Berlinale 73
Come si affronta la morte e come si affronta la vita
di Edoardo Mariani
Alla Settantatreesima edizione del Festival di Berlino, la competizione mantiene sempre un giusto ritmo al passo con alcune delle tendenze del cinema contemporaneo, dando spazio a forme più delicate (come nel caso di Le Grand Chariot e Mal Viver) o, ad altre più drastiche e depurate (le ombre degli edifici nascondono i corpi ma non le anime che li abitano, Bai Ta Zhi Guang e Sur l’Adamant).
Ancora più libera da ogni categorizzazione restano i film della filiera Encounters, sezione del Festival nella quale non solo vengono continuamente messe in discussione le nostre naturali tentazioni e pulsioni di spettatori e spettatrici (Orlando, Ma Bioghraphie Politique), ma in alcuni casi ci viene richiesto di abbandonarci (come lo consigliava Gaston Bachelard con la rêverie) a una visione multidimensionale, espansa e sinestetica (Samsara).
“La Rêverie può approfondirsi soltanto sognando un mondo sereno. La Tranquillità è l’essere stesso sia del Mondo sia del Sognatore. […] Tale tranquillità è il legame che unisce il Mondo al Sognatore. In questa pace si stabilisce una psicologia delle maiuscole. Le parole di chi sogna divengono nomi del Mondo, acquisiscono il diritto alle maiuscole.”[1]
Le Grand Chariot di Philippe Garrel
“Non tutti hanno avuto la fortuna di avere una famiglia come la tua…”
Ma com’è vera la storia vera di questa famiglia di artisti marionettisti. Le bambole da sempre cucite e scolpite dalla nonna, raccontate e resuscitate dalle storie scritte dal padre, interpretate dalle mani e dalle voci delle due figlie e del loro fratello (Lena, Esther e Louis Garrel, ovvero tutti “figli d’arte” di Philippe Garrel, a sua volta figlio dell’attore Maurice Garrel…). Qui lo spettacolo delle marionette è la messa in scena delle vite dei marionettisti dietro ai fantocci (ma anche delle persone dietro ai personaggi del film), viste da dietro mentre guardano in avanti attraverso gli occhi intagliati e impagliati della loro arte. Vedono il futuro, le facce estasiate dei bambini, che come noi, seguono questo spettacolo d’amore senza viverne le fatiche. Poi andranno avanti con i loro occhi, i bambini, come gli adulti. Mentre le marionette vengono rinchiuse di nuovo nello scatolone, la vita vera va avanti.
“Sembravi impossessato da questa responsabilità di dimostrare la tua arte”, dice un figlio ad un padre troppo lontano. Babbo, perché ci vieni a trovare sempre in sogno. Perché non vieni quand’è giorno. Non sappiamo più quanto è giusto sentirci legati quando ci siamo amati e poi, un giorno, lasciati. Dietro alle tende dello spettacolo proseguiamo seguendo il racconto delle vite private, degli amori, delle paure, degli incubi dei personaggi, cercando sempre di ricordarne soltanto i lati migliori, un po’ come si fa quando si subisce una perdita o un trauma. “Trovo che il cinema sia estremamente interessante, perché permette di imprimere un’espressione e nello stesso tempo esprimere un’impressione: dentro ci sono entrambe le cose”[2].
Il film di Garrel è una dolce metafora che comprende tante cose, e proprio schiudendo un’inquadratura sulla sua famiglia, si scopre il nascondiglio dei suoi sentimenti. Qui dove i film sono la vita, di un uomo e della sua famiglia, dove i personaggi sono quelli principali, secondari o passanti che chiedono “sei tutto solo? Beh, anch’io”.
Mal Viver di João Canijo
Mal Viver è un’esplorazione del senso di malessere, siamo all’interno e all’esterno di un hotel in via d’estinzione dove, oltre le cinque donne che vi lavorano, ogni tanto si presenta qualche bizzarro turista ad occuparne le camere (protagonisti degli adattamenti di tre opere teatrali di Strindberg, corpo del lungometraggio Viver Mal, presentato nella sezione Encounters come capitolo integrante alla storia del Mal Viver in concorso).
