César González. Attraversare l’abisso.
di Giovanni Festa
Una pozza d’acqua stagnante riflette le costruzioni di tre piani e l’enorme fungo di cemento della Villa Carlos Gardel, a Buenos Aires, in Diagnostico Esperanza (2013); un ragazzo che raccoglie cartone attraversa la metropoli e i suoi spazi divisivi spingendo a braccia un carretto di ferro in ¿Que puede un cuerpo? (2014); un adolescente passeggia nel centro della città seguito dalla cinepresa in semisoggettiva fra edifici simbolo del potere politico ed economico in Lluvia de Jaulas (2019); una donna cerca un’amica scomparsa camminando tra strade di terra polverosa e inoltrandosi tra vicoli stretti da pareti di mattoni in Atenas (2019); una ragazza in camice bianco raccoglie residui filamentosi di carta che sembrano festoni di un carnevale asettico e senza allegria dentro il casermone di una fabbrica in Reloj Soledad (2021); perduti dentro una “casa tomada”, alcuni ragazzi suonano, leggono poesie, creano un collage, dipingono, in Fobia (2022); Alma Fernández, scrittrice trans, legge un poema davanti ad un murales vandalizzato in Transitando el abismo (2022). Sono, questi, alcuni frame del cinema di César González. Per César, queste immagini che mostrano le “villas miserias” di latinoamerica e i suoi abitanti, affamati, nudi, isterici, violenti, teneri, non sono il frutto di un’escursione etnologica che vede nel “villero” una forma coatta di selvaggio metropolitano o di un viaggio sentimentale dentro il margine periferico della metropoli, ma un processo artistico che mescola la biografia con le forme più aggiornate di pensiero cinematografico (Godard in primis) e dove il gusto per la narrazione incontra una specie di punto di dispersione nel quale l’indocilità dei corpi viene sublimata in un paradigma di montaggio in grado di riformularli e riconfigurarli attraverso l’esperimento costante.
César cominciò come poeta adolescente, in una cella. Come annota nel suo saggio politico-poetico El fetichismo de la marginalidad[i], “scrivere fra la sbarre, sommerso nella più spessa tenebra dell’orrore che ti carbonizza le ossa, la carne, la pelle, l’anima” e dove “l’unica volontà è impugnare una penna e attaccare la pagina”, significa “far sorgere il germoglio in mezzo a quello che già era considerato terra morta”. Ad aiutarlo a prendere in mano la penna e convertirsi nel poeta civile Camilo Blajaquis (pseudonimo che utilizzò nei suoi primi libri di poesia, omaggio a Camilo Cienfuegos e al militante peronista Domingo Blajaquis, di cui racconta Rodolfo Walsh in ¿Quien mató a Rosendo?) fu Patricio Montesano, mago, poeta e attivista (adesso attore e collaboratore nei suoi film) che lo inizió all’arte, alla cultura e alla coscienza di classe. Come racconta in una vecchia intervista alla rivista Pagina 12, “non ricevetti un abbraccio dalla società: mi presero a pugni, mi spezzarono le caviglie, mi ruppero un dente, soffersi migliaia di vessazioni perché leggevo e scrivevo. Mi resi conto che la società preferisce che i ragazzi rubino e si droghino invece di pensare. Perché un ragazzo che pensa è più pericoloso di uno che ruba”.
