CANNES 2014: NATIONAL GALLERY di FREDERICK WISEMAN
Lezioni di vero
Daniela Turco e Lorenzo Esposito
Era il pittore Camille Corot a sostenere che in pittura non bisogna cercare ma semplicemente si deve aspettare. Nell`ultimo lavoro di Fred Wiseman si entra ancora una volta, come già in anni recenti ad esempio nel teatro dell’opera di Parigi, all’interno di una struttura istituzionale, qui la National Gallery di Londra, uno dei musei più importanti del mondo, che presenta un intreccio inestricabile tra bellezza, produzione di pensiero e struttura economica. La mdp di Fred Wiseman si muove nella National Gallery con la stessa pazienza gentile necessaria a far affiorare gli strati diversi di un sito archeologico. Esiste tra l’altro un intreccio, sempre presente nel lavoro di Wiseman, e qui particolarmente insistito tra il lavoro vivo (la manovalanza operaia mostrata mentre smonta o monta le varie mostre all’interno del museo, oppure i vari addetti alle pulizie che lucidano i pavimenti, con i quadri che vi si specchiano, nitidamente, ma capovolti) messa a confronto con le parole degli storici dell’arte che rivolgendosi a piccoli gruppi di visitatori oppure a chi partecipa alle conferenze, entrano nel vivo della straordinaria condensazione narrativa di alcuni dipinti particolarmente problematici, come ad esempio un Rembrandt che letto verticalmente mostra il ritratto di un uomo a cavallo, e che, se viene fatto ruotare di 180 gradi, rivela sotto le molteplici velature a olio un altro dipinto, un autoritratto anch’esso a cavallo. Oppure alcuni Velasquez o Vermeer che continuano ad interrogare chi li guarda perchè avviene talvolta che il vero soggetto del dipinto non si riveli fino in fondo o che alcuni dettagli raccontino una storia diversa da quella che appare a prima vista. Lezioni di vero che lavorano in profondità sull’incertezza, sull’ambiguità, sulla ricchezza inesauribile che si apre a un’interpretazione interminabile di alcune immagini, e sui modi di rappresentazione che ribadiscono come i quadri non siano mai presenze innocenti perchè guardati, ricambiano il nostro sguardo, ponendoci in silenzio delle domande. Wiseman si affianca qui al Sokurov di Arca Russa nel riconoscere che la grande pittura continua a porci dei problemi, mettendo di fronte ai nostri occhi, oltre alla bellezza, spesso insostenibile, delle forme, degli enigmi da sciogliere. Leonardo, Tiziano, Vermeer, Rembrandt, Turner, Holbein non a caso sono le presenze più ricorrenti nel film, in quanto tutti pittori che hanno saputo proteggere fino in fondo il mistero della propria opera proprio nel momento in cui veniva presentata al mondo.
E poi come sempre in Wiseman, la presenza vertiginosa dell’inatteso, di cui vale la pena segnalare almeno due momenti nelle tre ore del film: il primo che riguarda la lettura tattile delle riproduzioni dei quadri da parte di un gruppo di persone non vedenti, che imparano a vedere un dipinto facendo scorrere le dita sul foglio che lo riproduce, ricostruendo uno spazio fisico e mentale che trasforma l’invisibile in visibile, e, verso la fine del film, durante la visita di un gruppo nell’ala del museo dedicata a Cezanne e alla pittura impressionista la presenza di un visitatore mutante con un obiettivo-zoom montato al posto di una lente degli occhiali. Un film che Jacques Lacan avrebbe sicuramente amato per quell’intenso soffermarsi sul problemi dello sguardo e dei suoi scarti; il tempo della pittura messo in acuta tensione dal tempo filmico, un museo sottratto all’istituzione e proposto con il calore di una cosa viva.
Se il precedente capolavoro At Berkeley insisteva a costruire sottotraccia l’utopia di una tensione artistica dell’istituzione stessa, qui l’arte è talmente ‘alta’ da non poter essere istituzionalizzata. Ed ecco allora che Wiseman si rivolge all’opera incerta dell’occhio (col continuo rilancio di sguardi dai volti dipinti a quelli dei visitatori) e a quella incertissima della parola che cerca di ridire (con metafore, racconti, analogie, semplici esempi e puri rilanci del desiderio) ciò che forse è stato fatto per sfuggirle. Con tutta la sua sapienza di romanziere ancora prima che cineasta, avanza spedito laddove apparentemente il mondo richiede lentezza e osservazione, ma che invece, sottoposto così a un trattamento di frasi brevi e mai indulgenti, rigorose su tutto e curiose di tutto, (totale del quadro e dettaglio, volto, totale della stanza, primo piano di mani al lavoro, nudità dell’opera e studio del nudo, restauro del corpo malato di una tela o della sua cornice, rimessa in scena e ulteriore studio dell’intreccio fra luce e oscurità), arriva a misurare, intorno al dipinto, il peso dell’aria e del pensiero stesso, fra vita e morte, resistente nonostante tutto.