Mal Viver, prima ancora di Viver Mal, è la tragica storia di tre generazioni (nonna, madre e figlia) che si scontrano sui limiti umani che l’individuo si trova ad affrontare nei rapporti di famiglia. Seguendo assiduamente i movimenti della protagonista, la mamma, Piedade (interpretata da una ermetica Anabela Moreira) passeggia e abita questi campi lunghissimi, cartoline panoramiche cupe che tornano, e dopo delle lunghe attese vengono macchinosamente interrotte da primi e primissimi piani che più che farla parlare, la escludono dal resto del contesto in cui si trova. Il fuoricampo è il luogo dove i corpi dei personaggi si esprimono, si lasciano immaginare, ma mai scoprire fino in fondo. Si entra e si esce dal campo, noi spettatori ne siamo schiavi e non possiamo che desiderare di vedere altro, anche quando altro non ci sarebbe permesso, e restiamo fermi e compatti alla giusta distanza dalle cose.
L’unico motore del film è il tempo, forza divina che spinge i personaggi a lasciarsi andare ad una sorta di attesa della fine, sensazione intrinseca che ci travolge, e ci fa sperare che in qualche modo la tristezza di Piedade possa avere realmente una fine.
“Alla fine mi guardava con gli occhi tristi, come se fosse triste perché io avevo capito che stava morendo”.
Come in tutti gli hotel che (non) si rispettano si sente sempre ciò che accade nella stanza accanto, come se si condividesse per il tempo del soggiorno la propria vita con una serie di sconosciuti pieni di problemi, ma in vacanza. Allora ci viene voglia di andare lontano, di andare a perdersi, sorvolando e toccando il confine che c’è tra la superficie e l’oblio, tra il respiro e l’oscurità, tra la vita e la morte. Raggiunti i limiti di quelle profondità il senso di incertezza diviene l’unica dea: “se ti dicessi che ti voglio bene non mi crederesti”.
Samsara di Lois Patiño
In un vortice di un intensissimo arancione comincia questa avventura cinematografica, immagine e senso, movimento e sensazione, ubiquità. Il film comincia con un mantra e continua per osservazioni, tra il mondo dei monaci buddisti (in cui ne estraiamo uno, non a caso) e il mondo di chi naviga intorno alla loro isola spirituale e arancione. La durata nel cinema di un’inquadratura sembra esprimere indirettamente il concetto del mantra: un collettivo di esseri umani è riunito davanti ad un sogno ad occhi aperti, comune esternamente ma non condiviso interiormente, e sono tutti assorti dai suoni e dalle immagini in movimento presentati dallo/sullo schermo.
“E ora che sono morto, che farò?… Come sarebbe bello avere un nuovo corpo…”
Un selfie sul telefono di un giovanissimo monaco buddista della Repubblica Popolare Democratica del Laos, il caos è ovunque, il mondo, la musica trap e i social network sono stretti e connessi anche dalle manine dei giovani asceti che seguono la via della reincarnazione. Samsara traspone, come in un primo capitolo del film, le sensazioni di un’anziana signora nell’avvicinamento all’esistenza intermediaria del trapasso e della reincarnazione, descritta nel Libro tibetano dei morti (Bardo Thodol).
La reincarnazione della vita, la mummificazione dei corpi, il cinema e la sua giovane storia, le Storie del cinema. Vengono in mente le parole di un altro libro sacro:
“L’azione, se azione c’è, non ha niente a che vedere con le trentasei situazioni drammatiche, essa è pura e libera metamorfosi, è in definitiva l’apprensione diretta, resa sensibile dall’arte, della libertà dello spirito, l’evidenza che questa libertà è durata. Lo spettacolo in quanto tale è allora la fascinazione tramite il sorgere delle forme, libere e allo stato nascente.”[3]
Con la morte dell’anziana signora, di un personaggio, di una persona, di un essere umano, si chiude un capitolo. Patiño ci invita a chiudere gli occhi e di non riaprirli fino a quando non sentiremo più niente. E ci “facciamo fuori”, ci lasciamo andare al racconto, che include questo momento di “morte collettiva”, che è meditazione, ma che è anche un accompagnarci, avvicinarci idealmente alla morte. Abbandonandoci, ci assentiamo, ognuno e ognuna per un tempo interiore, mentre lo schermo invia degli input visivi di colori e flash che corrispondono in qualche modo alle ragioni per cui non apriamo gli occhi. Forse stiamo perdendo scene, inquadrature su un nuovo mondo, ma la reincarnazione è questo.