Il primo film di Cesár che ho visto fu Lluvia de Jaulas, proiettato durante il Festival di cinema documentario di Buenos Aires nel 2019 e presentato dal regista e dal suo attore prediletto, Alan Garvey. Il film fu una rivelazione. Ci scrivemmo qualche mail e lo conobbi di persona tre anni dopo, quando tornai in Argentina dopo il covid. L’appuntamento, dopo aver preso il treno che da Once conduce Ramós Mejia, era in una piazza che mi ha ricordato subito la scena di Atenas, quando il poeta urbano intepretato da Montesano incontra le due ragazze che cercano lavoro; César mi dice che non è esattamente la stessa piazza, ma che il set di quella scena così carica di senso, anche autobiografico (“dicono che sono un malato. Io sono un poeta!) l’aveva girata a pochi isolati di distanza. Mentre in motorino ci avviciniamo alla villa Carlos Gardel, parliamo di cinema argentino (“il più grande di tutti è Leonardo Favio, il direttore dei Cahiers lo ha scoperto solo ieri” dice, e in effetti alcuni momenti del cinema di César, come i paesaggi saturati fino alla vertigine, i primi piani ravvicinati, certi movimenti di macchina che esplodono nel contrappunto musicale ricordano film di Favio come i meravigliosi Nazareno Cruz y el lobo e Juan Moreira; fra gli altri registi, Fernando Birri, autore de Los inundados, Albertina Carri, Nicolás Prividera), di cinema italiano (Pietro Marcello, Jonas Carpignano e tutti i classici, soprattutto De Sica, Rossellini e Pasolini; il rapporto fra César e De Sica è lampante in Guachines, uno Sciuscià argentino condensato in pochi minuti, dove si vedono bambini di strada giocare e correre nella città notturna fino a quando uno di loro è ucciso a bruciapelo da un borghese senza altra motivazione che l’odio per coloro che vengono chiamati pibes chorros, fiori di fuoco che crescono nei barrios latinoamericani dove “ci sono bambini di strada con un radiante carisma, una lucidità umiliante e un coraggio spietato per la sopravvivenza, sapendo che sempre si può morire in un attimo”; la presenza di Rossellini è evidente invece in quella capacità rabdomantica di González di costruire con poco su rovine, di andare a stanare la realtà in mezzo alla strada e nella volontà, etica e poetica insieme, di raccontare, come diceva Pasolini, il volto sudicio -senza cioè con cerone posticcio del potere addosso -, di un paese. Del rapporto di César con Pasolini parleremo più avanti. Ma anche del suo viaggio in Italia, dove visitò Bologna, Venezia e Roma (“mi invitarono insieme ad altri artisti argentini a conoscere il papa, ma ero giovane, marxista e rifiutai. Adesso me ne sono un po’ pentito. Anche perché questo papa sembra vicino agli ultimi”), di Maradona, e non siamo nemmeno arrivati al barrio, che dista poco meno di quindici minuti. La villa Carlos Gardel è piena di colore, vivacità, allegria con bambini ovunque (“prima era impensabile che giocassero fino a notte inoltrata, c’era il coprifuoco; adesso è tutto più tranquillo”; “qui siamo kirchneristi: l’ospedale nella villa lo ha costruito Perón, Cristina creò il plan de viviendas che ha permesso a molti di noi di avere una casa degna”). Davanti al monitor del suo computer mi mostra una lunga sequenza, parte di un prossimo film, e continuazione apocrifa dell’ultima parte di Lluvia de Jaulas: una giovane che cammina sugli scogli, in riva al mare; alcune immagini di una rivolta nel carcere, filmata dagli stessi detenuti; il treno che conduce dalla periferia al centro della città. Intanto, è scesa la sera. C’è una festa di quartiere: suonatori di tamburo incalzano con i loro ritmi monotoni e selvaggi mentre un immenso dragone semovente di cartone muove verso una torre, anch’essa di cartone, costruita nel mezzo di una spianata di cemento. Quando drago e torre si scontrano prendono fuoco e scoppiano in un boato di fuochi artificiali, mentre centinaia di persone osservano la scena appoggiati alle transenne. Fra loro, gli attori di César: la ragazza che, in Atenas, ospita la protagonista appena uscita dal carcere per una notte (“te la ricordi? Bevono il mate insieme, una con la maglietta del River, l’altra con quella del Boca”), la madre del regista, che compare in quasi tutti i suoi film, i vicini e le vicine del quartiere; César filma quella festa inaspettata con il suo cellulare, mettendosi in ginocchio, rincorrendo il reale come fa l’entomologo con uno stormo di farfalle colorate. Ho già tentato una panoramica del cinema di César González su un’altra rivista. Qui accenneremo al suo penultimo lungometraggio e a un corto.
