Bidimensionalità non binaria alla BERLINALE 74
di Edoardo Mariani
Palinsesto, proiezione della luce sulle nuvole, bianco e buio.
Io vedo, tu vedi, noi vediamo.
Ogni schermo, una nuova nascita.
Ogni film, un nuovo viaggio,
verso lontano, verso molteplici altrove
di tempo e di mondo.
Sensazionalistica esperienza, questa del cinema.
Una passione che arde di colori e di suoni.
La vita così come l’avevamo immaginata.
Berlino come sempre è una terra di incontri, al buio, con una sfilata di immagini ibride e rispettose, libere di essere metafora di un cinema che si pone, da un lato alla giusta distanza dalle attuali produzioni colossali legate alle piattaforme, sentendosi ancora privo della paura di non essere capiti; dall’altro, è uno spazio aperto in costante sperimentazione della posizione (politica, poetica, personale) della camera nel mondo, una trasmigrazione della ricerca caméra-stylo, rendendo contemporanei alcuni interrogativi sulle pratiche cinematografiche del passato che ancora non hanno trovato risposta.
Alla Berlinale si sente in qualche modo un allentamento generale del cinema dal concetto di genere. I film vivono di una loro propria unicità, e non sono inseriti e separati in una serie di categorie specifiche, ma in un ordine semi-sparso, voluto negli anni dalla divisione in sezioni aperte con la quale il festival presenta il catalogo ogni anno. Certo, all’interno del concorso si possono incontrare film o episodi pilota di serie televisive che avremmo potuto ritrovare anche nel palinsesto degli altri grandi festival internazionali europei…Ma questa è un’altra storia (del [mio] cinema?).
Qui di seguito dei pensieri sparpagliati in tre doppiette, sei film divisi in tre coppie:
- Filmaking, camera e ubiquità è un ponte tra il tempo e l’anima dei corpi nelle immagini del cinema. C’è la vita che torna in vita, nelle immagini e le intenzioni di Filmstunde_23; e l’abbattimento del concetto stesso del corpo nello spazio del contemporaneo nell’ultima camminata filmata da Tsai Ming-liang.
- Poesia in 720p è un’ode alla bassa definizione, per queste due opere filmate con mezzi personali, privati, con le telecamere digitali portatili e intime di A Traveller’s Need di Hong Sang-soo; o con le Super 8 e le pellicole impolverate e poetiche di Tu me abrasas.
- I Colossal trasmigrano è una riflessione su due costose produzioni di film che rappresentano in questo panorama cinematografico due grandi punti di domanda: nelle immagini di Shambala, fin dove e quanto lontano possono spingersi ormai gli organizzatori, i produttori esecutivi e le maestranze per girare film ad alto budget; mentre L’Empire ci ricorda cosa non dovremmo mai dimenticare quando guardiamo un “grande film” di questi tempi, ovvero, la vita vera!
Filmaking, camera e ubiquità
Filmstunde_23 di Edgar Reitz e Jörg Adolph, ci riporta a quell’idea politica, di portare il cinema delle scuole, dove tutti e tutte dovrebbero/potrebbero imparare a leggere e fare film. Ne avevano parlato anche Cesare Zavattini, Jean-Luc Godard…Ma queste proposte, di educazione all’immagine audiovisiva, materia visuale che riempie le nostre memorie e che sarà giorno dopo giorno sempre più presente e ingombrante nelle nostre vite, non sono mai state realmente accolte. Il Cinema si ritrova in un certo senso ancora ad essere quest’arte giovane che non è mai riuscita ad esserci nel momento del bisogno.
Ponendo al principio di tutto il pensiero di Béla Balázs ”finché il cinema non verrà insegnato nelle scuole, non prenderemo atto della più importante rivoluzione nell’educazione umana”, Edgar Reitz aveva girato nel 1968 un importantissimo documentario per la televisione tedesca intitolato proprio Filmstunde, ovvero L’ora di cinema. Cinquantacinque anni fa il filmaker tedesco aveva tentato il pionieristico e politico esperimento di insegnare il Cinema in una scuola elementare di Monaco di Baviera, inserendolo nel programma di una classe di 26 bambine con l’intento di provare che fare i film, il filmaking, filmstunde, è una delle esperienze migliori che poteva capitare all’essere umano e al suo istinto selvaggio, motore d’energia e di immaginazione. E chi può farlo, e filmarlo, meglio dei bambini, che non lo fanno perché stanno facendo un film, ma è direttamente il reale prolungamento della vita, rendendo istintiva e immaginaria ogni cosa sui cui si posa (anche se solo per un istante) lo sguardo, qualcosa d’altro, qualcosa diventa qualcos’altro.
