Berlinale 74: Assayas, Gitai, Kossakovsky
Housing
di Marco Allegrezza
Una fondamentale esigenza dell’essere umano, inteso come animale sociale e politico, è quella di abitare. Dal più remoto passato, questo fatto è più che mai, nell’oggi, vero. Si potrebbe aggiungere, in sicurezza, una conditio che giorno dopo giorno diviene sempre meno scontata.
Investite casualmente da logiche al di fuori di esse, le persone e le loro sacre e sante vite vengono colpite, abbattute e annullate. Dove? Dalla Palestina a tutte le parti del mondo, ovunque si sfoghi la feroce smania del potere, una passerella di terrore dalle conseguenze fatali e nefaste. Continenti, stati, regioni, città, case e stanze. La guerra è prerogativa dell’uomo (e non della donna!), e questo la Storia ce lo garantisce amaramente. La salvezza, se esiste, risiede nell’arte di immaginare? Solo quando è possibile. Sfioro questi pensieri sparsi, in una Berlino – che per natura storica si è trovata ad essere teatro di guerra, per poi tornare ad esse teatro di vita – della temperatura rigida, ma dal calore inteso. Calore relegato di nuovo alla possibilità di raffigurare mentalmente, fantasticare, chiudere gli occhi in sala e sognare.
Alla 74ª edizione della Berlinale, alcune opere esprimono e raccontano attraverso persone e personaggi in scena il concetto di alloggiare, vivere e abitare (ognuno in un modo contrastante o diverso dall’altro) un “complesso di ambienti riuniti in un organismo architettonico rispondente alle esigenze particolari dei suoi abitatori”[1]: casa. Attenzione però a come le costruiamo, queste case.
Come in un teatro, il palcoscenico filmico che intrappola gli e le interpreti di Hors du temps (Suspended Time) di Olivier Assayas – in concorso alla Berlinale 2024 –, questa volta è una casa di campagna, dove due fratelli sono reclusi (a causa delle restrizioni attuate nella prevenzione alla diffusione del Covid 19) con le loro attuali compagne.
Paul, regista, è il protagonista di questa rarefatta memoria filmica, interpretato dal sodale Vincent Macaigne, che incarna il doppelgänger di Assayas (per la seconda volta, già nella serie Irma Vep si trovò nei panni del suo alter ego). Un’opera di sostituzione tra Macaigne, protagonista del film, e Assays, regista del film. Il primo interpreta l’altro, accanto alla sua fidanzata Morgane (Nine D’Urso) e accompagnato da suo fratello Etienne (Micha Lescot), critico musicale, e la sua rispettiva compagna Carole (Nora Hamzawi).
I personaggi che troviamo nello schermo, sono proiezioni di realtà autobiografica del regista stesso, che in questa novella intimista e personale, portano e rimettono in scena il lockdown dell’aprile 2020 vissuto da Assayas, suo fratello e le rispettive partner. Il titolo internazionale dell’opera è Suspended Time, e tutto in questo film resta appeso, in bilico, tra la rappresentazione cinematografica e la rappresentazione della vita nella realtà della vita. Una voce fuori campo e fuori dal tempo narra, attraverso la rievocazione, frammenti familiari e ricordi relegati all’infanzia. La voce è dello stesso Assayas, e le inquadrature si appoggiano delicatamente a questo manto oratorio che pare una confessione, un flusso di pensieri privati, morbidi e nostalgici. Il film si apre come un libro, sfogliando le prime pagine pare chiaro che ci troviamo davanti e dentro a un diario personale dal quale possiamo sbirciare spiragli di una storia privata; una casa immersa tra le fioriture primaverili, floridi boschi accesi di verde, un vicinato da scoprire e due fratelli alle prese col delicato mestiere del vivere. Esistere, nella semplicità di un eden nella Francia bucolica. Confrontarsi e scontrarsi nell’esistenza da solisti, e con gli altri, in coppia, doppia in questo caso. Ancora più complesso e delicato, è l’intreccio, quando dal monologo, con un raddoppio, si passa al dialogo; parole e situazioni che incarnano in un tempo limbico e in un luogo metafisico le difficoltà di un’apparente semplicità: la vita condivisa, in famiglia e in amore. Relazionarsi, profondamente, da soli e con gli altri, in Hors du temps, è il vero viaggio dell’eroe e degli eroi.
