Chris Marker, cento anni dei diari dell’immemoria
di edo Mariani
Il percorso di un avventuriero dell’aria come Chris Marker è caratterizzato sempre da una miriade di atterraggi tutti diversi (i film, le fotografie, gli avatar sulla rete, le videoinstallazioni, le vignette satiriche, gli articoli di giornale…), da una incalcolabile serie di tempeste e raffiche di vento (la vita) e da una segretissima scorta di ricordi e nascondigli, portali multipli dai quali il mondo entra ed esce di continuo servendosi delle aperture lasciate dal passaggio dell’esploratore.
Chris Marker è nato nella banlieue di Parigi il 29 Luglio 1921, ovvero cento anni fa nasceva Christian Bouche-Villeneuve, che all’età di circa 25 anni divenne Chris Marker, un rarissimo caso di cinesploratore, imprevedibile poeta dai movimenti felini, narratore del viaggio e delle guerre, o anche “the best-known author of unknown movies” (il più conosciuto autore di film sconosciuti, come si è autodefinito in uno dei minifilm pubblicati sul suo personale canale YouTube).
Marker è a oggi forse il filmaker che più ha saputo districarsi tra le difficoltà e le intemperie del XX secolo, vissuto praticamente quasi per intero, ed è lo stesso uomo che ha cominciato una nuova vita nelle tecnologie elettroniche e digitali del XXI, lasciandosi indietro le ombre di un passato sempre più passato.
Marker è sempre stato un viaggiatore libero alla ricerca di ciò che ha trovato, ma buona parte della sua opera è rimasta nascosta dietro alla celebrità di La Jetée, “fotoromanzo” di fantascienza del 1962 ambientato in un universo post terza guerra mondiale e dalla durata filmica di 26 minuti, e da Sans Soleil, lungometraggio del 1983 che prende come base di partenza il tempo e lo spazio del contemporaneo giapponese dei primi anni ‘80, ma si sposta lateralmente tra i quattro poli del pianeta, cercando di far corrispondere le attitudini e le particolarità delle diverse culture, ed allo stesso tempo di opporre la potenza delle immagini del presente a quelle della Storia. Tutta la sua produzione artistica a partire dalla fine degli anni ’70 non ha ricevuto forse la dovuta attenzione, probabilmente in quanto in linea con le sperimentazioni di una nuova battaglia non ancora vinta da parte degli artisti delle Arti Elettroniche e delle successive Arti Digitali, a cui Marker ha partecipato indirettamente sin dagli inizi. Quest’uomo, questo umanista critico che, come tanti altri della sua generazione, si è ritrovato dopo la Seconda Guerra mondiale a dover ricostruire un mondo da cui estirpare la possibilità di vedersi riprodurre le catastrofi, inizialmente scrive, poi fotografa, successivamente filma, poi sintetizza e infine condivide su internet.
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La mano destra di Chris Marker disegna in primissimo piano delle curve a spirali con il mouse del suo Apple PowerMacintosh 8100, l’inquadratura, concentrata sul tappetino accanto alla tastiera, cerca di seguirne il movimento rotatorio, ma di colpo viene risucchiata dal monitor, catapultandoci istantaneamente all’interno di un paesaggio urbano composto da pixel: è iniziata la nostra traversata numerica verso il Level 5, il luogo d’incontro tra le immagini e lo spettatore, là dove tutto si dissolve nell’immagine-tempo. Level 5 è un lungometraggio che Marker ha prodotto, scritto, interpretato, filmato, montato tra il 1993 e il 1996, anno in cui il film venne presentato al pubblico, e che in un certo senso faceva da apri fila ad una serie di opere e operazioni informatiche e tecnologiche nelle quali, spesso, l’unica presenza fisica della finzione è incarnata dall’attrice Catherine Belkhodja, amica, collaboratrice e musa durante tutto il XXI secolo di Marker.
Level 5 racconta la storia di un videogioco incompleto, e il viaggio solitario di Laura, rimasta sola dopo la recente perdita del suo compagno di vita, scomparso misteriosamente durante una delle sessioni di programmazione di un videogame a tema storico. La donna, rimasta senza risposte, comincia ad avventurarsi nelle schermate del computer, alla ricerca di un messaggio lasciato dal suo amante, e si filma in una sorta di video-diario raccontando le esperienze vissute nella Rete.