-“Ti stiamo cercando da una settimana.”
-“Ma se io ho dormito solo un ora.”
Riaprendo gli occhi siamo in un altro universo ma ancora sul Pianeta Terra. Come ricordava la frase d’apertura di Sans Soleil, parafrasando: dopo il nero può esserci qualsiasi cosa. Qualsiasi sorriso possa scaturire dalle immagini, la vita avrà sconfitto la morte.
In questa seconda parte del film, l’Africa. In un piccolo villaggio in Tanzania (anch’esso invaso dagli smartphones, forse unica vera divinità universale e condivisa dei nostri tempi) una bambina vede nascere un agnello, che subito diventerà il suo compagno di viaggio e metafora di una rinascita, di una reincarnazione. Quelli che erano i monaci di Laos, con le loro vesti arancioni accese e con i capelli rasati, unici e univoci uno con l’altro, in questo secondo viaggio di Samsara ci troviamo in una comunità di bambini e bambine in divisa scolastica, e l’agnello è ciò che ci permette di spostarci dall’altra parte dell’emisfero. Ci avviciniamo alle cose e alle persone che vivono il loro mondo, ricordandoci che dopotutto è anche il nostro, e che non si può vedere nulla se prima non si impara a sentire. Mettendoci in difficoltà, quest’opera ci provoca una strana sensazione di benessere nell’affrontare la morte e la sua conseguente rinascita, spiegando, sempre attraverso la bocca di qualche anziana signora del luogo universale, di quanto il mondo sia un posto meraviglioso dove nascere, poi vivere e morire. “Neena poteva essere un albero, o una montagna innevata, o anche una vecchia signora. Noi musulmani crediamo che quando qualcuno muore va in paradiso poi prendiamo il corpo e lo bruciamo.” Samsara è un film-saggio, in perfetto equilibrio tra il film etnologico e la tenzione alla finzione.
I tre film da poco affrontati si ritrovano riuniti in una sorta di trittico sulla morte, in perfetto equilibrio tra i film di un Festival che riservava tanto spazio anche ad opere che raccontano con forza ed energia guaritrice lotte e storie di esseri umani che affrontano la vita senza nessuna paura. Inarrestabili e incazzate come i ragazzi e le ragazze transgender che interpretano il film manifesto Orlando, Ma Biographie Politique; la poesia e la lentezza naturale in cui nasce, cresce ed appassisce l’amore, o la neve, o i petali di un fiore di Bai Ta Zhi Guang; o ancora gli sguardi e le testimonianze luminose e pure della ciurma filmata con amore da Nicholas Philibert in Sur l’Adamant.
Orlando, Ma Biographie Politique di Paul Preciado
Una lettura a più voci del romanzo Orlando, una biografia, scritto da Virginia Woolf nel 1928, oggi considerato come una sorta di primo manifesto dalle persone transgender, diviene il pretesto e il contesto dove presentare al mondo l’amore per la vita di alcune e alcuni ragazzi e ragazze che hanno tutti e tutte una storia in corso con la transizione di genere.
“Ti sei accorto che non sono né un ragazzo né una ragazza?”, “Si, non somigli a niente che io abbia già visto, ed è per questo che ti amo”, si declamano in costume i personaggi di questa mise en scène militante e rigogliosa. Il film si trasforma in uno spazio libero in cui aprire e chiudere, trasporre l’adattamento di un testo interrompendolo però con la necessità di parlare di sé, della propria esperienza con la transizione. Continuamente cominciamo a conoscere una comunità di corpi che si scambiano il ruolo di Orlando, raccontandosi ed essendo loro stessi/stesse, viaggiando alla ricerca della mascolinità o della femminilità, vivendo sempre in quell’utopia (e il film se ne fa il testo manifesto) di un ipotetico 2028 nel quale verranno abolite le leggi patriarcali e protettrici della sacra etero-normalità, che man mano stanno globalmente decadendo come mele marce, e che non danno spazio a quelli e quelle che si stanno invece facendo eroi ed eroine di una trasformazione della realtà. Allora sentiamoci messi in discussione, impariamo ad ascoltare la storia e come essa ci ha disinsegnato a vivere, accompagniamoci e uniamoci a quella che potrebbe essere la rivoluzione della “scomparsa dell’odio e della comparsa dell’amore”.
