Cannes 76: JLG, Pedro Costa, Wang Bing
Infinitezze
di Massimo Causo
Nella progressione infinita di un festival mercato come quello di Cannes 76 – nella sua insaziabile foga di essere tutto il Cinema possibile ingolfato in un gesto unico e onnicomprensivo, che non ammette repliche o (ri)pensamenti – l’epifania viene proprio dalla non finitezza, dalla mancanza d’integrità che celebra l’assoluta verità del tempo filmico, la flagranza del gesto che compone il flusso, che modella la fluidità dell’immagine trovata nell’immagine, il palesarsi di una composizione sintattica, armonica, significante nell’accostarsi all’accostamento, nella scoperta del frammento…
JLG, Pedro Costa, Wang Bing: smarginano l’impero del film-fatto (dato, compiuto, finito) nella compiutezza in corso d’opera, nella progressione di un film-idea (mai più dato, mai più compiuto, mai più finito): Film annonce du film qui n’existera jamais « Drôles de guerres » visualizza come materia concreta la tensione di un’idea, la fuga in avanti di una progettualità filmica che Godard ormai vedeva nella smaterializzazione dell’immagine, nel superamento della natura fisica del fotogramma, al di là dell’emulsione chimica, della composizione analogica o della scansione numerica. Il trailer come promessa negata, come spostamento, distrazione, tradimento didascalico, è parte integrante, complementare della sua tradizione filmica, sicché non stupisce trovare le vestigia del suo estremo progetto (l’adattamento del romanzo di Charles Plisnier Faux passeports), nato per essere verosimilmente incompiuto, in questo film annonce che è il compimento di un test(o) a sé: come si evince dalla narrazione di Fabrice Aragno, quello che vediamo è ciò che per JLG restava come son meilleur film, la scansione di una materialità del ritmo filmico in una manualità ritrovata al di là dell’analogico e del digitale: “Jean-Luc avait imaginé son rythme sur du papier avec des post-it et des indications pour l’image et le son”… L’incompiutezza insiste sul proprio baricentro e assurge a funzione logica pura, essenziale, materiale nella sua smaterializzazione: il film n’existera jamaisperché esiste già da prima di essere filmato, è pura idea, puro gesto, pura scansione (im)materiale del farsi da sé…

Che poi è esattamente la medesima epifania cui giunge Pedro Costa, praticando il gioco di un film che esiste già perché esisterà: As filhas do fogo è un frammento che pone in opera l’idea di un suo vecchio progetto capoverdiano e la cosa singolare è che nasce anch’esso nel gesto pratico di allineare su un tavolo (di montaggio) immagini, appunti visivi, test che servono alla scansione di una immagine a venire. Lo schermo si compone di tre finestre parallele, in ognuna delle quali una donna attraversa uno scenario lavico che rimanda alla storica eruzione del vulcano dell’isola di Fogo: la prima cammina guardando l’orizzonte, la seconda è prona su un fiume fiammeggiante, la terza spia dallo stipite di una porta. Le tre figlie del fuoco, tre sorelle, cantano la Passacaglia 22 di Biagio Marini in un contrappunto reciproco che Pedro Costa ricompone nel piano sonoro, mentre trova lo scarto scenico nell’inserto tratto dalle riprese dell’eruzione del vulcano filmate da Orlando Ribeiro all’inizio del XX Secolo. Pedro Costa ricompone l’armonia nella separazione di queste tre figure, che scandiscono il dramma immaginario e tutto visivo di una separazione dovuta all’eruzione nella giustapposizione delle tre immagini/test e nella compenetrazione musicale offerta dalla Passacaglia e dalla nenia russa che fa da intermezzo. In tutto questo, As filhas do fogo è poi l’ennesima danza con l’oscurità di Pedro Costa, un filmare le tonalità del buio scalfite dalle fiamme, in cerca di una dimensione statuaria per la sofferenza, di una monumentalità del dramma che si esprime nella sua purezza.

Alla stessa maniera Wang Bing in Man in Black ricompone la trama di un’esistenza spezzata restituendo unità e ascolto alla presenza scenica di Wang Xilin, uno dei massimo compositori cinesi, oggi riabilitato ma che ha visto la sua carriera spezzata dal regime comunista. Il vuoto di un teatro parigino si offre come fossa in cui il corpo nudo di Wang Xilin performa la storia della sua sofferenza attraverso il canto, il piano, le memorie: la camera veste quel corpo con movimenti di macchina avvolgenti, giochi d’ombra e di luce, dettagli e totali che scandiscono la dignità di una presenza che occupa uno spazio reale, una scena alla quale era stato negato. Wang Bing gioca con il chiaroscuro dello spazio teatrale, insiste sull’ascolto della parola e della musica, cerca una relazione che sia integra e integrale proprio per ricomporre la dignità di una presenza, prima ancora che il valore di una testimonianza. E l’ideale, improprio, dialogo a distanza che Wang Bing instaura tra Wang Xilin e i giovani sarti protagonisti di Jeunesse (Le Printemps), il suo secondo film presente a Cannes 76, ha qualcosa di straordinario, proprio perché offre la linea di una transizione tra generazioni diversamente negate a se stesse nel flusso divaricato del destino storico.
