una sapiente semiosi. Cancella e de-scrive, disfa, crea, ri-costruisce linguaggio. Si spinge oltre, fino a fare udire il richiamo del silenzio. Il quadro nero si alterna, interrompe ogni sequenza, raffigura l’Origine, il matriciale, regno dove ogni forma viene meno, svanisce. Adombra il pre ed il post del cinema. Teorizza tramite immagini. Affida ogni fotogramma alla riflessione valoriale del concetto. La scrittura la riconduce all’immagine, l’immagine la evolve in scrittura.
FAUST: Conducimi nel regno delle Madri
MEFISTOFELE: Un tripode fiammeggiante ti farà accorto che sei arrivato nell’imo
degli abissi, a un tale chiarore scorgerai le Madri. Dee sconosciute a voi mortali,
da noi stessi malvolentieri nominate. A ricercar le loro dimore scaverai nel profondo.
Pericoloso! Laggiù non dimorano forme, né immagini.