L’opera bisbiglia la presenza assordante di un vuoto con cui fare i conti, una voragine impersonificata dall’assenza. La casa di campagna, dove per questi personaggi il tempo (sospeso) scorre, si fa carico di questo spettro. L’abitazione è una presenza nevralgica e allo stesso tempo fiacca, abbandonata al passato e quasi inglobata dall’ancestralità di un fuori campo vegetale che quasi la sovrasta. Forse è la faccia della medesima medaglia: la gentile e aggraziata infanzia dei due fratelli. Purtroppo “il tempo emigra”, si giunge all’età di mezzo, in pieno confinamento forzato e alle prese con una convivenza goffa e teneramente conflittuale tra fratelli. Il registro polimorfo segue toni ironici alternati dalle solenni presenze statiche e monumentali degli oggetti della casa di famiglia, epitaffi immobili, totem di memorie private, attraversati dagli spiriti antenati, tutti contenuti in questa scatola ermetica di campagna. Così, tra volée su campi da tennis, citazioni letterarie e musicali, sedute psicanalitiche a distanza ma nel verde e pentolini che non si scrostano, le esistenze di questi players alla The Sims galleggiano e fluttuano in un tempo indefinito e indefinibile, sospesi nell’etere di una Golconda francese dipinta da Magritte.
Se i personaggi di Hors du temps, fronteggiano l’idea della morte con la vita – sia blandamente mondana che profondamente impegnata nelle complesse districazioni esistenziali, intime e relazionali – Amos Gitai, sposta il baricentro dall’individuo al collettivo, dove la vita, ripetitiva e monocromatica, sembra predire una grigia fine imminente, non per il solo singolo, ma per l’intera società. Gitai con Shikun, presentato nella sezione Berlinale Special, utilizza come pretesto lo spazio abitativo (o meglio ultra-condominiale) come parafrasi e metafora dell’intera società israeliana; passando ancora una volta per l’architettura, arriva alla sociologia. Shikun è una parola ebraica che si può tradurre in “casa popolare”, nonostante questo termine derivi dal verbo «riparare», ciò che rappresenta è il modello caratteristico dell’urbanistica popolare, il maxi polo abitativo, un gigantesco edificio multiuso che condensa in sé numerosissimi appartamenti identici l’un l’altro. In questa cornice algida e alienante, nell’edificio più lungo del Medio Oriente (oltre i duecentocinquanta metri), inizia la preoccupante sfilata teatrale di Irène Jacob, che trapassa la civiltà israeliana, mostrandone la sconcertante fatiscenza e i lembi più bui. Prendendo in prestito da Il Rinoceronte di Ionesco l’ispirazione drammaturgica, dà via a una solenne marcia funebre.
