Blake Edwards: la sostenibile leggerezza del narrare.
Colazione da Tiffany di Blake Edwards 1961
di Vittorio Giacci
Ho sentito la necessità di dare naturalezza e freschezza a quel soggetto.
Blake Edwards
Gemma tra le più preziose nel firmamento della commedia hollywoodiana, Colazione da Tiffany è opera immersa nella perennità di uno sguardo inequivocabilmente oltre perché intriso di quel raro e pregevole valore che Calvino, oltre vent’anni dopo, avrebbe definito, nelle sue Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, con il termine di leggerezza, volendo intendere un elemento di narrazione da contrapporre alla pesantezza della realtà.
Blake Edwards, “vero regista che sa vedere e capire il cinema e sa trasmettere con esso quelle emozioni che vanno oltre il tema prescelto implicandoci in un mistero che è la nostra stessa partecipazione al cinema”, come fa notare Giuseppe Turroni (1), con la collaborazione alla sceneggiatura del drammaturgo George Axelrod, cui si devono anche quelle di Quando la moglie è in vacanza (Billy Wilder, 1955); Fermata d’autobus (Joshua Logan, 1956); Ciao Charlie (Vincente Minnelli, 1964), e nomination all’Oscar proprio per questo film, tratto dal romanzo omonimo di Truman Capote, attua alla perfezione, da erede di Wilder e Minnelli e da ammiratore di Leo McCarey, quel contrasto diegetico facendolo diventare l’essenza stessa dell’opera, contrassegnandola con una lievità narrativa inversamente proporzionale all’asprezza dei contenuti, mostrandoci così le proprie capacità di descrittore attento e sensibile di caratteri, ambienti e le proprie doti di ineguagliabile creatore di forme, mode, linguaggi e stili.
“Adoravo quel copione” – ha dichiarato il regista conscio delle sue potenzialità espressive – “ma ne ho amati molti che non hanno avuto successo, quindi non fui tanto sciocco da basarmi su quello per decidere se fare il film o meno. L’avrei girato comunque a costo di strisciare per tutta la Walk of Fame. Erauna grande occasione per me”. (2)
Una pervicacia che si ritrova tutta in Colazione da Tiffany, classico fino all’archetipo dove anche i comportamenti più discutibili e scabrosi sono soffusi da una grazia lieve che li irradia di un glamour da fiaba e li rende accettabili se non desiderabili, dove ogni componente, dai gesti ai luoghi, dal lessico all’abbigliamento, è già mito, non però fuga o allontanamento ma esperienza, tensione morale, emozione dell’animo che migliora l’esistenza e che, anche nel crollo, prepara a vivere un po’ meglio – tema esplicitato in 10 in una riflessione che si estende alla correlazione tra realtà e rappresentazione – nell’ idea che il cinema, come in Truffaut – che Edwards omaggia con un remake di L’uomo che amava le donne -, sia incontestabilmente più armonioso della vita.
Il film narra infatti di una giovane sirena infantile e impudica, Holly Golightly, (Audrey Hepburn), una ragazza di umili origini cui “la vita faceva paura” come la definisce Edoardo Bruno (3), segnata da legami familiari complicati (un marito molto più vecchio di lei sposato in giovanissima età; un rapporto patologico con il fratello), fragilissima nella sua ansia sfacciata di affrancamento sociale e preda di bruschi sbalzi d’umore (le “paturnie”), approdata dalla periferia per scalare la Jet Society di una metropoli come New York dove, all’alba, ama recarsi sulla Quinta Strada per far colazione davanti alle scintillanti vetrine della gioielleria Tiffany.
Per raggiungere l’obiettivo di “sistemarsi”, sposando uno dei più ricchi uomini d’America, credendo in tal modo di vincere una volta per tutte le difficoltà della vita e porre fine al suo disadattamento, Holly conduce una esistenza sregolata tra feste caotiche con “gente sconosciuta”, party affollati da ospiti imprevedibili e frequentazioni occasionali, sbarcando il lunario con la richiesta agli uomini con i quali esce a cena (e che chiama “vermi” o “supervermi”) di un rimborso per la mancia alle inservienti delle toilettes econincontri settimanali retribuiti con Sally Tomato (Alan Reed), un mafioso recluso a Sing Sing al quale consegna messaggi contenenti previsioni del tempo che lei ritiene innocenti bollettini metereologici da recapitare a un avvocato ma che sono invece codici cifrati per un traffico di stupefacenti.
