Bressane: Montaggio selvaggio
di Giovanni Festa
Il montaggio, scrive Bressane, esige un equipaggiamento mentale creativo: ma, ancor di più, il montaggio deve farsi selvaggio, e intendersi come pensiero-movimento-operazione tropicale e aborigena, barocca e smisurata.
“Povera Giraffa!” è il titolo di un acquarello di Lili Masson che mostra una savana con un palmizio, un sole tropicale che sorride crudele, e una famiglia di giraffe, in fuga davanti ad un uomo bianco armato di scudiscio: Lili è una pittrice di 9 anni e Bataille inserisce quest’immagine all’interno del suo scritto sull’arte primitiva per il numero 7, anno II, di Documents: l’arte dei bambini è un’arte selvaggia, dove si ricomincia daccapo, si attribuisce la stessa realtà all’oggetto e alla sua rappresentazione, e dove è essenziale lasciare una traccia gestuale del proprio passaggio, in un’affermazione, euforica e disruttiva, della personalità. Ciò che lega arte primitiva e disegni infantili è infatti un’alterazione della figura e del supporto capace di trasformare ciò che è alterato in un nuovo oggetto.
Selvaggio è, allora, innanzitutto un pensiero («il cinema è un mistero inventato per pensare», uno strumento ottico del pensiero) arcaico, perverso-polimorfo proprio, in un certo senso, di bambini diventati “poeti di sette anni” che immaginano foreste, soli, rive, savane: pensiero che comprime territori, esalta l’eterogeneità e gli slittamenti, allucina i contenuti e domina il disordine estraendo il fondo auratico di configurazioni nuove che fa brillare-agitare-toccare al -nostro- occhio (che è anche, per Bressane, un’iride-sfintere) stropicciato, lacerato, narcotizzato per eccesso di sguardo, un pensiero che scopre se stesso, e che fa tremare e fremere il corpo sensibile, oltrepassandolo.
Selvaggio è il movimento stesso della memoria, biblioteca babelica, stratificata e labirintica come le Carceri piranesiane, dove un anonimo storico-bricoleur traduce, rimontandola, l’immagine dell’esserci stato in immagine del futuro, la rovina (anche mnestica) in spazio dove è possibile articolare nuovi significati che da individuali e privati esondano le frontiere dell’io affinché possano appartenere a tutti e farsi collettivi.
Il montaggio selvaggio è, infine, quell’operazione capace di associare anacronicamente frammenti di realtà legati alla memoria e al desiderio, e che avvicina Ellade e Germania, America e Europa, Arcaico e Moderno, comprimendo regioni, effettuando tagli vertiginosi di spazio-tempo, contrapponendo e invertendo tempi e luoghi, riutilizzando sedimenti, fondi, dettagli, attraverso i quali l’immagine del passato sorge come la prora di una nave in una giornata di nebbia, diretta verso il futuro (ed è anche capace, quindi, di trasformare “pezzi di tela grezza” in vele distese, propizie alla scoperta e all’avventura, scivolando su quell’ “onda sensibile al montaggio” che è l’unico e vero specifico filmico).
Per Bressane si tratta di mostrare la natura scopertamente tropicale, cioè barocca, eccessiva ed ebbra (di calore, colore, natura rigogliosa, «piena di grevi cieli d’ocra e foreste sommerse, fiori di carne dispiegati nei boschi siderali, Vertigine, crolli. Disfatte e pietà», aggiungerebbe il nostro “poeta di sette anni”), secondo un’idea, una tradizione, “sperimentale” che rivelerebbe l’unica tensione unitaria del cinema nazionale.
In numerosi film del cineasta brasiliano (soprattutto quelli del primo periodo, ipertroficamente, gioiosamente, marginale) siamo posti davanti a immagini “tropicali”, frenetiche (spesso agitate dalla convulsione della macchina a mano, da sfarfallamenti e da tagli improvvisi), che vengono programmaticamente mischiate e sovrapposte con altre, che appartengono alla storia del cinema (altri colori, altre grane, altri formati) o alla storia privata del cineasta.