Fra le immagini del primo, Fobía, lunga festa mobile nell’underground bonaerense, Inauguration of pleasure dome filmata in stile documentario, ci sono quelle di un cimitero, e di alcune statue. Le prime ci fanno pensare a Tierra de los Padres (2011) di Prividera, le seconde a El silencio es un cuerpo que cae (2017) di Agustina Comedi. Ma, a differenza dei due film citati, non si tratta di riavvolgere il filo di una memoria collettiva o personale: il cimitero e le statue mostrano, credo, da un lato l’immagine della morte, con il suo sfacelo (in un’altra immagine si vede un uccello schiacciato sul selciato) e, dall’altro, la conservazione del passato attraverso la sublimazione encomiastica (César, come Jaime nel film di Agustina Comedi davanti al Mosé di Michelangelo, filma i particolari anatomici di una statua equestre; ma se il primo lo faceva in modo completamente acritico, spinto da una vorace pulsione a filmare, la voce over del secondo parla di agalmatofilìa, passione per l’inanimato, criticando e ironizzando ciò che vede). Nei casi del cimitero e della statua è il potere che gestisce e riordina la perpetuazione di atti e personaggi, mettendo da parte quella che Benjamin chiamava tradizione dei vinti (a questi due blocchi di immagini potrebbero affiancarsi quelle, isolate, della Lupa romana, del manichino snodabile in una seggiolina dietro una vetrina, e della Biblioteca, luogo della perpetuazione del sapere). I vinti sono coloro a cui hanno tolto la parola, eppure parlano. Nonostante abbiano la bocca cucita, non rimangono muti. E non accettano la sanzione del potere che li vorrebbe docili e sottomessi.
Il cinema di César Gonzalez vuole ridare voce proprio a coloro che sono trascinati fuori dalla fiumana della storia.
In Truco (2015), il giovane protagonista interpretato da Alan Garvey incontra un cellulare nella villa e invece di rivenderlo lo utilizza per filmare un video rap e metterlo in rete con l’aiuto di un amico; in ¿Que puede un cuerpo? il giovane cartonero durante una sosta della sua peregrinazione quotidiana si imbatte nel libro di Deleuze e Guattari Che cos’è la filosofia: entrambi scelgono, invece della “via della pistola” (che il cinema di Gonzalez non smette di descrivere per dimostrare un assioma semplice nella sua atroce verità: è il sistema che genera i “delinquenti”; in Lluvia de jaulas , durante il filmato di una retata nel quartiere la voce over cita Marx che, in Elogio del crimine, sottolinea come il delinquente produce ricchezza, ed enumera i settori beneficiati dall’attività delittuosa, dal sistema giudiziale alla polizia, fino al giornalismo), la via opposta della cultura e della creazione poetica.
Il suo è un gesto programmatico e irredento che ci fa pensare a quello che dicono Foucault e Pasolini. Per il primo, la “plebe” è l’obiettivo costante (e costantemente vigilato) dei dispositivi di potere ma è anche il luogo, mai domo, di tutte le ribellioni ed è quel “qualcosa” che sfugge ai meccanismi di potere con un movimento centrifugo che è il suo rovescio, il suo contrappunto e il tentativo di disfarsi di esso. Però tutto questo, come dice Foucault, deve trasformarsi in strategia. Ed arriviamo, così, a Pasolini. Per l’autore di Accattone la classe subalterna si scopre “produttrice”: di linguaggi, di anacronismi, di forme di vita alternativi a quelli stabiliti del potere (che il regista e poeta immagina come un sistema centrale che, a causa della sua dinamica interna, tende a proliferare senza sosta più che come una rete di relazioni di sottomissione). Il linguaggio al quale si riferisce è il dialetto, l’argot: César, analogamente, parla di “neologisti senza diploma” che sabotano l’imposizione del parlar bene utilizzando “parole piene di musica”, perché “oltre che poeti, i ragazzi del barrio sono inventori (…) e laddove l’idea è gettarne a milioni nell’ignoranza e nella brutalità, nascono altri saperi e in aggiunta, dialetti (…) Il dialetto è un insieme vivo di neologismi. Uno strumento di comunicazione che possiede regole proprie, non normalizzatrici ma stimolatrici di anormalità”.
La lingua poetica e umoristica dei sottoproletari lacera l’idioma imposto, che avrebbe dovuto impregnarli. Al di sotto del potere si agitano, allora, la spontaneità della follia, la freschezza del desiderio, la febbre dissipatrice della delinquenza, perché ogni relazione di potere è sempre reversibile e apre alla possibilità di una resistenza. E ogni resistenza scopre, all’interno di ogni struttura (luogo di ciò che è pensabile e pianificabile) la possibilità dell’evento, inteso come luogo dell’irrazionale e dell’impensato.