Riprendendo, una volta entrati nell’immagine, il primo piano di un avatar digitale si sovrappone in dissolvenza a grattacieli illuminati nella notte e una voce femminile comincia: «Tutto questo potrebbe essere altro che i giocattoli di un Dio folle che ci ha creati per ricostruirglieli? Immaginate un uomo di Neanderthal con la visione di questa cosa nella sua testa: un flash di una città nella notte, con i suoi movimenti e le sue luci. Non sa nulla di ciò che compone questa cosa, ha solo avuto una visione poetica, piena di movimenti e di luci. Ha visto un mare di luci, ma non sa distinguere niente tra tutte le immagini che si depositano all’interno della sua testa, come degli uccelli, tanto rapide e imprendibili quanto gli uccelli». Il primo dialogo del film quindi, completamente in voice over, si trasforma poi nella presentazione del personaggio di Laura (interpretata da Catherine Belkhodja, e in stretta connessione con la Laura protagonista del film di Otto Preminger del 1944), e descrive allo spettatore il background su di cui si costruirà tutto il racconto, cominciando a porre le prime questioni sulla virtualità, sul futuro delle immagini e il rapporto tra le realtà.
È il 1996, Marker è nel pieno di una fase di sperimentazione dei nuovi mezzi multimediali e dei diversi software di editing e programmazione delle immagini offerti dai computer Apple: l’immagine entra ed esce dal monitor davanti alla protagonista, siamo all’esterno del mondo di gioco interno al film, liberi di seguire il racconto della storia d’amore di Laura, o di perderci nel labirintico percorso degli eventi della fine della Seconda Guerra Mondiale scandito dalle diverse interviste e dalle immagini documentarie, anch’esse distinte tra gli estratti dei film di Nagisa Oshima e il diario di viaggio filmico dello stesso Marker. Con Level 5 la scommessa di Marker è quella di riportare in una sorta di semi-documentario di finzione lo statuto dello spettatore-osservatore in uno stato attivo, che si trova costantemente chiamato a dialogare direttamente con il personaggio di Laura, unico personaggio di riferimento che parla guardando nella webcam del suo personal computer (diegeticamente al servizio della sua stessa ricerca d’archivio) e che si presenta a diverse ore della giornata, in vestaglia se appena sveglia o poco prima di coricarsi, oppure completamente vestita prima o dopo essere rientrata a casa. Lo spettatore viene preso quindi come testimone di una realtà revisionata e distaccata dalla sua essenza di immagine documentaria e d’archivio, ma non trasmuta mai in una forma di finzione, perché resta sempre e comunque quella immagine-esposizione di luce del tempo e dello spazio al registrare dell’obiettivo cinematografico. Il film di Marker prende in analisi un’evento in particolare, rimasto nascosto dietro le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, che è il suicidio collettivo di Okinawa, dove l’esercito dell’allora Impero giapponese, nei giorni prima dello sgancio della bomba atomica, impose a circa 150.000 civili di “sacrificarsi” per proteggere l’isola centrale dall’arrivo degli americani.
Ci viene quindi raccontata la storia dimenticata di Kenji Yokitsu, un bambino sopravvissuto al massacro dell’isola, che perse tutto il resto della sua famiglia in questo tragico avvenimento celato e sommerso dai successivi eventi che portarono alla fine definitiva del conflitto mondiale, e che permise all’imperatore di salvarsi dalle accuse del tribunale di guerra. Una seconda testimonianza che Laura incontra nel gioco (e noi nel film) è quella del reverendo Shigeaki Kinjo, che confessa di aver partecipato all’operazione di omicidio di massa del popolo della sua isola di provenienza quando aveva sedici anni, e che al giorno d’oggi era riuscito a trovare il perdono ai suoi crimini nella fede e nella vocazione della religione cristiana. È qui che il gioco/film mette in discussione la questione dello sguardo: l’immagine sembra essere l’unica possibilità di esistenza del reale e della sua trasmissione attraverso il tempo. L’operatore Sandor Krasna si domandava emblematicamente in Sans Soleil: «Come possono ricordare quelli che non filmano?». La risposta di Marker a questa domanda arriva qui in Level 5, dove tra le immagini di diversa natura viene dimostrata tra le righe la proposta di una possibile “formula cinematografica”: «Non si può ricordare quello che non viene filmato», sentiamo dire dalla voce di Marker durante il film, che spiega anche che «il cineasta ha dunque una missione etica che sovrasta quella estetica». Verrebbe quindi da domandarsi se il “cinema d’avventura” (il cinema alla Marker) non rappresenti costantemente quella linea di confine fisica, quel limite umano tra chi direziona il proprio sguardo nella macchina da presa, cioè colui o colei che vede il mondo da dietro la camera e attraverso l’obiettivo, e chi semplicemente sta davanti alla camera, e viene “visto” mentre guarda altrove o, in altri casi, mentre guarda proprio dritto nell’immagine. Filmare significa sicuramente guardare verso qualcosa, qui e ora, ritagliare un dettaglio tra i dettagli, e quindi porsi sempre indirettamente il problema dello sguardo: lo sguardo dell’altro mi riporta alla mia stessa posizione e di conseguenza tenendo una camera in mano, è ugualmente la posizione di colui che filma ad essere rimessa in questione. Concludiamo questa serie di riflessioni sul film con altro legame esplicitato dalle immagini di Level 5, ovvero se «il reale e il virtuale coesistono, ed entrano in un circuito stretto che ci riporta costantemente dall’uno all’altro» dice Gilles Deleuze nel suo secondo volume dedicato al cinema L’immagine-tempo, allora la visione del mondo attraverso il cristallo del cinema «non è più una singolarizzazione, ma un’individuazione come processo, l’attuale e il suo virtuale. Non è più un’attualizzazione, ma una cristallizzazione».
