Berlinale 73: Deep Sea
Ápeiron caleidoscopico
Di Marco Allegrezza
A Berlino, tra una pioggia e l’altra, incastrati tra scale monocromatiche di verticalità grige urbane, i colori si ritrovano in sala. Due mondi, quello sul piano della realtà è in bianco e nero, l’altro, quello filmico, decisamente a colori. Un cinema che non satura ma impegna tutti i sensi, dalla Cina prende forma questo componimento cine-sensoriale che stupisce, tutto da vedere, sentire, vivere. Sognare.
Deep Sea (Shen Hai il titolo originale) di Tian Xiaopeng (Monkey King: The Hero Is Back) è l’incursione prepotente e monolitica della Cina nell’universo dell’animazione plus ultra. Presentato alla 73ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, nella sezione Generation Kplus 2023, in 3D.
Un lungo viaggio, astrale, ultra-tecnologico, pittorico, fiabesco e allucinatorio, un’odissea infantile, perché coinvolge una bimba, Shenxiu, la protagonista di questa opera incantata.
Questa triste e tenera infante viene abbandonata dalla mamma, presenza/assenza cruciale che ricorrerà per tutta la durata del film, nelle nuance più variegate e anche diametralmente opposte, dai Sogni d’oro agli ardenti incubi indomiti. La incontriamo già deprivata di questo affetto, in un incolmabile stato di inesorabile mancanza, sola, con il padre algido e distante, accanto a una nuova compagna, con dei nuovi figli; un nuovo Ritratto di famiglia con tempesta dolorosissimo per lei, che, in disparte, resta un’isola, senza nessuna apparente possibilità di essere e divenire arcipelago. Sarà una tempesta, violenta e burrascosa, a sancire l’inizio del viaggio limbico che vivrà la protagonista, strappandola dalla realtà e catapultandola nel caleidoscopico universo acquatico delle meraviglie.
Si trova imbarcata su di una crociera durante una vacanza familiare, in una notte di tormenta marina, quando, allontanatasi per poco, precipita in mare. Black out.
Al suo risveglio ogni aspetto del mondo che conosceva è cambiato. Inizia così un viaggio magico e mistico dalle tonalità multicolori e vivide, che la porteranno a conoscere Nanhe, personaggio surreale e sovrannaturale, dal cuore d’oro e dai poteri iridescenti e policromatici. Questo eroe guardiano pio delle fantasie e della realtà della piccola Shenxiu, è lo chef di un fiabesco e magico ristorante che dona il nome al film, il Deep Sea. È un luogo-sogno, etereo e fatato, che fluttua sotto il livello del mare ma in grado di emergere e navigare: La città incantata di questa avventura “pittonirica”, che come un equilibrista delicatamente dispiega le sue vele tra veglia e miraggio, utopia e realtà, essere e non esser(ci) più.
Il regista Tian Xiaopeng, approda con Deep Sea alla sua opera seconda, perseguendo sulla via dell’animazione. Questa volta però l’impresa è titanica. Viene alla luce un colosso dalle sfumature più variegate, che dall’apparente ambizione nel voler primeggiare sul campo empirico della visione audiovisiva tout court, si muove alla ricerca di un lessico universale con cui dialogare con lo spettatore, non rinunciando mai a guizzi d’autore. Ci troviamo davanti a un tentativo che di certo vuole stupire e sorprendere con effetti visivi e sonori mai visti e uditi prima, che accorcia le distanze edificando un ponte di comunicazione tra il cinefilo e il bambino, ottenendo un risultato che sovrappone e miscela i due status, aprendo il dialogo all’incredulità del fanciullo e all’accavallarsi immersivo dei piani emotivi.