Nel suo inquieto errare Holly incontra casualmente Paul Varjak (George Peppard), uno scrittore che ha esaurito la propria ispirazione che abita nel medesimo caseggiato e che si appoggia per sopravvivere a Liz (Patricia Neal), una affermata e benestante arredatrice più anziana di lui.
Inizialmente nato come rapporto amicale tra coinquilini (lo chiama Fred, con il nome del fratello al quale secondo lei assomiglia), sarà però, dopo le delusioni per due possibili matrimoni svaniti (quello con un miliardario brasiliano, José da Silva Pereira (José Luis de Villalonga), alla vigilia del suo viaggio in Sud America proprio per sposarsi con lui, naufragato dopo la notizia del suo arresto per il suo pur se inconsapevole collegamento con il giro della droga), che Holly e Paul, in seguito a un ultimo diverbio chiarificatore, riusciranno finalmente a riscattarsi dai loro comportamenti e, tornato lui a scrivere dopo aver troncato la relazione con Liz e lei a prendere coscienza di non considerarsi più “un essere ribelle” o “un animale selvaggio” che non appartiene a nessuno, a dichiararsi il loro amore e a “rischiare” una vita in comune.
Tutto è leggero, nel film, mentre tutto è pesante nel romanzo, a partire dalla protagonista, un’icona dell’eleganza senza tempo e dal fascino naturale come Audrey Hepburn, immagine di leggerezza innocente al posto della più procace e sensuale Marilyn Monroe, come avrebbe voluto Capote.
Nel libro in effetti i personaggi sono una call-girl o, come la chiama lo stesso scrittore, una “autentica geisha americana” (oggi la si definirebbe, senza mezzi termini, una escort)di cui non si esime dall’alludere alla sua bisessualità e a farla rimanere incinta e perdere il bambino per una caduta da cavallo e poi di porle accanto uno scrittore fallito e mantenuto da una partner altolocata che lo tratta come un gigolò.
Se si considera che negli anni Sessanta – periodo in cui è ambientata la pellicola – questi fenomeni erano decisamente più diffusi rispetto agli anni Quaranta in cui è collocato il romanzo, le modifiche al testo letterario evidenziano la netta volontà di stemperare situazioni e psicologie da parte del regista e del suo sceneggiatore.
Nel libro era prevista inoltre la figura di un narratore che raccontava i fatti retroattivamentementre nel film lo svolgimento espositivo è lineare; non esisteva il personaggio di Liz e non si contemplava nessun lieto fine poiché la ragazza, nonostante fosse stata ripudiata alla vigilia delle nozze per ragioni di rispettabilità sociale, decideva di attraversare ugualmente l’oceano per trovare miglior fortuna nella propria ricerca di un nuovo pretendente tra i tanti possidenti di quel Paese disposto a un matrimonio d’interesse con lei.
Nell’adattamento cinematografico Blake Edwards non mantiene né la spigolosità dei caratteri né il finale pessimistico del romanzo ma, nel rispetto di un codice da commedia consolidato ma qui non formale perché coerente con il senso stesso dell’opera, affida ai toni favolistici di un Happy End tenero e dolcemente malinconico come le note di Moon River, lo struggente brano musicale di Henry Mancini e Johnny Mercer che accompagna le immagini ed è cantato anche da Holly, le cui parole chiamano direttamente in causa la sua persona e la sua esistenza border line(4), il compito di superare il racconto del troppo tempo sprecato dalla protagonista nell’inautentico per farlo rientrare nell’autenticità di un canone diegetico-iconico al tempo stesso tenue e profondo.
E così, se il libro di Capote poteva far pensare a un rigido inverno dei sentimenti, il film di Edwards profuma di una fresca, ariosa primavera.
Il personaggio di Holly, le cui sorti sembrano susseguirsi sempre asincronicamente, o poco prima o poco dopo il maturare degli eventi, nella visione libera da intendimenti pregiudizialmente moralistici del regista, riuscirà per la prima volta a sintonizzarsi con una dimensione affettiva, pura, limpida, concreta.