Bai Ta Zhi Guang di Zhang Lu
Le immagini incombenti di una torre senza ombra (la “shadowless tower” o il Miaoying Temple di Beijing), dove le stagioni si sostituiscono e scandiscono i cambiamenti e le peripezie, si accordano al testo dello scrittore e poeta cinese Lu Xun, “dove sono le nostre ombre?”. La lentezza naturale che caratterizza la nascita, la vita e la fine dei rapporti tra le persone è in egual proporzione accentuata dalla durata delle sequenze di questo film, che sono inframezzate con quelle dei diversi incontri, più o meno causali e casuali, del protagonista, ma che effettivamente trasportano con esse il filo invisibile dell’esistenza dell’individuo. Volutamente dilungato, sotto una leggera caduta di neve, finalmente, Gu (il lupo solitario che ci traghetta nella vita di un uomo normale, in una Cina raffreddata e sbiadita di oggi) rimane solo e sconsolato. La torre senza ombra, la sua Beijing, un’altra sigaretta. A casa, la sua pianta, la stessa che anche il padre, da solo, usa come unica compagna da curare, unica forma di vita con cui crescere e poi, un giorno…
Sur L’Adamant di Nicholas Philibert
Come accadeva nel labirintico La Ville Louvre (1990) e nel sensibilissimo Être et avoir (2002), Nicolas Philibert si avventura e ci riporta le testimonianze di una nuova comunità. Siamo a bordo di un vascello attraccato ai bordi della Senna, non lontano dalla Cinémathèque Française, e ci troviamo in uno dei più grandi centri diurni di Parigi. Dall’interno di questa gigante balena in legno ci si ferma, si resta incantati e si osserva: Parigi e la Senna, una papera, una barca, una ragazza che balla, uno skater che passa. “State filmando me? Stamattina ho rischiato di prendere due caffè…”, la società che avanza è lo sfondo di alcune delle voci dei visitatori del centro diurno. Un ragazzo cresciuto e sdentato canta con tutta la sua energia “Je veux parler de moi! La bombe humaine”[4], un altro dice di esser stato la più grande fonte d’ispirazione per Wim Wenders e per Jimi Hendrix, una madre si prepara a rivedere il figlio dopo tanto tempo. Ognuna delle persone che per un momento guadagnano la scena cerca di raccontarsi, senza filtri, e noi siamo testimoni di una serie di autoritratti.
Un giorno, più volte durante la settimana, i pazienti-presenti sull’Adamant si immergono nell’espressione artistica, e vedere questi disegni, queste espressioni libere, sono purezza in questo mondo unidirezionale, qui un volto è una vita e un autoritratto esce dalle loro bocche ogni qualvolta parlano (mentre la camera di Philibert ne cattura l’essenza), o quando al contrario rimangono nei loro silenzi inafferrabili. Sembra proprio di essere in un covo di artisti, chi dipinge chi canta, chi suona, chi è poeta, chi sa parlare d’amore. Il documentario esercita una forte empatia ed è sempre all’ascolto dei coinvolti, a loro volta si lasciano andare al filo della loro esistenza e ci regalano, condividendosi, immagini cariche di speranza nata dalle loro paranoie, dal malessere e dalla solitudine. Sur L’Adamant sono i piccoli gesti quotidiani, visivamente espressione di libertà e luminosità, ne impariamo a conoscerne l’origine e ne rileviamo l’originalità. Qui c’è solo e sempre poesia di vita: il film è l’esposizione universale della ricerca della libertà, e un vento tra le foglie d’autunno le smuove, le tira, e mentre alcune di esse cadono lente e si poggiano soavi sull’asfalto umido, altre resistono, e afferrandosi con forza alle loro giornate sorridenti, restando sospese sulle acque del grande fiume della capitale francese.
[1] Gaston Bachelard, La poétique de la rêverie, Parigi 1960; tr. it. La poetica della rêverie, Dedalo, Bari 2008, p. 178.
[2] J.L. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, PGreco, Milano 2012, p.37.
[3] A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, Éditions du Cerf, Parigi 1958; tr. it. Che cosa è il cinema? Garzanti, Milano 1996, p. 194.
[4] https://www.youtube.com/watch?v=J7Cq0as5Hy0&ab_channel=InaChansons