Sul piano tecnico il film poggia su di un apparato mirabolante e d’avanguardia, godendo di un livello tecnologico che spinge l’animazione alla massima magniloquenza, in un’estasi barocca nella forma e post-impressionista nello stile. Un’epopea gargantuesca che sfreccia accanto alle fantasticherie acquatiche di James Cameron, lasciando una scia di colore che prosegue oltre, dipingendo persino le volte celesti oltre che quelle oceaniche, con memorie vangoghiane nei soffici tratti, alternate ad intense esplosioni iperrealiste, vividissime e luccicanti, in un mosaico di pixel giustapposti su tela digitale. Oltre alle sottili lenti che dotano di vita il 3D, non siamo più dinanzi a immagini dotate di tre dimensioni, ma poligoni emozionali che sfiorano i corpi in sala, sulfuree stelle cadenti piene di energia e vigore, coinvolte in un tripudio di colore irripetibile, l’estremo simposio degli acquerelli, l’ultimo dei baccanali del pigmento, l’era dei nanometri dello spettro visibile.
La metodologia di lavoro scelta per la creazione di un linguaggio unico per questo film, è frutto di una raffinata ricerca e di uno sforzo certosino e innovativo. L’autore è partito dalla tecnologia CGI per animare i frame di questo universo fantasy sopra e sottomarino, testandone i limiti e esplodendone i confini, sperimentando la fusione di questa tecnica con l’arcaica arte classica figurativa cinese.
Tra gli antichissimi fasti tradizionali e gli ultimi sviluppi high tech, nasce un nuova forma pioneristica di animare, basata su particelle singole, che trasporta la pittura cinese astratta a inchiostro e ad acquarello sul grande schermo, frammentando le sue due solite dimensioni, dotandola di vita e movimento, facendola librare e fluttuare in sala in una danza sinestesica.
Dalla tela del pittore all’occhio del cineasta.
Anche nel concept artistico, troviamo una miscellanea di più elementi in apertissimo dialogo tra loro. Spunti estetici, nella caratterizzazione dei personaggi, che sembrano attingere dall’universo della più nota animazione statunitense (a loro modo Disney e Pixar su tutti) a quello delle atmosfere e dell’habitat, che più richiama gli immaginari Miyazakiani e dello Studio Ghibli.
Tian Xiaopeng, non è solo in grado di generare coesistenza sapiente e coerente a questo ingente numero di coefficienti – che sembra sempre aumentare esponenzialmente nel ritmo e mai giungere alle battute finali, comportandosi come una fenice, interrompendosi in attimi di quiete, sfiorando la sensazione di un requiem ultimo, per poi riprendere con più forza, rinascere ancora in nuovi assalti e generare un nuovo climax – ma struttura la sua opera su molteplici livelli, vasi comunicanti sommersi e in superficie, di veglia e sogno, di vita e di morte(?). Tra le diverse tracce e sotto tracce, oltre ai binari paralleli di realtà e allucinazione, si sviluppa una riflessione critica metalinguistica. Che segue sempre un ritmo enfatico di fruizione/visione, portando lo spettatore allo stremo, di pari passo con la protagonista, lasciando scampo all’immedesimazione totale e immersiva. La piccola Shenxiu nel finale lotta con sé stessa, per la vita, per la madre, contro la tela, contro lo schermo cinematografico, lo porta al limite, sfibrandolo e lacerando il “medium” stesso che ne è creatore, squarciare la patina opaca, abbattere quel che ne resta della quarta o quinta o sesta parete, distruggere il cinema e tornare alla luce.
Nel film, alcune scene mostrano schermi e proiezioni, spettatori impegnati in visioni 3D, film nel film, cinema nel cinema. Sembra un gioco, un’illusione. Il gioco e l’illusione del primo kinetoscopio. L’inizio di cento e più anni d’illusioni. In Deep Sea, lo si vede chiaramente, illustrazioni che da pagine di libri per bambini si animano e prendono vita, in successione, sempre più rapidamente, in movimento e dunque in sequenze. Il ricordo vola a Eadweard Muybridge, al suo cavallo magico, il pensiero e le palpitazioni ci riportano al presente, all’epilogo di questa estasiante e sfinente agrodolce “allucinemazione” di Tian Xiaopeng, un autore pechinese, che dal pennello alla penna grafica sogna di (ri)dipingere il cinema.