Berlinale 74: Tsai Ming-liang, Hong Sang-soo
Camminando da oriente a occidente.
di Francesco Scognamiglio
Abiding Nowhere di Tsai Ming-liang
Un nuovo capitolo del giro del mondo del monaco tibetano che l’attore Lee Kang-sheng dal 2012 interpreta per il progetto in divenire del regista Taiwanese noto per l’estremo sentimento slow che provoca negli spettatori. Ecco forse è proprio attraverso questa serie di film, che vede il monaco concentrato nel poggiare con tutta calma un piede dopo l’altro in giro per il pianeta, che le visioni di Tsai Ming-liang si esprimono al meglio mettendo in discussione i limiti tra cinema e video.
Il capitalismo dilagante fa scomparire nella folla l’intrepido piccolo atto del monaco che invece sullo schermo vive distinguendosi dal resto in tutta la sua grandezza. Non c’è spazio che il monaco non possa attraversare e non c’è luogo in cui si possa fermare per riposarsi. Dall’oriente all’occidente tutto tende a sembrare un continuo attraversamento. Solo il monaco prova a conservare tutto ciò che solitamente viene rilasciato a livello energetico durante un passaggio tra una meta e un’altra, tra un dovere e un piacere.
Un lungo viaggio iniziato per il National Theater di Taiwan con il progetto No Form, e che ha sempre conservato un aperto dialogo con i musei e con la sua vera natura installativa.
Abbiamo seguito il corpo muoversi da oriente con Walker e No No Sleep, in Europa con lavori come Journey to the west in cui il respiro si fonde al cammino. Fino a giungere ad addentrarci, con Sand, nei punti remoti di congiunzione tra terra e mare in cui le acque dell’oceano viaggiano nel flusso come le persone.
Questa volta siamo nell’estremo occidente degli Stati Uniti. Tra Washington Dc e il Kansas, il passo del monaco immobilizza il nostro sguardo nonostante le numerose distrazioni visive che offrono le metropoli contemporanee. Questo marasma di stimoli dentro e fuori dal campo contrastano con il silenzioso atto di dedizione del performer.
Il regista mette insieme le sue stelle trovando gli spunti per numerose costellazioni. Guardando all’intero corpus dei suoi film è visibile un certo sistema complesso che si è venuto a creare partendo da alcuni elementi specifici come: il dolore, i massaggi, il sesso, l’acqua…
Il bizzarro tende al semplice nelle ultime opere come l’atto di guardare la pioggia cadere in Days. L’essenzialità di un pasto, di una camminata e di una testa calva sono i pochi elementi di Abiding Nowhere in cui concentrare il non pensiero. È un singolo passo da fare con coraggio, pazienza e concentrazione. Lo Shuni mudra è per l’appunto la posizione delle mani che ha assunto il camminatore per sigillare tutto questo. Sono le posizioni Zen ritrovate anche nelle statue antiche del museo nazionale di Taiwan che Tsai decide di riprendere. La chiave necessaria per oltrepassare il cinema è il controllo. Dietro lo schermo ci sono infinite possibilità per chi riesce a guardare.
Il contenuto monotematico diventa monolitico, un blocco unico che contiene tutto nella sua compattezza. Passando prima per una sensazione di passiva lentezza indotta che il film propone in sala, gli spettatori iniziano ad immergersi nei propri pensieri. A tratti concentrati nei dettagli superflui sullo schermo e a tratti abbandonati ai loro più profondi sogni, pochi si allineano al film mentre continua fino alla sua non soddisfacente conclusione. La trascendenza che sprigiona il monaco non corrisponde a quella del film ma infondo che cosa succede se rimaniamo a guardare ancora?
Per questa domanda sembra che Tsai trovi in ogni sua sperimentazione una risposta sempre più completa.
Abiding Nowhere lentamente ci trasporta verso un pigro stato meditativo in cui non possiamo fare a meno di pensare ad un impotenza e a tratti indifferenza che proviamo nelle pratiche sottrattive dell’arte e della vita.
Le nostre passeggiate possono solo assomigliare a quelle del ragazzo, altro elemento del film che si alterna al percorso più impegnato del monaco. E il ragazzo si guarda in torno, esplora, nel silenzio si prepara un lauto pasto che consuma senza distrazioni. Sulla maglietta ha stampato la frase “It’s time to chill”. È questa forse l’eterna differenza tra noi tutti e il monaco.
È lunga la strada per chi ama contemplare i luoghi del cinema. I turisti della meditazione sono lontani dal non aver bisogno di nulla. La totale immersione e dedizione del monaco non ha mezzi termini e infatti corrisponde ad una visione integrale e dolorosa. È sfiancante stargli dietro ma questo è il cinema di resistenza. La ricerca del Buddha interiore non è una ricerca facile quando tutto ci ha insegnato ad essere affamati di velocità. In una stazione metropolitana il monaco passa inosservato. I pochi che lo notano sono disposti a fermarsi solo per il tempo di scattare una foto. Tutto scorre come il fiume, e come una pietra devia il corso dell’acqua, Tsai ci aiuta ad abbandonare il festival e il cinema per farci sentire un corpo e ciò che gravita attorno ad esso.
Dopo la resistenza, i nostri pensieri si uniscono agli spazi che abitano questo film. Abbiamo viaggiato a lungo nonostante la lentezza del passo.