E ciò avviene nella trasfigurante simbologia della sequenza finale, quando Holly, dopo aver abbandonato il proprio gatto senza nome (“io e il mio gatto siamo randagi senza nome”aveva gridato a Paul) e dopo che l’uomo le ha restituito un anellino di nessun conto trovato come sorpresa in un pacchetto di noccioline che di Tiffany porta solo l’incisione eseguita in una giornata di svago e di gioco fatto di “cose mai fatte prima” e, significativamente, di mascheramenti e disvelamenti, scende dal taxi che la stava portando all’aeroporto, ritorna sui suoi passi e sulle sue decisioni e, in una piccola via zeppa di scatoloni vuoti e di bidoni di spazzatura, a pochi isolati di distanza ma lontano anni-luce dagli sfarzosi luccichi della Fifth Avenue, recupera il gatto smarrito, ritrova l’amore in un bacio tante volte rinviato per paura di “finire in una gabbia” ma soprattutto ritrova se stessa, sotto una pioggia battente che sa di lavacro purificatore.
Nel cinema di Edwards la psicologia dei protagonisti non si esprime esclusivamente attraverso i loro comportamenti ma grazie anche alle esternazioni di specifici enunciatori, “ripetitori ingenui” designati a riportare in via traslata sia le loro motivazioni che le intenzioni non confessate in via diretta (“appelli interni” li definisce Christian Metz) da quell’ ”enunciatore impersonale” che è sempre l’autore del film.
Tale ruolo è qui assegnato a Doc Golighlty (Buddy Elsen), il marito di Holly sopraggiunto in città nel tentativo senza speranza di riportarla a casa, figura dolente di un uomo privo di colpa che non risponde alla tipologia tradizionale del coniuge per convenienza il quale, pur non comprendendo l’indole e le ragioni di Holly ma rispettandone civilmente le scelte, illumina in maniera toccante sull’ esigenza di autonomia e indipendenza della giovane donna.
E ancor più al commesso signorile, impeccabile e pazientemente imperturbabile di Tiffany (John Irwin McGiver) nell’irresistibile sequenza in cui, alla richiesta non di comprare un monile di pregio ma semplicemente di far incidere delle iniziali su un anellino di nessun valore come segno d’amore romantico, esclama: “mettono ancora le sorprese nei pacchetti di noccioline? E’ una cosa che dà un senso di fiducia, direi di continuità tra il passato e il presente”. Un’osservazione indubbiamente poco probabile in una trattativa commerciale ma appropriata per i proponimenti del film.
Per descrivere la fattispecie della leggerezza Calvino era ricorso al mito di Medusa a rappresentare la realtà pietrificata che Perseo riesce a evitare guardandola non in volto ma nello “specchio” del proprio scudo, indicando così che compito di ogni narrazione non è quello di volgere lo sguardo direttamente sul Reale, a rischio di restarne pietrificati, bensì obliquo, indiretto, e non per evitarlo ma per meglio penetrarlo, con il soccorso del distacco, della riflessione, dell’immaginazione.
Una metafora sicuramente valida non solo per la letteratura ma anche per il cinema, occhio ineludibilmente soggettivo, dunque inevitabilmente mediato, grazie al quale lo spettatore, da moderno Perseo, può difendersi dalla rappresentazione di una realtà anchilosata nel riflesso di uno schermo che gli fa da scudo interpretativo salvandolo dalla paralisi del senso e del pensiero acritico.
Quella del discorso indiretto è una misteriosa ma tangibile relazione che si tramanda e trasferisce da Shakespeare a Lubitsch, coinvolgendo tanto i letterati che i cineasti, gli autori e gli spettatori, come osservato dallo stesso Calvino proprio nelle Lezioni americane: “chi è ciascuno di noi se non una combinazione di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. (5)
Prendendo alla lettera tale considerazione e accostando la creatività poetica di Edwards alla sistematicità concettuale di Calvino non sarà difficile intravedere gli elementi delle sue sei Lezioni americane nelle opere del regista, oltre a Colazione da Tiffany per la leggerezza, come, ad es., nella serie de La pantera rosa la rapidità; in 10 la visibilità; in Victor/Victoria la molteplicità;per non dire di Hollywood Party o Intrigo a Hollywood per la puntigliosa esattezza con cui descrive la società dello spettacolo e l’industria cinematografica, o la costante ibridazione tra slapstick e sophisticated comedy per la coerenza.