Come accade nel cortometraggio Transitando el abismo, che è La sequenza del fiore di carta di César Gonzalez.
Alma Fernández, scrittrice e attivista trans, cammina per Buenos Aires come Ninetto Davoli-Riccetto andava a zonzo per Roma. Entrambi attraversano la città monumentale (Riccetto inizia il suo percorso – che si scoprirà mortale – davanti ad una porta monumentale, Alma reciterà una poesia davanti alla Casa Rosada), dribblano il traffico cittadino (a Buenos Aires transita un’auto della polizia, accenno del regista allo stato di assedio e vigilanza permanente, a Roma Riccetto scrocca un passaggio su una utilitaria), simpatizzano con la classe proletaria (Riccetto con alcuni operai che stanno lavorando alla rete viaria, Alma con i vicini del quartiere), e, soprattutto, entrambi hanno un fiore: Riccetto un enorme, incongruo, fiore di carta, Alma un mazzo di fiorellini che distribuisce ai passanti o che stringe con le braccia allargate come fossero una bandiera profumata. Ma se Riccetto è espressione della vita gioiosa e dell’allegria contagiosa che non ha ancora scoperto l’atrocità dell’esistenza, Alma invece, della vita, conosce tutto: la tragedia e l’amarezza, il disincanto e la resistenza, la tenerezza e la lotta. Se Riccetto cammina in un pezzo anonimo di strada (la transitata via Nazionale) Alma, più saggia, sceglie alcuni luoghi emblematici davanti ai quali sosta come durante un atto penitenziale: un murales vandalizzato; le scritte sui muri e sulle saracinesche che ci ricordano di un desaparecido, di un episodio di violenza o che gridano giustizia; il corpo soggettile della città reca inscritti messaggi che bisogna avere la pazienza di leggere, decifrare e recitare a voce alta (Alma fa venire in mente un altro personaggio irregolare, il poeta Oscar Lucero che nel film di Juan Carreño Hola, mi nombre es Oscar Lucero y les tengo una pregunta vaga svelando il significato delle scritte vergate da lui stesso sui muri di un’altra città labirintica e latinoamericana, Santiago del Cile).
Se Riccetto danza per le strade della città con il candore e l’incoscienza dell’innocente, passando incolume attraverso la sovraimpressione in bianco e nero della atrocità della storia, Alma è come se i disastri del presente li avesse conosciuti, interiorizzati, assimilati.
E se Riccetto non può far altro che girovagare, preso nella linea unica e sempre uguale di chi transita nella storia subendola passivamente, Alma ha un heimat al quale fare ritorno: il suo quartiere, la Villa 31, dove lascia un’ofrenda davanti all’altare del Gauchito Gil, mangia un’empanada con le vicine e dice: “il mio barrio è fatto da casupole di mano d’opera economica, profuma di bancarella di fiera, di vento freddo che sa di fiume. Qui, crescono sogni isolati”.
Alla fine Riccetto cade riverso e fulminato perché essere innocenti, oggi, è una colpa la cui condanna è scomparire dalla storia; mentre Alma mostra piccoli cartelli con i luoghi comuni dentro i quali vorrebbero rinchiuderla: al corpo morto del ragazzo innocente segue quello resistente, invitto, della donna trans, che ha scoperto sulla sua pelle la violenza di un potere che passa sempre attraverso un’inquisizione del corpo; che ne ha compreso la retorica moralizzante che si cela dietro la sua falsa necessità (la lotta contro il “male”, cioè il diverso, il marginale, il “povero”), che ha scoperto come la villa sia, in realtà, un colossale esperimento di controllo biopolitico; e che bisogna, per sabotarlo, creare reti locali e popolari di solidarietà, vincoli laterali che sono, insieme, pratiche che permettono di perforare il muro dentro il quale, ad ogni istante, il potere lugubre e stabile di un apparato sinistro e uniformatore spaccia e segrega la potenza e la ricchezza della marginalità. Che, al contrario, esige e provoca una lotta perpetua e multiforme, allegra e panica.
[i] Citerò più volte, fra virgolette, questo libro di César edito da Sudestada nel 2020.