Il filmaker è una posizione umana nel mondo, è l’unica anima che riesce a mettere in dialogo diverse forze, spazi e tempi, restituendole in un contenitore, che permette ai suoi fruitori di aprire e partecipare attivamente a questo viaggio nel tempo, che è il Cinema.
Filmstunde_23 è una cena di classe, cinquantacinque anni dopo, un incontro di gruppo tra il “vecchio” maestro di Cinema e le sue alunne. L’occasione perfetta per rivedere tutti questi compiti per casa, al quale Reitz non aveva dato un voto, e attraverso la memoria visuale, ritrovare i volti di quelle bambine spensierate nelle rughe di altrettante donne vissute. Ma l’esperimento nell’esperimento messo in atto in questo film sul film, è proprio quello di rivedere, per una seconda volta, insieme, le brevi pellicole girate ai tempi dalle ragazze. Farfalle, famiglie, corse solitarie e discorsi di gruppo, giorni di festa e giornate buie e di lutto. Le questioni di vita sono tutte sempre messe in gioco e in discussione in questo incontro tra persone di spazi e di tempi diversi, ed è perdendosi insieme in questo secondo incontro che possiamo risponderci alle domande più semplici che abbiamo dimenticato di porci.
Hèlas, questo film serviva all’epoca a dimostrare che il Cinema non era soltanto un’ arte ed un’industria, ma anche un gioco in cui ognuno impara qualcosa. Il film è una intensa operazione di linguaggio che permette di esprimere il mondo attraverso il proprio pensiero, attraversandolo con il proprio sguardo e facendo maturare e mescolarsi le emozioni durante l’esperienza del filmare, dove, di nuovo, “ NON SI È MAI SOLI! ” grida Edgar Reitz alla fine del discorso di ringraziamenti per la Berlinale Camera, il premio onorario alla carriera consegnatogli dall’organizzazione del Festival.
Wu Suo Zhu (Abiding Nowhere) di Tsai Ming-liang è un’operazione filmica analoga. Come già visto in diversi cortometraggi e lungometraggi (No No Sleep, Walker, Journey to the West…) il Signor Lee (l’attore Lee Kang-sheng) è nelle vesti di un monaco buddista e per tutta la durata del film ne seguiamo i percorsi, letteralmente, passo dopo passo. Come nelle altre opere della serie, in Abiding Nowhere siamo davanti ad una visione lenta che ci permette di osservare le singole inquadrature e perderci negli infiniti dettagli della vita che le riempiono. Un film sul tempo e sulla sua umana equità, seduti in sala, partecipiamo devotamente a una preghiera silenziosa, a una performance sacra e a una ricerca dell’equilibrio interiore. Su questa Terra abitano forme di vita diverse, e ciò che le differenzia maggiormente, ma che allo stesso tempo le accomuna nello stesso insieme è il ritmo con la quale queste anime attraversano, secondo dopo secondo, la luce e l’energia dello stesso sole.
Osservando la figura del monaco, non possiamo non riflettere all’importanza del cinguettio degli uccelli in contrasto con il rumore delle ruote del trolley di un turista trascinato sull’asfalto bollente. Non possiamo fare a meno di notare il colore delle finestre, o semplicemente seguire con il pensiero il suono di un aeroplano che passa sopra la testa del nostro protagonista sinestetico. Noi non siamo lì presenti, ma siamo catapultati in diversi scenari di Washington e dintorni, negli U.S.A., dove non possiamo fare altro che attendere la fine del mondo. Il monaco rappresenta la finzione all’interno di questo film inabitato dai corpi, ma riempito dalle luci che li guidano, e tutto il comparto tecnico ed estetico è l’ennesima pagina audiovisiva di un manifesto sul Docu-Meditare. Perché alla fine Tsai Ming-liang non fa altro che spostare silenziosamente il suo sguardo sui nostri tempi, e ci lascia partecipare a questa trasmigrazione del tempo nello spazio estraendoci da esso grazie alla presenza del personaggio del Signor Lee.