In Cinema Inocente (1980) Radar, il montatore di oltre cento film porno “chanchada” è intervistato nella sede della Magnus film, studios in rovina di film a basso budget con al centro una grande fossa che “Julinho” Bressane, il cineasta-reporter alla ricerca del montatore, subito associa alla fossa dei leoni di Daniele. Le immagini dell’intervista e di Radar alla moviola (da un lato è colui che ha introdotto nel film porno alcune caratteristiche del cinema marginale, dall’altro è un collezionista di memorabilia hollywoodiane: conosciamo grazie a Benjamin le caratteristiche di questi ossessivi dall’istinto tattile, grandi fisionomisti del mondo delle cose capaci di estrarre l’oggetto dal suo contesto funzionale per chiuderlo dentro il circolo magico della vita onirica), vengono mescolate con immagini di film pornografici (che possiedono un’aura assolutamente tropicale e marginale, come la coppia nella radura: lui, legato con le mani dietro la schiena, si getta sopra di lei, in costume da bagno rosso e stivali di pelle nera, che si spoglia frenetica) e di filmati in bianco e nero che provengono da un archivio preciso, quello di Thomas Alva Edison. Nell’angusto spazio della Black Maria, sopra un semplice palco di assi di legno illuminato a giorno, Edison con i suoi operatori filmava, con l’occhio dell’amateur, invece di vedute della vita quotidiana (come facevano, dall’altra parte dell’oceano, i due “fratelli Luce” e i loro operatori), scene private o piccoli numeri da circo, “attrazioni” destinate ad una forma di visione solitaria (attraverso un visore) che avrebbe anticipato l’home movie: se in Francia il cinematografo si riallacciava a più antiche e prestigiose forme spettacolari (dalla grande pittura di paesaggio o urbana fino ai Panorama), in America il cinema era già da subito un apparato voyeuristico, capace di registrare performance che permettevano allo spettatore di godere: di un’azione ben riuscita, di una piccola scena intima: i due poli del cinema americano, quello spettacolare e quello sperimentale, erano già presenti nell’universo del geniale inventore. Bressane preleva, dall’archivio di Edison, film specifici (la capacità del cineasta-montatore di scegliere, all’interno della storia del cinema, sempre l’immagine godardianamente giusta, ha qualcosa di medianico): il ballo spagnolo di Carmencita (censurato perché la performer mostrava i seni); Washing the baby (un bambino lavato in un’immensa tinozza); ma anche la decapitazione di Maria Antonietta (incursione di Edison nel film storico e nel mondo della violenza contraffatta) e il primo film sonoro (due uomini che ballano mentre un violinista registra la sua sonata davanti alla cornetta enorme di un grammofono). Se li osserviamo attraverso il filtro di Bressane, danza ispanica, testa tagliata, ballo omoerotico, la grande donna di colore, bella come in Manet, che si occupa del neonato, non sono tutti elementi che manifesterebbero una eretica, marginale, tropicale e innocente vocazione delle immagini? Soprattutto se a queste immagini si aggiungono quelle “brasiliane” di Bressane, che mostrano una copula dentro un set assurdamente matissiano; immagini in bianco e nero della metropoli e la sempiterna inserzione della miracolosa strada serpentina dove Bressane incontra, in un cortocircuito straordinario, Marcel l’Herbier: il cinema innocente è il cinema sperimentale. Già, L’Herbier (il mitico autore di quella corrente magico-ritmica che era la seconda avanguardia francese, autore di opere come L’Inhumaine) che parla del suo film “brasiliano” sugli indios. Solo che L’Herbier non è mai girato il film, non è mai stato in Brasile e non ha mai conosciuto Bressane: l’uomo intervistato è l’importante antropologo a cui fa riferimento il falso L’Herbier durante l’intervista, guida di Levi-Strauss in Brasile (e padrino della prima figlia di Bressane di cui scelse il nome, Tandé): Nunes Pereira!
