Berlinale 73: Concrete Valley
di Francesco Scognamiglio
Tra gli edifici impenetrabili di Potsdamer Platz si recano i primi accreditati a ritirare il proprio badge.
L’orso d’oro imbalsamato sorveglia in posa in fase di attacco.
L’algida atmosfera metropolitana ospita diversi soggetti, come me, leggermente spaesati. Al contrario, camminano a passo svelto gli addetti ai lavori, presi dalle ben organizzate iniziative di mercato, diretti verso i Work Space appositi.
Intanto i critici più attenti si muovono a colpo sicuro tra le indecifrabili possibilità cinematografiche offerte dalla Berlinale, con le sue innumerevoli e ricche sezioni. Io invece mi perdo tra la comodità delle poltrone, le proiezioni qualitativamente accurate e l’impianto sonoro non da meno. Tutto questo però non è sufficiente a far scomparire dalla mente i quartieri cittadini che ho appena attraversato per giungere in orario alla proiezione del film.
Ogni sala mantiene intatta una percepibile concretezza, probabilmente legata a quella della città stessa.
Non è facile distendersi del tutto con tale grandezza.
Durante i film del festival di Berlino certe sensazioni oniriche fanno fatica a palesarsi bensì l’analisi e l’emozione umana prendono spazio in me, portandomi a contemplare lucidamente i contenuti del film.
Per questo, nonostante solitamente mi lasci affascinare maggiormente da lavori come quello di Lois Patiño (con il suo nuovo film Samsara cerca, attraverso un’originale pratica cine-meditativa, nuove forme di riflessione sulle possibilità del mezzo) o come quello di Philippe Garrel (Le Grand Chariot racconta di una tragedia familiare che solleva un problema delicato, quello delle arti e delle tradizioni che vengono lasciate in eredità dai padri, con la speranza che possano essere accolte ben volentieri dai loro figli, anche se con declinazioni e volontà differenti), ho deciso di scrivere sul film Concrete Valley del giovane regista Antoine Bourges poiché mi ha aiutato a sviluppare concetti affini a quelle sensazioni che ho sentito affiorare in me durante le giornate di questo festival internazionale: Guardare il quartiere come una società che ha costante bisogno della partecipazione attiva del cittadino che vive in margini di miglioramento sempre più ampi.
Convivenze nei confini
Lontano dall’europa, ma vicino a contesti multiculturali non troppo diversi dalla metropoli Berlinese, Rashid, solitario, suo malgrado, ha trovato il suo angolo di mondo. Nascosto tra le piante più fitte del parco cittadino, non intenzionato a condividere con nessuno quel momento intimo, in silenzio, non pensa forse più a niente.
Di solito è interessato invece a cosa hanno da dire tutti gli altri.
Facendo accuratamente attenzione al modo con cui si ponte, rivolge spesso precise domande e ascolta con placida calma le risposte che gli vengono date.
La moglie, Farah, conosce bene gli occhi non più sinceri del marito e il comportamento che da un po’ di tempo quest’ultimo ha assunto nei suoi confronti non sembra andarle più bene.
Nella Don Valley di Toronto, questa coppia di siriani interagisce attivamente con la comunità del quartiere, i loro vicini di casa, a ThornCliffe Park.
Il regista canadese Antoine Bourges, con il suo secondo lungometraggio, Concrete Valley, presentato quest’anno nella sezione Forum della Berlinale, restituisce lo spirito veritiero di un contesto residenziale multiculturale reale distinto dal resto della capitale dell’Ontario.
Nella calma e solitaria routine cittadina i protagonisti di questa storia sono i due giovani immigrati e loro figlio che imparano a destreggiarsi nel quartiere ampliando le proprie relazioni sociali per colmare il naturale bisogno di interazione con il luogo in cui adesso vivono. Scelgono quindi, a loro modo, di lavorare attivamente per ottenere un’ integrazione maggiore nel territorio svolgendo servizi utili alla comunità.
Rashid è un medico, o almeno lo era fino a poco tempo fa in Siria. Ora lo vediamo trascorrere gran parte del suo tempo in giro per il quartiere mentre offre gratuitamente alle persone che incontra un sostegno medico gratuito. Ascolta attentamente i problemi che le persone lamentano e spesso sembra sapere benissimo quali possano essere le soluzioni per i determinati sintomi da loro esposti. Consiglia così medicinali o rimedi naturali, accertandosi cordialmente che le persone che rincontra nuovamente lo abbiamo ascoltato.
