Berlinale 72
Immagine-Mondo, o il pulsante che accende e spegne tutte le luci
di Edo Mariani
In una Berlino silenziosa, tra il 10 e il 20 Febbraio 2022 si è svolta la 72esima edizione della Internationale Filmfestspiele, soprannominata Berlinale. Nella passata edizione, che ha visto vincitore dell’Orso d’oro l’irriverente Bad Luck Banging or Loony Porn, lo sfortunato festival ha dovuto svolgersi solamente online a causa della pandemia, purtroppo ancora in corso, del COVID-19. L’organizzazione dell’evento, in un momento critico come quello in cui il festival ha avuto luogo, è degna di un encomio e di una breve descrizione: l’entrata alle diverse proiezioni era regolata dalla possibilità di prenotare il proprio posto a partire dalle 48h antecedenti la giornata in cui era programmata (ormai divenuta consuetudine in tutti i maggiori e minori festival internazionali), dove ogni singola opera appariva in diverse parti della città e in diversi orari, così da permettere a chiunque (grande e forte era la presenza del pubblico berlinese) di prendere parte a tutte le proiezioni dei tantissimi film proposti in questa Berlinale 72. Da non dimenticare l’autobus di linea che accoglieva gli accreditati della Press, ai quali ogni giorno, prima del primo film, veniva offerto un test antigienico che avrebbe messo in sicurezza tutti i partecipanti alle proiezioni del festival.
Sempre di più la ricerca cinematografica si estende verso nuove frontiere, segnando nettamente il distacco dalla classicità delle immagini-movimento e dalla modernità delle immagini-tempo sulle quali si sono tracciati i momenti salienti della Storia del cinema più ufficiale. Sempre più le immagini numeriche ora tendono continuamente a farsi specchio dalla profondità infinita, dimostrando in qualche modo che l’allontanamento dalla sua essenza materialistica, quella dell’ontologia dell’immagine fotografica di André Bazin, e da quell’idea di “monde qui devient sa propre image” teorizzata dal filosofo francese Gilles Deleuze, che già era cominciata gradualmente ad insidiarsi tra le crepe del passaggio dal cinema come arte tecnologica al cinema come essenza della fusione tra mondo (dove convivono anima dell’autore e corpo dell’opera) e un agire informatico dell’essere umano e le macchine calcolatrici (dalle cineprese digitali le immagini del mondo dialogano con i computer dove avviene la composizione del film), e che oggi si sta consolidando verso una nuova formula di cinema. Versioni e proiezioni irradiate da una luce numerica, corpo di una narrazione libera, cangiante, senza forme, anima di opere vessillo di una certa a-temporalità e a-spazialità. Le rinnovate Histoire(s) d’un expanded cinema che “sarà stato” ovunque e da nessuna parte e che, film dopo film, segnano i primi passi di un “percorso celeste” intrapreso da alcuni degli autori e delle autrici che permettono al medium cinematografico di rifondarsi nella sua stessa luce, come in una eclissi, scoprendosi lentamente, accecando gli occhi di un pianeta in difficoltà. “L’immagine attuale e l’immagine virtuale coesistono e cristallizzano […], formando una sola e medesima «scena» dove i personaggi appartengono alla realtà e ciononostante recitano un ruolo”[1], riprendendo le parole che Deleuze aveva usato per descrivere la nuova forza portata dalla rivoluzione del cinema di Rossellini e delle pratiche neorealiste, potremmo continuare stabilendo che ora l’immagine virtuale disintegra in invisibili elementi di un’unica equazione tutto ciò in cui l’immagine mondo si rappresenta. Tempo e spazio, realtà e virtualità, vita o morte, senso e irripetibilità delle cose, Tutto non è più parte insostituibile di un insieme, ma effetto sinestetico e sintetico causato da quella che chiamiamo banalmente “rappresentazione digitale”, che è una nuova immagine-mondo, diagramma multidimensionale sul quale sono disposti armoniosamente tempo e spazio.
Punto in comune della maggior parte delle opere visionate durante il festival è sicuramente quello della libertà dell’immagine in quanto apertura di un punto di vista sul mondo contemporaneo, e non più matrice estetica e tecnica su cui si fondano i principi della narrazione. Una sorta di attivismo cinematografico, forme, scene e montaggi intenzionati sempre più a dissezionare, a decostruire il senso del fare cinema oggi.
Entrare e uscire dai formati, dai dispositivi di ripresa, dalla sceneggiatura, dal film in quanto scatola chiusa. Buona parte delle opere di questo festival si presentano come una diretta provocazione al cinema come spettacolo meramente costruito per la comprensione del pubblico in quanto numero, o volendo andare più lontano, codice in pasto ad algoritmi. Ogni film a suo modo richiamava a una nuova percezione della visione del cinema, attraversando di continuo e senza filtri il ponte che divide l’universo della narrazione dall’universo in cui respirano i singoli spettatori.