All’improvviso lo schermo si riempie con l’arrivo, iniziatico, del transatlantico. Nemmeno in Ford e in Vertov la metafora della nave che approda ha il valore che possiede in Bressane: nel primo -il riferimento è a Three Bad Men– è il mezzo di trasporto degli immigrati europei, responsabili della “nascita”, contraddittoria e violenta, di una nazione; nel secondo è la barca del capitalismo, che si arena nella baia nordamericana; in Bressane invece risponde, come vedremo, ad un atto fondativo ancora più radicale, insieme del cinema e dello sguardo inteso come tecnica di appropriazione e conoscenza del mondo. A tutto questo va aggiunta, di nuovo, l’inserzione di una serie di immagini fotografiche in bianco e nero, edificazione dell’ennesima chambre verte del cinema bressaniano. Edison-L’Herbier-Radar-Bressane: il cinema selvaggio dei primordi, il cinema sperimentale delle avanguardie storiche, il cinema porno tropicale, il cinema marginale, formano un unico blocco o costellazione di immagini di “cinema innocente”, cinema che, completamente antiprogrammatico non si chiede “perché” o “cosa” filma, ma considera ogni oggetto meritevole di essere filmato: un cinema di questo tipo proclama l’innocenza del divenire-immagine di ogni oggetto, corpo o gesto, in nome della bellezza convulsa e dell’erotismo (in senso davvero batalliano, come risposta affermativa davanti alla morte). Cinema innocente al quale vanno aggiunti, se vogliamo, altri autori e spezzoni che Bressane inserisce dentro i suoi film: ogni frammento, ogni spezzone che il cineasta brasiliano annette dentro il “suo” corpo filmico diventa automaticamente innocente e tropicale (come, e l’esempio non è causale, e solo per fare un esempio, le immagini di Destino di Lang, sovrapposte a quelle di Lemmy Caution ne le Histoire(s) diventano immagini godardiane –come già era diventato godardiano, inteso come personaggio, lo stesso Lang in Le Mepris; Histoire(s) che non a caso Bressane chiama “cinema Tabù”), come ad esempio il prologo Que viva Mexico! di Ejzenštejn annegato in una patina giallastra “dentro” Miramar o Tabù di Murnau “dentro” il Tabu di Bressane. In quest’ultimo film le immagini auratiche ed archeologiche del grande regista-teorico sovietico e quelle del dramma etnologico del grande “inventore di forme” tedesco, mischiate con i fantasmi del desiderio del cineasta brasiliano, si scoprono dotate di una forza selvaggia che potremmo chiamare forza eterogenea degli antipodi. E non obbediva alla stessa, imperiosa, legge di migrazione trasformare San Girolamo in Sao Jeronimo, far parlare il traduttore della vulgata in portoghese e filmare il deserto biblico in un angolo desolato e selvaggio di Brasile? Viene in mente Sebald, quando in Austerlitz scrive «non esiste tempo, ma diversi spazi imbricati fra loro, fra i quali i vivi e i morti vanno da un lato all’altro». Essi vivono: morti, ombre, cinematografici fantasmi per sempre: le immagine in bianco e nero del film di Murnau, che mostrano danze di corpi nudi, abbracci tenerissimi fra i giovani isolani, bagni dentro fiumi tumultuosi, apparizioni dentro un fogliame lussureggiante, vengono mescolate con riprese sgranate e in bianco e nero di vecchi film erotici (con scene di nudo, fellatio, sesso ristretto ai movimenti meccanici degli organi) e con immagini del film di Bressane sui due autori d’avanguardia il cui centro è il corpo canoro di Caetano Veloso e quello della ragazza con le calze, ninfa che si muove demonicamente sinuosa danzando fra un’immagine e l’altra: il risultato è un corpo filmico iridescente e compatto.
Viene in mente, a proposito de Cinema Innocente, Vampiro da cinemateca (1977), film del critico di Sao Paulo Jairo Ferreira che riassume tutto il cinema precedente facendolo diventare futuro, dall’horror con Vincent Price a Citizen Kane di Welles (che diventa un film diverso, visto come attraverso la nebbia appiccicosa e oppiacea della scena dell’incubo dei film noir, e dove il protagonista non è più Kane, ma Susan Alexander), dalla corsa pazza dell’uomo colpito a morte di Underworld USA di Fuller (scena amatissima anche da Godard, che Ferreira associa con l’immagine di una ruota panoramica a forma di stella), alle scene surrealiste di Helzapoppin associate a Lautreamont; sequenze che vediamo mescolarsi e patire l’inserzione improvvisa della Storia: ora sotto forma di cartiglio elettrico, linguaggio, come nel caso dell’inserto della fascia luminosa del notiziario, che accenna al terremoto in Guatemala, ora come messa a punto di un ornamento di massa, come nelle scene dedicate alla società totalitarista con le immagini da Il Trionfo della volontà. Il montaggio selvaggio è un dispositivo proliferante, che si muove su se stesso, produce conflitti e analogie, sovrapposto al movimento in avanti, al di là della finestra sbarrata e dentro il cortile sabbioso, di Professione reporter di Antonioni; (ma la sequenza iniziale del film di Welles era anche stata montata da Bressane insieme al crollo di un palazzo in un quartiere residenziale): variazione sul movimento in avanti che elude e infrange una gabbia che vuole ritenerlo ma anche relazione fra uno sguardo che si crede onnipotente e sovrano e un crollo (del visibile). Poi, altre immagini, altre sovraimpressioni: la danza di combattimento di Bruce Lee con quella ginnica nello stadio delle Olimpiadi hitleriane; l’animazione della macchina da presa nel film di Vertov con immagini di un movimento in avanti dentro la chinatown di una metropoli tropicale; un concerto di bossanova più le immagini del monticello di cenere della slitta di Kane, dove splende liquefatto il nome Rosebud, immagine divenuta resto liquefatto e fosforescente.