A Traveler’s Needs, Hong Sang-soo
Terzo film in cui il regista sudcoreano, Hong Sang-soo, compone la sua opera in compagnia dell’attrice francese Isabelle Huppert, protagonista e forza attrattiva di ambiguità e situazionismo. Una sinfonia dalla narrativa inizialmente misteriosa, colma di spunti sempre molto divertenti nei continui rapporti difettosi tra i personaggi, ma che infine ricorda molto la piacevole sensazione di aver capito tutto del mondo grazie alla musicalità di una poesia che ci viene letta in una lingua che non conosciamo ancora.
In In Another Country del 2012, la fantasia di una donna annoiata durante le vacanze estive ci trasportava nell’immaginario variabile del racconto che stava scrivendo e modificando di continuo. Il personaggio interpretato da Isabelle per motivi diversi ogni volta si ritrovava nella stessa località di mare della Corea del sud in cui era destinata ad incontrare i vari eccentrici personaggi del luogo con cui si divertiva a confrontarsi.
In La Caméra de Claire del 2017 invece, Isabelle interpretava Claire, un’insegnante appassionata di fotografia. Durante il festival del cinema di Cannes, Claire, in viaggio di piacere, finisce per caso a fare la conoscenza di diversi sudcoreani connessi infine tra loro dal lavoro e dall’amore.
Come la scia di un aereo nel cielo, l’incantevole personaggio straniero si distingue attirando a sé la curiosità dei personaggi che incontra. Mette in discussione la loro gentilezza, muove richieste singolari e imbarazzanti e infierisce proprio su questo imbarazzo accogliendo spesso i momenti di silenzio che questi stereotipati personaggi coreani invece sono soliti evitare.
Anche in questo ultimo film, A Traveler’s Needs, presentato alla 74ª mostra internazionale del cinema di Berlino, la protagonista francese è un’insegnante di mezz’età ma questa volta si chiama Iris. La vediamo girovagare tra le case di alcune famiglie borghesi di Seoul.
Sorseggiando il tipico makgeolli (un vino al riso) nelle soleggiate giornate estive, la folle straniera fa di tutto per scovare all’interno della psiche dei suoi studenti di francese qualcosa di intimo e privato regalandogli fugaci momenti estranei alla loro quotidianità.
Quando torna a casa la scopriamo vivere provvisoriamente in un appartamento di un uomo molto più giovane di lei, probabilmente attirato da una figura più matura con cui interagire. Dice di averla trovata in un parco senza soldi e senza meta così le ha dato ospitalità e poi le ha consigliato di insegnare francese. Un personaggio bipolare che conserva un’apparente capacità camaleontica grazie alla quale camuffa il suo vero essere nervosamente avverso al forte senso di ospitalità che comunemente posseggono gli adulti asiatici.
I coreani che incontriamo hanno molta difficoltà ad interagire senza usare certi convenevoli sociali fondati su superficiali apparenti obblighi. Testimoni sono le frasi nobili che spendono nei confronti dei loro padri defunti simbolo del rispetto che provano per gli insegnamenti che hanno ricevuto e che applicano in maniera passiva ogni giorno della loro vita. Le loro azioni mancano di spirito. Sembrano adoperare poca concentrazione in quello che esortano e mentre leggono le poesie che ammirano il significato sfugge dai loro pensieri. Iris li smuove da dentro, li sorprende con tantissimi trucchi psicologici. Li abitua alla musicalità del mondo che hanno dimenticato come ascoltare. La donna francese però non è il modello perfetto di ogni suo insegnamento. Il suo sembra un comportamento quasi finto e a tratti un po’ masochistico. Sembrano tutti far parte di un suo grande esperimento. Quando i suoi studenti imbarazzati le propongono di suonargli qualcosa lei accetta ma dopo qualche secondo si allontana dalla musica per fumare una sigaretta in balcone. Ma forse questo è proprio il suo modo di affrontare il disagio che deriva dal confronto con una cultura diversa o forse è semplicemente triste per non essere capace a suonargli nulla. Le note in francese che ha scritto per i suoi studenti affinché potessero esercitarsi nella lettura potrebbero essere riferite a lei stessa: all’insoddisfazione che prova nel non essere perfetta, al suo rapporto complesso con il padre. Tutti fanno fatica a trovare un’estasi non verbale e infondo l’insegnante di francese senza gli altri non è nessuno.
Viene trovata dal giovane proprietario di casa nel parco da sola. Sta provando a suonare un flauto ma non riesce. Iris è entrata e uscita nella vita di molte persone, ha camminato a lungo per non sentirsi abbandonata. Ora su una roccia trova finalmente la pace in compagnia di chi ha accettato la sua singolarità.
Un personaggio complesso che nasce da un lavoro unico che solo Hong riesce a fare con i suoi attori. Accoglie la vera natura comportamentale a cui sembrano essere inclini e la lavora rapportandosi con il racconto. La costruzione delle trame sembra dilatarsi oltre i limiti della finzione. Il regista lascia spazio al caso per sviluppare le sovrastrutture dei meravigliosi e realistici dialoghi. Caso che diventa destino in cui si diramano tutti gli eventi dei suoi film rendendoli sempre più ricchi di umanità. Ci abbandoniamo così al loro scorrere e ripensiamo a questi viaggi come a un percorso unico a cui tutti i personaggi sono stati fedelmente legati sin dall’inizio.