CANNES 2015: THE ASSASSIN di Hou Hsiao Hsien
Ombre nell’ombra
di Daniela Turco e Lorenzo Esposito
Silenzio, malinconia, distanza, sono questi gli assi invisibili e potenti che sostengono la struttura visivo-sonora di The Assassin, film spaesante e denso, che lavora su molti livelli diversi, di cui il genere wuxia è solo una delle maschere, seppure convincente e sentita, dietro cui si muove un intero mondo, vasto e nascosto, indecifrabile e segreto. Come spesso avviene nei film di Hou Hsiao Hsien, c’è una donna al centro di questo intreccio di conflitti per il potere e per la conservazione dell’indipendenza di una piccola provincia, Weibo, collocata ai margini dell’Impero: Yinniang, addestrata alle arti marziali e all’omicidio, che ha l’incarico di uccidere il cugino, governatore della provincia, da lei un tempo amato e poi perduto. Ma più che nei combattimenti, e negli scontri tra fazioni avverse che avvengono nelle campagne intorno, è dentro il palazzo, tra le pesanti cortine damascate e attraverso i veli di seta colorata, che si insedia pienamente la geometria dolce ed ipnotica di Hou Hsiao Hsien, che mette lo sguardo in abisso, disperdendolo letteralmente, fino a sprofondarlo in una soggettiva non identificata (succede anche nei combattimenti invero, che sembrano un colpo di vento, leggerissimi, quasi fantasmatici, ma anche in grado di spezzare in due lo schermo e di accecare la visione). Chi guarda, non visto, questi arredi sontuosi, i rossi, i neri e l’oro cupo di queste stanze, dove ogni singolo dettaglio sorprende per la sua estrema precisione? Era dai tempi de I fiori di Shanghai, che non si vedeva un tale spiegamento di spille, broccati, sete, fermagli di giada, che scoprono un vasto inventario di segni linguistici, di codici segreti interamente assorbiti negli oggetti. Chi guarda, insieme a noi spettatori, questi balli ritmati dal suono ossessivo dei tamburi che come una marea che sale assediano i piani; chi vede, non visto, tra le quinte fatte di veli trasparenti, nell’incerto tremolìo delle candele, questi rossi frenetici, questi sguardi che si saldano tra loro, improvvisamente, come in una vertigine orchestrata da Powell&Pressburger (il ricordo di Black Narcissus, soprattutto per questa colata materica di pastelli accesi e, di nuovo, accecanti, è davvero pressante)?
Hou Hsiao Hsien con The Assassin ci chiama direttamente in causa, su un piano teorico, mettendo in scena la posizione dello spettatore, un punto cieco, ombre nell’ombra, non siamo in fondo questo, noi tutti? Anche Yinniang fa parte di questa scena teatrale, solitaria e sigillata nel suo ruolo, altera e malinconica, è potenzialmente lei, l’uccellino azzurro della fiaba che non può cantare se non davanti a un suo simile, e che messo di fronte ad uno specchio, continuerà a cantare fino a morirne. Programmata per uccidere, rimproverata dalla maestra che l’ha addestrata perchè permette ai sentimenti di determinare le sue scelte, Yinniang, inafferrabile e ribelle, disobbedisce agli ordini, per obbedire alla vita, scegliendo di lasciar vivere colui che, in silenzio, continua ad amare. Sposa impossibile, al contrario di Uma Thurman, non ucciderà il suo Bill, ma imposterà un’etica del non assassinio, parando ed evitando i colpi, disegnando nell’aria l’evidenza enigmatica di una capacità superiore e il peso malinconico di una veggenza che si fa scelta politica.
Viene in mente anche Città dolente. Nulla è come Hou Hsiao Hsien. Un’onda tragica che inventa pieghe e si porge al mondo con movimenti rapidamente ipnotici. Una guerra la cui origine si perde nei secoli, con l’immagine che è la più cesellata mai vista ma al tempo stesso sembra sempre galleggiare altrove, per poi accendersi con scatti improvvisi, colpi precissimi che feriscono e aprono vecchie ferite, mentre intorno lo spazio si abita di un crepitio mai sentito di grilli, uccelli, tamburi, panneggi, petali…