Il montaggio selvaggio permette a ogni immagine di trascinarsi nella successiva e viceversa contaminandola, in un metodo di dissociazione che «filmando film che filmano film» secondo una pratica ouroborica del materiale, si nutre di immagini di desiderio, barocche e vertiginose. Ossia: pathosformeln, formule di pathos warburghiane, formule arcaicizzanti adeguate alla espressione di stati limite, al parossismo, a tensioni fisiche e psicologiche a un passo dalla rottura. Si tratta, se vogliamo, dell’ultimo momento di divampante fulgore del corpo prima della caduta nera, della sincope, della stasi del clinamen, della perdita dei sensi -o delle vesti, come bene segnalava Didi-Huberman- secondo una dinamica che in Bressane diventa erotica e pulsionale Sedução da carne. In quest’altra, più recente, opera filmica è presente ad un certo punto un “inseguimento amoroso” di nuovo tipo: in una sequenza in bianco e nero la donna, Siloé, fugge inseguita da un pezzo di carne semovente, appuntito, informe, strisciante -e vengono in mente Lynch, Eraserhead, con i suoi resti organici impazziti, ma anche le immagini di arte rinascimentale che Warburg aveva selezionato e montato per illustrare la fuga erotica della fanciulla. La novità, in Bressane, è far migrare la pathosformeln (ma non era quello che proprio Warburg era andato a “verificare” in New Mexico?) dentro un mondo prelogico dotato di casualità metaforica, con il montaggio selvaggio come rete capace di associare fra loro il fugace (l’immagine mossa) e l’animismo dell’inerte, «fossili di una forza aborigena sopravvissuta da lungo tempo, mappatura della metamorfosi di un sentimento arcaico nell’acqua dell’immagine moderna» (Bressane: Mnemosyne: les signes parmi nous). Non a caso la sequenza di seduzione è in bianco e nero, forse per un’assonanza segreta con un altro motivo, fertilmente cinematografico, di Warburg (e mi torna in mente Bressane che al Festival del cinema di Roma di qualche anno fa mi mostrava il Diario romano di Warburg e Gertrud Bing che aveva appena comperato nella versione della Aragno), quello dell’immagine-grisaille, dettaglio marginale che presentifica l’Antico lasciato in stato latente, arredo spiritico di figure di compromesso che lavorano per contiguità paradossale e affinità segrete, deposito in bianco e nero dove sorgono immagini del desiderio: «Immagini cariche di forze passionali, tempi eterogenei, intervalli, sopravvivenze, permanenza di gesti di gradazione emotiva multiforme, passioni contrarie nella stessa azione, straniamento nell’ostensivamente familiare… Aby Warburg chiama il cinema “un Atlas di gesti umani”» (Bressane). Ed eccoli, questi gesti al limite della ninfa bressaniana: dalla ragazza di Tabu che copula nell’auto rossa a picco sul mare e danza davanti ai tre letterati sugli spalti di un giardino antico, alla coppia delle ragazze “straniere” in Miramar, ibridi orientali, freaks velati dell’antico rimosso; dalla donna distesa nella posa della Venere allo specchio in Sermoes alla danza del ventre in Cinema Inocente, baluginano davanti agli occhi immagini instabili e ribelli che riescono a comunicare stati emotivi estremi, capaci di intensificare l’immagine, di suggerire stati di esistenza alterata e dionisiaca di dismisura, furia e allegria. Ma anche di morte: Warburg lo sapeva bene, quando scoprì nella giocatrice di golf-tagliatrice di teste, nella menade che smembra Orfeo, il rovescio demoniaco della sua ninfa benigna “canefora portainfretta” divampante fulgore nelle stanze prospettiche delle giornate fiorentine: l’irradiazione erotica si deve alla prossimità della morte. Ma allora (è una conseguenza?) l’immagine della ninfa bressaniana è sempre, paradossalmente, in piano sequenza: sed non satiata, questa divinità eteroclita, «bruna come le notti, profumata di muschio misto all’avana», baudelariana e brasiliana, si sfinisce davanti ad un occhio che vorrebbe guardarla/divorarla per sempre, i desideri volti in carovana. Ossia, direbbe Warburg, l’irruzione della bellezza e del terrore antico si dà come rappresentazione continuata, si dispone come fregio, in continuità di sguardo (la Tavola 40 di Mnemosyne illustra esattamente questo: ma su Warburg e Bressane ci sarebbe, lo si è capito, molto da dire: questa è solo una -prima, rapidissima- approssimazione). Il piano sequenza, per il cineasta marginale non è infatti una negazione del montaggio, ma un piano estremamente, eroticamente dilatato, nel medesimo tempo ideogramma (ossia una formula, che non smette di copulare e combinare inquadrature) e un’ossessione (cioè un pathos, che ripete il movimento e proietta sulla superficie la durata profonda del tempo) in una dislocazione dei corpo in un altro stato sensibile.
