CANNES 2014: ADIEU AU LANGAGE 3D di JEAN-LUC GODARD
Ah dieux Oh langage
Lorenzo Esposito e Daniela Turco
Difficile dire se questo film tragico e compattissimo nella sua stratificazione voglia farci abituare infine all’accecamento che crediamo di poter controllare e che invece così come appartiene alla nostra natura ne è anche metafora estrema (da una parte come dall’altra ci sono due donne e due uomini, sporti in altrettanti allineamenti e disallineamenti, corpo a corpo sicivolosissimo che riguarda la natura dell’occhio e la metafora delle due camere 3D, che sottoposte a sovrimpressione mandano in tilt l’occhio medesimo). Testo intenso e difficile, perfino violento, nell’uso della stereoscopia che violenta l’occhio, quando va a coincidere con la sovrimpressione mettendo letteralmente in scacco la possibilità stessa di vedere. Il film si apre ricordando che sono coloro che mancano di immaginazione a rifugiarsi nella realtà. Si parte dalle consuete scritte in rosso e bianco su nero, lettere e numeri, natura versus metafora, parole contro cose, per far scorrere lungo binari familiari e tuttavia rinnovati dal gesto di scoperta inaugurale, che segna la posizione singolare e vertiginosa di JLG nel cinema, capace come nessuno di riunire la musica alta a quella d’uso, della pittura, De Stael, Warhol, Monet, che invitava a non dipingere ciiò che si vede, perchè non si vede nulla, ma quello che non si riesce a vedere. Fiori, alberi, le acque del lago, i libri, Solgenitzin, Pound, Dostoevskij, Levinas, sono tutte immagini che entrano ancora una volta come elementi conosciuti in una terra straniera che è lo spazio di questo film. Un uomo, una donna, un cane o forse, due donne, due uomini, corpi senza difesa, presi nella loro disarmante nudità, davanti alla mdp, la kamera, che in lingua russa significa prigione. La parola tra uomo e donna, come l’amore, sembra ancora una volta impossibile e se lei chiede di potergli parlare, lui risponde di cercare la povertà nel linguaggio. `Non si puo` pensare liberamente quando gli occhi sono presi nello sguardo dell’altro. C’è una difficoltà nel restare soli.
Oppure è l’animale nudo che siamo (il cane Roxy è JLG) a incarnare l’ultima speranza di una parola finalmente disincarnata, non sottoposta al controllo spietato e equivoco della coscienza, capace di tornare alla lingua misteriosa (né un’arte né una tecnica) per il cui ritrovamento non esiste più linguaggio abile a segnalarla. E d’altra parte la solitudine, essere davvero soli, dice Godard, è ancora più arduo, a meno che non ci si risolva a domandarsi qualcosa su una cosa semplice e una difficile (quella semplice è anche un po’ difficile): la sofferenza e l’aldilà.
Dal flusso frammentato delle immagini, quelle degli istanti qualsiasi su un molo, o alla stazione mentre passano i treni, o in una strada qualsiasi di notte mentre cade la neve, sale irrefrenabile la consapevole tristezza di aver situato il cinema in una linea di confine, un margine strettissimo che si spende tra vivere e raccontare, tra sofferenza e oltremondo, dove l`uso del 3D funziona come punto di fuga per far sprofondare la visione.
Per il resto le uniche due cose in cui siamo tutti uguali sono la merda e la morte (e piacerebbe a Godard che in italiano si tratti di due M), come ha detto anche Cronenberg in Maps to the Stars, facendo cacare Julian Moore e salendo verso il cielo (altra analogia le cicatrici-bruciature sui volti di Maria Wasikowska in Cronenberg e Eloise Godet in Godard). Il tragico è che della bellezza delle diversità si è fatta ottusa dispersione, non gioco ma cancellazione della memoria. Roxy, il cane malinconico, corre nei boschi e circumnaviga i laghi e rimane estatico a guardare i treni, vero e unico visionatore in 3D senza bisogno di sapere che i girasoli sono Van Gogh e che il dramma della natura è la settima di Beethoven. Corre via e non si sa se e quando tornerà.