La trama è fratturata in unità (inquadrature) di ampia durata e dal forte carattere di osservazione. Incontriamo gruppi di persone e individui, diversi e simili, che interagiscono o che contrariamente si ignorano. Lo sguardo di Gitai indugia su queste micro cellule sociali così diverse tra loro. Se lo spazio che abitano in scena resta lo stesso, le situazioni che vanno verso e contro lo spettatore, sono numerose, caotiche e imprevedibili. Ci troviamo davanti ad un andirivieni incessante di situazioni sovrapposte, una passerella trafficatissima dove la macchina da presa accompagna un personaggio all’uscita dei suoi limiti, per seguire istantaneamente, senza tregua, un gruppo di affaristi edili, o degli ebrei ortodossi, o una classe di lingua ebraica per stranieri provenienti da tutto il mondo, recentemente emigrati dall’India o dall’est Europa o fuggiti dalla guerra in Ucraina e di tutte l’età. C’è un uomo anziano che rimugina sui crimini di guerra commessi, autocommiserandosi nella scusa di essere stato costretto dal dovere verso gli ordini che doveva eseguire. E poi bande di musicisti che irrompono sul solito lunghissimo corridoio, musica che si sovrappone a idiomi disparatissimi come il francese della protagonista, l’arabo, l’ebraico, lo yiddish, l’ucraino, l’inglese e ancora altre lingue. Un circo, apparentemente casuale, ma perfettamente organizzato e coordinato, assume le forme di un’impeccabile coreografia
Come formiche in un formicaio o note musicali su uno spartito, questo racconto, è scandito da longtake (uno di questi della durata di quasi trenta minuti) e stacchi su dettagli e punti di vista, rapidità e lentezza che procedono insieme e in controsenso, in una sintesi armonica che sembra impossibile da immaginare e ottenere. Il merito è forse proprio della stella polare di questo film, Irène Jacob, che fa da perno attorno alla stravaganza variegata che la circonda. Una bussola impazzita, che dovrebbe guidarci ma inevitabilmente ci allerta, di un qualcosa di grande e grosso e grigio. Di un punto di non ritorno. La vediamo performare con il corpo che funambolicamente guizza tra le altre figure attoriali di questo collage cubista – personaggi che intasano il ballatoio condominiale, unico scenario della messa inscena, del gigante di cemento –, la vediamo che ci guarda, perforante e quasi folle, dritto nell’obiettivo e dunque negli occhi di guarda, inseguendo un’iperbolica eclissi di monologhi sempre più assurdi e surreali. Ci sta dicendo che l’epidemia di Ionesco sta dilagando, e intorno a noi i rinoceronti prendono piede. Vediamo in scena diversi personaggi assumere, attraverso costumi scenici simbolici e corni che fuoriescono da copricapi, le fattezze del rinoceronte. Questo cattivo presagio così concreto, che Gitai rivolge al suo Stato, è filtrato attraverso la metafora fiabesca antitotalitaria de Il Rinoceronte, dove si diffonde lentamente un morbo che porta al totale conformismo e alla tendenza efferata del totalitarismo, trasformando gli uomini in bestie feroci non capaci per mancanza di volontà a opporsi a questo abbrutimento. Jacob, sul piano metaforico, ricopre le vesti del protagonista, Berenger, della pièce di Ionesco, opponendosi a tutti costi, in un viaggio di assoluta resistenza contro il potere tiranno e all’egemonia di uno Stato fondato sull’imperio del terrore.
Il pensiero dell’autore è ovviamente rivolto alla preoccupante situazione politica di Israele (prima di quella tragica data del 7 ottobre 2023), e alle direzioni fortemente autoritarie messe in atto dal Presidente Netanyahu e dal suo governo di estrema destra. Soprattutto riguardo al tentativo di portare la magistratura sotto il controllo del potere politico, cosa che scatenò un enorme moto di protesta da parte di moltissimi cittadini israeliani.
Il primo piano della protagonista che scade nello sgomento, tra le grida che rasentano la follia, sembra portarci davanti alla rassegnazione dello stato delle cose. Anche se è più comodo e forse meno doloroso, possiamo abbandonarci a questa malvagia metamorfosi? Ci risponde così, in un’intervista rilasciata a Donatello Fumarola per la rubrica Alias del Manifesto, l’architetto di questo film cine-teatrale: «Cosa possiamo fare? Noi scrittori, artisti visivi, pittori, teatranti, cineasti – quello che facciamo è totalmente inutile? Perché è molto probabile che non saremo in grado di affrontare poteri così feroci. Potenze feroci. È possibile che perderemo? Sì, è possibile. Purtroppo è anche probabile. Ma questo non significa molto in questo momento.»[2]
La riflessione sull’uomo o la donna, in relazione agli ambienti che vive e abita, si fa invece più pratica, dentro la materia, con il documentario in Concorso di Victor Kossakovsky: Architecton.
Questo film vuole essere un carteggio schermico, in dialogo diretto, tra l’autore stesso e l’archistar Michele De Lucchi, sul perché nella nostra civiltà abbiamo la tendenza a divorare il grande luogo che ci ospita, e che abitiamo, per edificare (spesso bruttamente) e poi distruggere, tutto, lasciando come dono al presente scorie inquinanti.