Questo breve sorvolo sulla morale tecnofantastica markeriana su di cui è costruito (e potremmo dire congegnato, organizzato) Level 5, riporta direttamente al discorso introduttivo sulle pratiche di sperimentazione tecnologica di Chris Marker. Dal 1978 al 2003 Chris Marker ha partecipato a cinque esposizioni, creando su commissione diverse video-installazioni, o come lui stesso preferiva definire, “presentazioni”: Quand le siècle a pris formes nel 1978, su richiesta del Centro Pompidou di Parigi ed in occasione della mostra Paris-Berlin; Zapping Zone (Proposal for An Imaginnary Television) nel 1990, sempre commissionato dal Centre Pompidou per l’esposizione Passages de l’image (in occasione del centenario della nascita di Marker, il Pompidou ha dedicato una riproposizione dell’installazione, archiviata in 183 hard disk e presentata in 7 computer, 4 monitor display e diversi manifesti cartacei affissi sui muri di contorno); Silent Movie commissionato dal Wexner Center for the Arts dell’Università degli Stati Uniti dell’Ohio nel 1995 in occasione del centenario della nascita del cinema; il CD-Rom interattivo Immemory del 1997, un’opera multimediale su richiesta del Centre Pompidou per computer che il museo avrebbe presentato durante l’evento di inaugurazione del nuovo spazio dedicato alla collezione Vidéo, films, sons et arts numériques, situato al 4° piano dell’edificio, dove ancora oggi si possono trovare alcuni computer a disposizione di tutti in libero accesso all’intero archivio digitalizzato delle opere di videoarte, sonore o di cinema sperimentale, insieme ad altre opere non esposte al momento della visita; e infine Owls at Noon (Prelude) The Hollow Men, ispirato ad una poesia di Thomas Stearns Eliot e commissionato dal MoMA di New York nel 2005.
Chris Marker in quanto artista contemporaneo preferiva farsi chiamare “bricoleur” (traducibile in italiano in una forma ibrida di tuttofare e artigiano), ed è per questo che possiamo inserire questi cinque lavori in perfetta continuità con le altre opere antecedenti e come continuazione della sua esplorazione degli strumenti tecnologici. Queste opere dimostrano altre nuove forme estese ed eterogenee, attraverso le quali Marker continua la sua perpetua ricerca di trovare un corpo, un ordine alle cose della storia e del mondo, e a tutte le storie del mondo: il disordine delle fotografie, i poster, i video, i programmi informatici, i monitor, gli schermi, i CD- Rom, i commenti scritti, i commenti in voice over, i commenti musicali, gli archivi video e gli oggetti archiviati, i viaggi e i tutti souvenir recuperati, e poi messi in mostra in questa grande entropia personale dell’artista.
Durante gli ultimi anni trent’anni di vita, Marker si è dedicato interamente alla comprensione delle tecnologie informatiche, elettroniche e digitali, archiviandovi con una leggerezza e con una sincera voglia di essere ricordato il diario dei suoi giorni, vissuti appieno durante 91 anni, e ora liberi di essere esplorati da nuovi internauti del contemporaneo, di cui, appunto e in qualche modo, Marker fa ancora parte.
A chiunque volesse incontrare C.M. si può semplicemente cercare sulla Rete una tra queste parole chiave per montare sulla nave fantasma del Capitano Guillame-En-Egypte, pseudonimo, avatar di Marker e sorta di Virgilio felino che vi indicherà la strada per arrivare in uno degli arcipelaghi numerici segreti costruiti dall’artista prima della sua scomparsa, nel 29 Luglio 2012: Kosinki (YouTube), gorgomancy.com, Sandor Krasna (Flickr), Sergei Murasaki e L’Ouvroir (Second Life), Hayao Yamaneko (Soundcloud), poptronics.fr…