Anche durante le lezioni di inglese a cui partecipa per migliorare la pronuncia, mostra un forte bisogno di domandare e conoscere. Di spogliare gli altri delle loro abitudini e vergogne, per mostrarsi curioso e amichevole verso tutti ma non permettendo a nessuno di rompere questo schema. I suoi interventi, dunque, non sembrano spontanei e casuali bensì analitici e controllati.
A Rashid non sembra importare soltanto delle cure che sottopone senza richiesta alle persone che incontra. È interessato incredibilmente al momento in cui si concretizza la loro riconoscenza. La sua gentilezza nasconde qualcosa di più contorto ed egoistico, un feticismo inconscio.
Il suo paesaggio interiore è barricato e i suoi problemi vengono sostituiti da quelli degli altri con cui finalmente si sente a suo agio. Affrontando gli altri con una certa superiorità dettata dalla competenza medica che possiede.
Come era stato per il personaggio sorridente e allo stesso tempo misterioso e controverso di Un Eroe, film del 2021 di Asghar Farhadi, noi per Rashid manteniamo delle riserve. Non ci fidiamo totalmente di lui. Sospettiamo un opportunismo pulcinellesco in chiave mussulmana. Ma non nasconde certo qualcosa di grosso. Non ha rubato a nessuno e tantomeno non ha nessun debito con alcuno. È il semplice disturbo dato dal vedere una persona impeccabilmente benevola e altruista.
La moglie Farah gli fa notare come il suo spirito ultimamente sia molto per molti fastidioso. Lo rimprovera per la troppa arroganza che spesso manifesta.
Ma anche lei è allucinata da un mancato vincolo con il reale. La sua mente fluttua in uno stato poco vigile e distaccato. Nonostante il suo gratificante lavoro in farmacia, lei è improvvisamente interessata ad altro: una possibilità lavorativa complementare. Vuole fare volontariato nella comunità. Per questo chiede dei giorni di permesso per dedicarsi a tale attività.
Farah conviene che nello spazio circostante il senso della vita è più tangibile.
La nostalgia di casa, lontana, viene affrontata con il continuo dinamico dialogo con il nuovo, vicino.
Farah, Rashid e il figlio Ammar mantengono una mentalità salda, probabilmente propria di alcune tradizioni mediorientali spesso assopite in coloro che sono stati vittime dell’economia opprimente del paese in cui sono giunti o della mancata integrazione sociale. I protagonisti di questa storia credono che bisogna sforzarsi per interagire con gli altri per poter ottenere una propria identità umana soddisfacente e dignitosa nel nuovo luogo a cui si sentono appartenere. Ma allo stesso tempo sono bloccati in uno stato di isolamento permanente che il quartiere moderno di ThornCliffe Park rappresenta nei suoi confini.
Rashid infine viene ritratto come un individuo stressato. Non riuscendo a soddisfare sessualmente la propria moglie si sente impotente e quindi ha bisogno di sentirsi appagato con i consigli e le saggezze che consegna agli altri.
Per un aneddoto quotidiano che deve raccontare, durante un esercizio, alla classe di inglese, Rashid decide di distorcere la realtà dei fatti. Il suo racconto sul topo morto si conclude con gli applausi che dice di aver ricevuto dal figlio e dagli amici per quello che ha fatto per curarlo. Sappiamo soltanto che, qualche giorno prima, suo figlio ha trovato un topo morto per strada e che mentre Rashid guardava il figlio punzecchiarlo, la madre lo sgridava. L’evento che racconta è frutto della sua più infantile fantasia. Probabilmente Rashid aveva bisogno di sentirsi acclamato e glorificato.
Anche Farah non sembra esprimere totale fiducia e chiarezza nelle azioni che la vediamo compiere. Forse sta occupando le ore di volontariato perché è innamorata dell’organizzatrice. La osserviamo mentre trascorre del tempo con lei mentre i loro rispettivi figli giocano sulle sponde di un ruscello.
Non succede niente. Non sarà quello il futuro di questa storia. Ma un po’ di mistero continua ad avvolgere la figura di questa donna siriana.
Così come era stato per il film precedente di Bourges, Fail To Appear (2017), sul rapporto tra un’assistente sociale e un uomo accusato di furto, i personaggi che incontriamo qui appaiono sicuramente complessi quando rifiutano il dialogo o non gli viene offerto. Questo perché si sentono soli, in uno stato di abbandono. Invece quando le vediamo interagire con altri ci sembrano finalmente persone semplici, umane e comprensibili. Si sono visti finalmente anche loro dall’esterno, come noi li abbiamo visti sullo schermo. Si sono sentiti non così diversi dagli altri.
Questa famiglia, con tutti i problemi che cerca di affrontare, risolvere o nascondere, prova continuamente ad immergersi in questo contesto sociale, algido ma sufficientemente essenziale.