CANNES 2014: EAU ARGENTÉE – SYRIE AUTO-PORTRAIT di OSSAMA MOHAMMED E WIAM SIMAV BEDIRXAN
I mille occhi della Siria
Lorenzo Esposito
Ripensando alle ultime indicazioni lasciate da Roberto Rossellini, che immaginava una rinascita del cinema (diciamo proprio la sua riapparizione) attraverso un capillare (e didattico) depotenziamento capace al contrario di ritrovare forza da una coscienza insieme analitica e insurrezionale, è difficile non vederne lo spirito nel nuovo film di Ossama Mohammed, Eau argentée – Syrie auto-portrait.
Non si tratta solo – nel raccontare e portare un po’ di verità sull’immane tragedia siriana (cui non bastano parole) – della forma dispersa e universale a un tempo di una difesa guerrigliera fatta da mille occhi e centinaia e centinaia di telefonini e camerine, che poi diventano un solo sguardo che è lo sguardo di tutti, coraggiosamente inventato e sottratto alla violenza da una giovane curda di Homs (Wiam Simav Bedirxan, di fatto co-regista), straniera in una città martoriata, sventrata, inondata di sangue, dove rimangono solo bambini e gatti mutilati che vagano fra le macerie – una città irriconoscibile, straniera a se stessa. Tutto il popolo siriano filma: filmano i giovani pacifici che manifestano per le strade, filmano i torturatori nelle carceri, filmano i ribelli armati e filmano i militari del dittatore (una maratona, la definisce Mohammed, il film più lungo della storia). E non è solo il grande vuoto, sporco e raccapricciante, di una guerra se vogliamo più sudicia ancora di molte altre. E non è solo che un film oggi può (e deve?) essere fatto di queste immagini altrui perché non esiste immagine altrui, ma solo l’avventura infinita dell’altro da sé. Hiroshima mon amour… Dodesk’aden…
È che questa cosa di nome cinema, costretta tutte le volte a chiedersi cos’è veramente, e di nuovo cos’è un piano fisso, cos’è il realismo, cosa sono le immagini degli assassini e cosa sono le immagini delle vittime, cosa significa filmare o leggere un libro sotto un bombardamento (un libro intitolato La memoria dei corpi…), è ancora capace di mostrare il punto invisibile della speranza, il fiore che semplicemente cresce ai piedi di una casa rasa al suolo. Capace di mostrarsi laddove l’umanità si bea dell’accecamento, e si dimentica di essere umana.
Ha ragione il rosselliniano Godard (ancora non visto): addio al linguaggio per ritrovare la lingua, la lingua degli umani, la lingua nostra.