CANNES 2015: AS MIL E UMA NOITES di Miguel Gomes
Storia di un film-lotta
di Daniela Turco e Lorenzo Esposito
Ironico, paradossale, giocoso e disperato, selvaggiamente contemporaneo, Arabian Nights di Miguel Gomes è un inebriante film-lotta di lunga durata (oltrepassa nella sua interezza le sei ore), scandito in tre capitoli-saggi, articolato in una forma-pastiche, lacunare e libera, cara da sempre a Jean-Luc Godard, usata qui, del resto, solo come possibile struttura di riferimento, già in rapida trasformazione, per risolversi in un gioco condotto in ogni direzione, teso a esplorare la sconfinata, ambigua no-man’s land, che si muove tra fiction e documentario. Oppure cercando una cadenza, un passo che sarebbe bello poter ancora definire umano, nel tumulto inesorabile della mutazione senza volto di nome Finanza. L’aria allora è quella giustamente di un film quanto più magmatico e poderoso tanto più incompiuto, al tempo stesso di precisione ruiziana (non finito significa infinito e irriducibile) e di lucidità de oliveriana (si veda il postumo di bellezza paurosa Visita ou Memórias e Confissões: il cinema è finzione, cioè la massima definizione di realismo)…
Perchè le Mille e una notte, e perchè Sheherazade? In questa generosità del raccontare, mostrata nel suo stesso svolgersi, vasta, incalzante e discontinua, potenzialmente infinita, nella gemmazione caleidoscopica dei racconti che si incastrano gli uni negli altri, per non esaurirsi mai, nel paso-doble, intrapreso, nemmeno tanto nascostamente, con la morte (erotismo compreso), affiora la stratificazione archeologica e distopica di un film che mette in immagine, obliquamente, un duro pamphlet di teoria politico-economica e che si fa report stringente di ciò che accade ad un paese, stritolato nel progetto del Capitale finanziario, oggi unica legge diffusa in Europa, che nel giro di un anno, dall’agosto 2013 al luglio 2014, come ossessivamente ripete una didascalia del film, ha impoverito il Portogallo.
Il film di Gomes, spettrale – anche in senso marxiano – e nello stesso tempo irriducibilmente vivo e reale, dispiega una tale potenza di fuoco di immaginario, e di immagini, che prese nel loro insieme aggrovigliato e proteiforme, restituiscono la forma, tutta politica, di una vera e propria resistenza armata, popolare e poetica, tumultuosa e liberatoria. Dentro e già oltre la “saudade”, Miguel Gomes, che arriva alla regia in seguito ad una pratica di critica cinematografica per un quotidiano, ha visto molto cinema e si vede: Nouvelle Vague e Roberto Rossellini, Jacques Rivette e Randall Kleiser, Raoul Ruiz, Joaquim de Andrade, Jean Marie Straub e Daniele Huillet sono solo alcuni dei tanti nomi di riferimento e degli spunti che scorrono nella trasparenza di queste immagini, senza mai appesantirle troppo, con la leggerezza di un tocco, che già sfugge, e si trasforma in altro, dirigendosi altrove (come il canto di un gallo veggente, come una collina che inventa boscaglie per proteggere il partigiano, come una poetessa che lotta per la propria vita rilanciando sibilline parole che sono scorci di storie altalenanti fra tempo perduto e materia incandescente della realtà).
Fanciulle vestite da odalische, arrampicate sulle rocce, che sembrano uscite direttamente da una piega del tempo e da un cinema indie anni Settanta, possono coabitare, ad una svolta successiva del racconto, con lo spaccato di un condominio alla periferia di Lisbona, che, forse, Sergio Citti avrebbe sentito vicino, abitato com’è da un’umanità tanto totalmente emarginata ed esclusa quanto selvaggiamente viva e non riconciliata, ironicamente cullata da una colonna sonora anni Ottanta che la protegge dall’illusione e insieme ve la condanna per sempre. Ma, anche qui, l’andirivieni di corridoi, stanze, pareti troppo sottili, finestre, sottoscala, attraversati con intenzione circolare e circuitante, sono il sintomo di un’umanità malinconica eppure battagliera (notevole che molte delle storie raccontate in questo secondo capitolo siano memoria resistente degli abitanti del condominio: perché fra l’altro Sheherazade, proprio come l’ineffabile procedere della realtà, raccontando produce naturalmente delle emanazioni affabulatrici, che prendono il testimone per partire verso nuovi sentieri, altrettanto interrotti, della narrazione)
C’è al lavoro, all’interno di quest’opera colta, nutrita di cinema, anti-cinefila e anti-capitalista, una riappropriazione potente di una ricchezza narrativa che viene finalmente restituita, nella sua interezza, al popolo, con l’antica bellezza di un incanto che si rinnova. Questo legame che unisce dei cittadini alla propria terra, e alla possibilità di raccontarla anche da un condominio-dormitorio nella periferia di Lisbona (siamo, come detto, nella seconda parte del film – The Desolate One), dove ragazzi sotto metadone, assillati dalla povertà, ascoltano le storie inesauribili e appassionanti di due anziani, i padroni del cane Dixie, che, come l’asino Balthazar, passerà poi nel corso del film, di mano in mano. Ma The Arabian Nights non si sofferma sul racconto, e sulla sua potenzialità politica, soltanto; c’è infatti un disegno preciso e parallelo, che si articola in figure cinematografiche, che sorprendono per la loro plasticità e per la sorprendente produzione di senso. Si pensi ad esempio, all’interminabile dissolvenza incrociata, in piano sequenza, che inaugura il terzo capitolo The Enchanted One: una riflessione sul narrativizzarsi stesso di una figura discorsiva, espressa con la libertà di un gesto inventivo degno ancora di un Raoul Ruiz.
O la lunga sequenza in camera-car che accompagna un vecchio in cammino, e l’intero film verso la sua chiusura, l’idea stessa di un popolo in marcia, realtà e metafora prese nella dinamica potente di uno stesso piano.
Un sonoro lussureggiante e ipnotico, un altro livello di stratificazione che meriterebbe di essere preso in attenta considerazione, si intreccia alle immagini come ulteriore “racconto in più”, come senso in più, maledettamente pericoloso e irresistibile, come le note e il ritmo battente e circolare di “Perfidia” che non smettono di risuonare, come il canto celestiale degli uccelli che moltiplica la dissonanza mescolandosi al rombo cupo degli aerei che partono…