Le prime immagini che vediamo si collocano proprio alla fine della catena del pensiero appena formulato. Dall’alto un drone ritrae uno scenario catastrofico, post apocalisse modernissima: Ucraina anno zero. Possiamo riconoscere dall’esterno, dettagli di oggetti personali all’interno di stanze di abitazioni. La vita com’era, immaginandola, prima della deflagrazione di qualche ordigno. Quartieri devastati e palazzi eviscerati, divorati dall’esplosioni delle bombe. Non vola una foglia, tutto è plasticamente immobile, inerme, senza vita. Quello che doveva essere un documentario sull’architettura, ora guarda coattamente alla devastazione della guerra, con il solo pensiero rivolto a ciò che resta. E a come riuscire a rompere questo circolo vizioso senza via d’uscita, che lascerà inevitabilmente le cicatrici artificiali più profonde della storia degli esseri viventi sulla Terra?
Da questo annullamento barbarico della civiltà, le immagini scorrono verso oriente, in scenari di desolazione ancestrale. Siamo in Libano, tra le arcaiche rocce rosse dei templi di Baalbek. Qui spuntano dal suolo impressionati megaliti, luoghi che ridimensionano l’indole umana, ricordandoci con la loro imponente presenza e austerità, che noi siamo di passaggio, e se c’è qualcosa che possiamo fare prima di lasciare libera la via ad altre vite, può e deve essere per forza un qualcosa che incida nel bello. Eppure si continua questa ossessiva e nociva persecuzione del brutto, e del nocivo. Forse proprio perché il nostro passaggio è breve, che questo atteggiamento gretto, è così diffuso e implacabile. Architecton è come un’autoanalisi, sembra essere nato per interrogare Kossakovsky, l’autore, e Michele De Lucchi, il suo personaggio. Ovviamente anche tutti i terzi occhi. Come un figlio o un nipote, che chiede spiegazioni alle precedenti generazioni di quel che è successo e di come continua a succedere. La frustrazione più grande è che una risposta c’è. È lì, lo dicono chiaramente sia l’autore del film che l’archistar. Si dovrebbe costruire con responsabilità e “nutrire il pianeta, non distruggerlo”[3].
Eppure torniamo alle macerie, questa volta la causa è naturale, siamo in Turchia, dove il terremoto ha portato un’incredibile devastazione, masticando intere aree abitate. “Corsi e ricorsi storici”, una catena di montaggio che riparte per il via. Se le immagini iperrealiste di Kossakovsky ci immergono nella materia prima, prima di trasformarsi in calcestruzzo e farsi origine dei peccati architettonici e ambientali, tra ralenti sensazionalistici di frane, crolli, rocce fratturate, e un sound design di altissimo livello, che genera una sinfonia wagneriana di rimbombi e frastuoni; la riflessione vuole portarci in un solco inevitabile, l’uomo deve necessariamente ricostituire una relazione sana e intelligente con l’habitat che lo ospita. Non è un caso che sotto una pioggia incessante, l’architetto De Lucchi costruisce un cerchio di pietre nel suo giardino. Da quella circolarità perfetta, una volta uscito lui per ultimo, nessun umano dovrà più metterci piede, lasciando all’ambiente un’autogestione naturale. La natura regola i conti con la natura, in un equilibrio armonico circolare, dove ogni tassello è funzionale allo sviluppo, al mantenimento e alla ricostituzione. Come liberarci di questa abitudine maledettamente umana? Architecton sembra suggerirci di tentare di rassomigliare di più al regime naturale, cercando di inceppare questo soffocante cul de sac che ci porta a costruire per distruggere, per poi ricostruire, in cemento non a caso armato, e ancora distruggere. Pensando alla natura, quella mitica, dà sollievo immaginarci come fenici, così da poter risorgere almeno dalle ceneri, e non dal cemento.
[1] https://www.treccani.it/vocabolario/casa/
[2] https://ilmanifesto.it/amos-gitai-ripararsi-dalla-guerra
[3] https://www.artribune.com/arti-performative/cinema/2024/02/architecton-film-concorso-berlinale-74-michele-de-lucchi/