Poesia in 720p
Yeohaengjaui Pilyo (A Traveller’s Need) di Hong Sang-soo porta il corpo occidentale di Isabelle Huppert (come avevano già fatto in In Another Country nel 2012) in Corea del Sud, in un Hiroshima Mon Amour solitario, senza guerra e senza amore. Trasportati dal fioco soffio del vento dell’est, nel perfetto schema minimale dell’autore. Qui seguiamo le vicissitudini quotidiane di Iris (Huppert) che si è reinventata conversatrice di inglese per giovani e famiglie che tentano di perfezionare la lingua occidentale per antonomasia… Niente accade per caso, ma l’inglese è un pretesto, è una lingua senza confini (ma chi l’ha deciso?), e la metamorfosi non può avvenire in questo non luogo. Non si può non abitare il mondo, e non si può fuggire da sé stessi in eterno. Iris chiede sempre ai suoi allievi “Come ti senti ?” e mai soddisfatta del semplice “I’m happy.” Insiste “Come ti senti nel profondo? Sei fiera di te stessa?”. Le domande semplici ritornano, ma le risposte profonde no, perché forse in quest’altra lingua il viaggio interiore è più difficile da compiere. Ma passare da una domanda semplice ad una semplice domanda profonda permette al film di ricondurci sempre alla situazione ancestrale alla quale siamo, senza distinzioni di provenienza e di tempo, costretti: AVERE NOIA DI SE’ STESSI ED ESSERE SEMPRE ALLA RICERCA DI ESSERE QUALCUN’ALTRO.
Io personalmente adoro i film girati con una bassa qualità della ripresa. Circostanza estetica e politica, che permette al film di svilupparsi in una sua ospitale condizione di estrema semplicità della rappresentazione e restituisce il mondo in una sorta di “purezza filmica”. Ogni dialogo nel film tra Iris e i suoi amici/clienti/vicini coreani è un momento di incontro tra le ansie e le paure dei personaggi e terminano sempre con una bella bevuta di makgeolli, il vino di riso bianco frizzante fermentato, unico in Corea.
“Con l’animo che canta le stelle, devo amare tutte le cose che vanno verso la morte. E poi, la strada che mi è stata assegnata dovrò percorrere”, scriveva Yun Dong-Ju, un giovane e importante poeta coreano della prima metà del Novecento. Durante il film, Iris chiede ai passanti di tradurle le rime delle poesie che incontra incise su alcune targhe sparse in giro per la città, ma le persone, per paura di sbagliare, preferiscono sempre farle leggere la traduzione trovata su internet dai loro smartphones, piuttosto che tentare di tradurla sul momento, offrendo le proprie parole all’anima di una lingua straniera. Questo film è un piccolo manifesto (premiato con l’Orso d’argento) di un cinema della vita vera, dove le azioni che accadono dentro e fuori campo ci risuonano come parole nuove di un linguaggio che stiamo imparando a conoscere.
Tu me abrasas di Matias Piñero da senso alle cose descrivendole indirettamente, come in un lungo testo poetico in prosa visiva, da un altra prospettiva. I Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese fanno da testo a questo film da leggere. Una voce fuori campo ripete, come per accentuare l’importanza di certe assonanze, alcune parole che attivano una libera associazione d’immagini che le accompagnano e le completano, le traspongono in metafore visuali. Il lavoro è molto semplice: piccoli accenni letterari (oltre a Pavese anche Saffo, Natalia Ginzburg, Shakespeare) si mescolano al racconto visuale di un gruppo di giovani che incarnano le storie di Edipo, Tiresia, Saffo e Britomarti e che ne rappresentano i dialoghi parlandosi nell’immobilità dell’epica à la maniere de Danièle Huillet e Jean Marie Straub. Le chat di Whatsapp negli smartphones dei ragazzi sono la carta bianca sulla quale incidere lettere d’amore, sentimenti fumosi che viaggiano nell’etere tra messaggi di testo e audio, e dove non si riconosce il limite tra desiderio e contemporaneità. Un film-rebus, montaggio di sentimenti e senso, dove Saffo: “desidero e dopo cerco” e Pavese: “perdono tutti e a tutti chiedo perdono”, scrissero d’amore e morirono di parole.
