CANNES 2014: MAPS TO THE STARS di DAVID CRONENBERG
L’amore vince sulla morte
Luigi Abiusi
Non un ritorno, ma una conferma, dell’attualità di Cronenberg, a smentire, ancora, le dicerie di deriva (edulcorazione) degli ultimi anni. In linea con la natura anfibia, l’eterotopia dell’immaginario cronenberghiano – un costante lavorio su di sé, sempre a mettere in discussione le soluzioni raggiunte, tanto, mettiamo, da erodere, momentaneamente, le conquiste figurali in favore di quelle dialogiche, forse aniconiche e batailliane di un A Dangerous Method: il che era segno di un cinema in costante movimento, e non deriva o passivo annichilimento -, Maps to the Stars è struttura (mappa appunto) bifida, prismatica, speculare della sua tenera, umanissima e ossessiva fragilità o della scatologia più ripugnante, inerme, morta, a seconda della prospettiva, dell’inclinazione, da cui la si guarda. Ologramma a due facce, che mostra l’onirico (incubi, ustioni, umanissime perversioni da estremo desiderio) alla luce di una più o meno riconoscibile ottica cronenberghiana, impiantato su fondamenta politiche, come dire, schraderiane, che emergono grazie all’apporto di un Bruce Wagner, si sa, osservatore e caustico traduttore delle aporie americane: una politica (cioè empiria) dell’apparire monetario (o del non sparire, completamente incarnati alla koinè televisiva, dell’sms, dei social network, ecc.) in epoca postcapitalistica che si definisce nella (meta)fisica delle deiezioni: merda, piscio, mestruo decantati dall’ottusa progenie di star-adolescenti. Ma qui, col sangue, siamo di nuovo in territorio “purulento” cronenberghiano: ed è questa conformazione basculante del piano (la figura che a seconda dell’inclinazione cambia di postura, di segno), questo costante cambio di prospettiva, che a un tratto diviene compresenza, concrescenza inscindibile di ottiche, organismo cinematografico mutato (e mutante), a fare di questo film un capolavoro e forse la cosa migliore di Cronenberg dai tempi di Crash.
L’oscillazione è da Storia a storia, dal vuoto hollywoodiano (vuoto esemplare del contemporaneo, dell’essere – cioè apparire – nel contemporaneo, privo di ogni dialettica proprio nel voler essere delle star) passando per l’illustrazione wagneriana di ragazzine che ciarlano di menopausa, di escrementi di vip venduti ai fans (capitale-merda-compravendita); della destinale sacrificabilità di un bambino purchè Havana possa avere una parte in un film su sua madre; della violenza a furia di pugni sulla propria figlia, pur di difendere l’apparenza-capitale, ecc.; per arrivare al trionfo astorico di corpi legati tra di loro dal filo del fuoco, votati a bruciarsi in quanto materia di risulta (abumana), per ri-divenire finalmente, pienamente fantasmi. È una liberazione dalla storica, reale opportunità di sopravvivenza ottusa dei corpi dentro il pecuniario (cui cacofonica antifona è il blaterare adolescenziale di una sessualità ridotta a merce marcia), in favore delle storie fantasmatiche, immaginifiche, che risuonano nei versi di Liberté di Paul Eluard; narrazioni perverse (ma nel senso di innocente ineluttabilità klossowskiana), storie malate ma proprio per questo segnate, a fuoco, da amore. E non importa che Agatha e Benjie siano uniti dallo stesso sangue così come lo sono i loro genitori (il che per la Storia è aberrazione, mentre non lo è per le storie cronenberghiane): anzi ciò è dialettico, ha senso (è una logica di consanguineità, di genealogia contaminata dei personaggi, che regola in senso lato tutti i film di Cronenberg, e, ad esempio, in senso stretto, Inseparabili); e che il loro amore sia morboso, malato, decidendo così di scomparire: alla fine l’amore vince sempre sulla morte.