Il risultato di questa storia di fantasmi tropicali per adulti è un stile poetico ed estetico capace di forgiare categorie proprie: e qui viene in mente un altro grande autore “tropicale”, Lezama Lima, che faceva ricorso a categorie personali come resistenza (la resistenza, dice, del Mare per Colombo, in un dialogo fra l’uomo che penetra e la terra che diventa trasparente), hipertelico (vittoria dell’uomo su ogni determinismo, in un incontro di questi con l’immagine), esperienza obliqua (capace di inaugurare un nuovo tipo di catena a-causale, casuale, onirica e inconscia), barocco (se Bressane lo definirebbe “aborigeno”, per Lezama è “ispano-negroide”: in entrambi i casi il dettaglio prende il posto della totalità in una proliferazione pazza del marginale ed è una forza che non conosce confini, che per Lezama -ma anche per Bressane- riguarda la letteratura, la geografia e l’arte ma anche, per esempio, un banchetto di frutta e molluschi tropicali). Per entrambi centrale è la penetrazione della poesia nella storia, intesa come forza sintomale che la deforma e la apre: «Tutto dovrà essere ricostruito, inventato di nuovo, e i vecchi miti, al riapparire di nuovo, ci offriranno le proprie congiure ed enigmi, con un volto sconosciuto. La finzione dei miti senza nuovi miti, ma con nuove stanchezze e terrori» (L. Lima, Paradiso) E in questo gioco di proliferazioni vengono in mente il quasi omonimo Jorge de Lima (autore del poema Invençao de Orfeo), ma anche Galaxias di Haroldo de Campos, libro dei libri mallarmeano che mescola le tribolazioni del barocco con le allucinazioni del tropico, Atlas traboccante di immagini in fusione-contraddizione-alterazione continua.
L’ultima immagine è anche la prima (della storia del cinema brasiliano), ossessivamente citata da Bressane: quel travelling semplicissimo e fatale dei Fratelli Secretto con la cinepresa (appena comprata dai Lumiere) che, posta strategicamente sul parapetto della nave, filma l’avvicinamento alla Baia di Guanabara, a Rio, nel 1898, realizzazione folgorante non solo del primo travelling della storia del cinema, ma soprattutto mescolanza fra la straordinarietà di una location “agli antipodi” (la città sul mare, il Pan di Zucchero) e l’oscillazione propria dell’immagine, che a Bressane fa pensare ai ritmi ipnotici e melanconici della bossanova. Il film è andato distrutto, ma possiamo ricostruirlo (o almeno immaginarlo) grazie al testo di un altro viaggiatore degli antipodi che descrive così l’ingresso, in nave, nella baia della metropoli carioca: «così le dimensioni della baia di Rio non sono percettibili con l’aiuto di referenze visuali. La lenta progressione del naviglio, le sue manovre per evitare gli isolotti, la frescura e i profumi che discendono bruscamente dalla selva attaccata alle montagne, stabiliscono anticipatamente un certo contatto fisico con fiori e rocce che ancora non esistono come oggetti che però preformano nel viaggiatore la fisionomia del continente».
Che meravigliosa descrizione è mai questa (di cui abbiamo riconosciuto il narratore, che è Levi-Strauss in Tristi Tropici)! Metafora della visione, prodotto di un occhio avido e curioso che si avvicina ad un territorio “agli antipodi” dal suo che già, magneticamente, fa mostra di sé, si espone, prima ancora di essere visibile, come effluvio; e illustrazione, insieme vagamente allucinata e intensiva, dello stesso travelling cinematografico, movimento di approssimazione curiosa e liberamente mossa, che sembra toccare più che osservare, polimorfo manocchio del cinema che palpa e gode scrutando, che sfiora orizzonti sui quali riflette al volo, sbadatamente carico dell’energia pulsionale (viene da dire: sperimentale) del gesto involontario ma proprio per questo preciso, inesorabile e quasi fatidico: strumento che sarà tipico del cineocchio tropicale (che svela) e del montaggio selvaggio (che pensa).
Perché solo a chi è in grado di montare il visibile è dato evadere dallo stato d’assedio nel quale, confinati, si sopravvive, e sperimentare, infinite volte, infinite esistenze. Il montaggio selvaggio è l’innocenza del divenire.