I Colossal trasmigrano
Shambala di Min Bahadur Bham è un film colossal nepalese. Le immagini di questo film raggiungono destinazioni inedite alla narrazione cinematografica, e la vicinanza dell’autore alla cultura del suo paese ci permette di annusare da molto vicino i sapori e i dettagli che lo contraddistinguono dal resto del mondo. Shambala significa “terra nascosta”, e durante tutto il percorso del film, seguiamo il viaggio di Pema, una giovane donna rimasta incinta e poi vittima di alcuni pettegolezzi sul suo presunto adulterio. La sicurezza con la quale la camera esplora il quotidiano di questa avventura interiore proviene dalla precisione con la quale Min Bahadur Bham, antropologo prima che cineasta, ha studiato e rimesso in scena la vita delle comunità dell’Himalaya. Shambala ci invita ad accompagnare la protagonista, nel bene e nel male, in questa nuova rinascita, quando il titolo appare sullo schermo anamorfico, conosciamo la destinazione ma non le difficoltà del percorso.
È interessante sapere che questo film è stato inizialmente sviluppato all’interno del programma del Torino Film Lab, nel quale l’autore aveva cominciato a lavorare già nel 2019. In che direzione stanno andando le “grandi storie” se non verso queste stelle rimaste nascoste, e magari fino ad oggi raccontate solamente nell’ottica del documentario antropologico. Cosa accadrebbe se l’immedesimazione dello spettatore smettesse di essere accentrata e guidata verso i valori occidentali e si ridistribuisse in una forma unitaria e umana, dove culture, lingue e linguaggi cominciano ad entrare in relazione?
Il funerale e il matrimonio all’aria aperta, la catena montuosa dell’Himalaya come set naturale e un soggetto umanista e spirituale fanno sembrare la camera una sorta di angelo meccanico che osserva e riporta un mondo magico in estrema libertà e ubiquità. Siamo tra le acque di un piccolo torrente ghiacciato, sfioriamo le vette delle montagne e entriamo dalla porta principale nelle case degli abitanti di questo villaggio di sherpa e bambini che sognano di guidare gli aeroplani. Camera-destino, sfidiamo il freddo e l’ira degli dei, impariamo a vivere la visione di un film eco-centrico, dove storie, culture e ecosistemi si preservano nel pensiero di un mondo interconnesso e innamorato di tutte le sue cose.
L’Empire di Bruno Dumont ha chiuso con il passato: Il film a grosso budget (vulgo: filmone) NON ESISTE PIÙ!
Le strade del Cinema sono infinite e il Cinema non ha limiti di esistere nei volti che abitano questa Terra. E allora Jony, il pescatore, capito chi? Il figlio della signora in fondo al viale, quella della casa all’angolo, lui è il cavaliere nero, e Rudy, il bulletto delle Scuole Medie, è il bastardo agli ordini della principessa dell’impero oscuro. Io ho visto umani che voi spettatori non potete neanche immaginare. I personaggi sostituiscono le cose, sono metafore, e Dumont è il maestro del collasso dell’umanità nella scrittura dei suoi “poveri Cristi” e dei loro castelli di carte.
Una grossa produzione proviene sempre da una piccola idea che poi viene resa grande, e allora perché non lasciare che la piccola idea resti piccola, intima e familiare e che la guerra intergalattica si faccia tra la Reggia di Caserta e i laser della Sainte-Chapelle di Parigi. Come turisti senz’anima siamo spettatori casuali di un racconto immaginario e di grande fantascienza, raccontato e incarnato da una troupe teatrale di attori non professionisti e impreparati del luogo, nel quale non possiamo che ridere. Sappiamo cosa ci stiamo perdendo, e ci piace, per una volta, prendere sul serio la derisione di un cinema (quello dei blockbusters hollywoodiani) divenuto il prodotto di idee-algoritmi e di iperspazi in computer grafica. Con L’Empire siamo seduti tranquilli in quell’androne semi-serio dove accadono le magie più sincere, dove seguiamo un’allucinazione collettiva di un piccolo paesino di pescatori del Nord della Francia che guidati dalla messa in scena naturalistica di Bruno Dumont (che proviene e che racconta da sempre le regioni dell’Alta Francia), con la quale ha riportato l’Orso d’argento, ex-aequo con Hong Sang-soo, altro autore che mette davanti alla platea degli spettatori un mondo veridico e limitrofo, dove ci sentiamo in un certo senso a casa, mentre partecipiamo ad un nuovo viaggio verso l’ignoto.