E’ una vicinanza tra le arti che si ritrova perfino nella prefazione di Audrey Hepburn alla pubblicazione per il 150° anniversario della celebre gioielleria che suona anch’essa, in questo film dove tutto parla anche di cinema, fenomeno di inesauribile bellezza e di insostituibile importanza, come una sua ulteriore e inedita metafora.
“Cara Tiffany” – scrive l’attrice – “una cosa bella è per sempre. Per questo il lustro dell’arte di Tiffany resta intonso da 150 anni, il vostro nome è simbolo di bellezza, stile, qualità e costanza. I vostri gioielli hanno dato luce ai nostri volti, le vostre lampade illuminato le nostre case, il vostro argento fatto brillare le nostre tavole, donato raffinatezza alle nostre vite. Sicuramente l’avete donata alla mia, invitandomi a colazione. Quanti possono affermare di aver consumato caffè e croissant da Tiffany? E’ un ricordo che custodirò per sempre. Buon compleanno, cara Tiffany. con affetto, ma anche con invidia, perché dopo 150 anni non hai nemmeno una ruga, del resto la classe non invecchia!La tua amica devota Audrey Hepburn” (6)
Nel suo elogio della leggerezza Calvino citava espressamente il romanzo di Milan Kundera uscito in quello stesso anno per il quale la leggerezza dell’essere era insostenibile a contatto con la pesantezza del vivere.
E’ sicuramente così. Ma nel ri-vedere colazione da Tiffany ci si accorge, oggi ancor più che allora, che solo la “sostenibile” leggerezza del narrare ci può salvare, soprattutto in questo Millennio dove lo scontro sarà proprio tra queste due opposte tensioni. Come ci hanno mirabilmente chiarito sia Italo Calvino con la letteratura, in quanto specchio indiretto per meglio penetrare i grovigli della realtà, che Blake Edwards con il suo film raffinato e intenso a scoprire quanto un’attenzione gentile può dire più di una vibrata denuncia ed il cui “senso in più” è immediatamente svelato nel paradosso elegante del suo titolo e della sua sequenza d’inizio.
Da Tiffany, la gioielleria più famosa al mondo, non ci si reca certo per consumare una colazione ma per acquistare un oggetto di pregio, eppure Holly ci va per assaporare caffè e croissant davanti alla vetrina guardando incantata e fantasticando dentro quel negozio che è per lei sogno, voluttà, desiderio.
Ma poi la realtà si riprende il proprio ruolo è dopo tanto disagio emotivo, il film, scudo schermico agli inganni di Medusa, suggerisce che la vita vera stava, anche per Holly, da tutt’altra parte e a portata di mano, in un vicolo sferzato dalla pioggia, abbracciata a un gatto perduto e ritrovato tutto inzuppato d’acqua piovana mentre un uomo, questa volta probabilmente quello giusto, senza raggiri, secondi fini o vane ricchezze, le sta offrendo un’ipotesi di felicità contenuta in una fede di nessun valore se non quello, che non ha prezzo per chi finora ha vissuto nella falsità, della sincerità.
E, nel magico riflesso dell’immagine significante, la luce negli occhi di Holly brilla più di un diamante, fosse anche acquistato da Tiffany.
- Giuseppe Turroni, “Filmcritica”, n. 110, luglio-agosto 1969.
- Blake Edwards, intervista, in: “contenuti speciali, DVD Anniversary Edition, Paramount, 2006.
- Edoardo Bruno, “Filmcritica”, n.118, febbraio 1962.
- Moon River/più largo di un miglio/ti attraverserò come si deve/un giorno/vecchio creatore di sogni/tu che infrangi i cuori/ovunque tu stia andando/ti seguirò/due errabondi/alla scoperta del mondo/c’è così tanto mondo/da vedere/ricerchiamo la stessa felicità/aspettando dietro l’ansa del fiume/il mio amico per la pelle/Moon River/e me”.”
- Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano, 1988.
- Audrey Hepburn, Lettera a Tiffany, in: DVD, cit.