Tre film in particolare sono dimostrazioni pratiche di questa tendenza, esempi di come l’autore oggi sente di dover dire la sua integrandosi all’opera, permettendosi di inserirsi nel flusso reticolato della narrazione, non interrompendo ma fondendosi alle immagini come in un film di coscienza, un testo interiore ed interiorizzante dispiegato attraverso un accentuato montaggio comparativo e non più al solo servizio della fabula.
Il destino è tratto
La forma che Bertrand Bonello adopera in Coma mette in opera proprio questa trasmutazione dell’essenza numerica dell’immagine digitale in un dialogo naturalmente astratto realtà-sua immagine specchio, l’individuo isolato dalla società rappresenta l’atteggiamento del cineasta stesso verso l’arte cinematografica di oggi: una ragazza è rinchiusa da sola in un appartamento a Parigi durante la quarantena, la stessa a cui siamo stati tutti e tutte sottoposti a causa della pandemia. Gli incubi, i social networks, le videochiamate con le amiche, le letture, le fantasie, le risate fuori campo in stile sit-com (sicuramente ispirate a quelle della mini serie di cortometraggi di David Lynch, Rabbits), la musica, le pareti della stanza, la porta sempre chiusa, l’immedesimazione e la spersonalizzazione sono l’anima ed il corpo di questo lungometraggio.
Tutto si apre con la dichiarazione del regista che “questo piccolo gesto per te”, ovvero la scrittura di questo film, è dedicato alla sua giovane figlia (Anna Mouchette) e al suo futuro, ora che è entrata ufficialmente nell’età adulta. Dopo un estratto caotico e zoomato dal film Nocturama (anch’esso dedicato dal regista alla figlia nel 2016, forse inserito come contraltare alle libertà di movimento sempre più limitate al giorno d’oggi), Coma procede mescolando diverse tecniche e mezzi di ripresa (handycam, facetime del computer e dello smartphone, videocamere di sorveglianza) a momenti di completa erranza dell’immagine che trasmigra autonomamente in istanti d’animazione. Ogni stacco, ogni scena, propone allo spettatore una modalità di raccontare una storia, alternando ad esempio il rotoscope per raccontare una sorta di viaggio astrale della protagonista, alla cornice di una videochiamata o di un video youtube per raccontare i rapporti tra esseri umani in questo preciso momento storico. La struttura del film diviene espressione metaforica di paradossali dogmi a cui ci siamo abituati e di cui abbiamo dovuto imparare a limitarci in questi ultimi anni catastrofici; l’immagine mostrata ne è il prodotto, e forse sempre meno il pretesto: la libertà di raccontare si riproduce in estratti-passatempo, l’inquadratura studiata, programmata, ben scritta e necessaria perde di valore, è inutile se inserita in un contesto contemporaneo che sembra non lasciarci, ai personaggi quanto ai loro spettatori, modo di riprendere fiato. Le delimitazioni cinematografiche si stanno rompendo, il cinema (in questo senso) sente il dovere etico di restare lucido, lasciando forse l’entertaining al “cinema” delle seguitissime serie televisive. In Coma c’è un personaggio principale e una disordinata catena di suoi co-protagonisti, personaggi che si presentano sotto forma di ibride interruzioni di montaggio nella monotonia della vita solitaria della giovane. C’è Gilles Deleuze, ci sono le voci di Louis Garrel, Laetitia Casta, e Gaspard Ulliel, ci sono alcuni estratti dall’Inferno di Henri-Georges Clouzot (film incompiuto e abbandonato), e una collezione di immagini di repertorio di iceberg che affondano, guerre che distruggono e persone che soffrono. “Attenzione a non farsi prendere dai sogni degli altri”, ci ricorda Deleuze a metà del film, e nel finale Bertrand Bonello si augura un futuro migliore per tutti e tutte, rivolgendosi direttamente ai giovani dichiara “i nostri sacrifici saranno ripagati…il limbo non è un limite o un confine, ma è uno spazio bianco da riempire”, o come intona Andrea Lazlo De Simone nel brano Immensità, colonna sonora di una delle scene più magiche del film: “tutta la realtà è immensità, come il sogno poi si dissolverà, da domani inizierà una nuova immensità”.
Con Everything Will Be Ok invece il regista cambogiano Rithy Panh presenta una visione distopica, difficile e critica del tragico futuro verso cui stiamo progressivamente conducendo il nostro caro pianeta Terra.
Disposti come pedine di un diagramma, il film ci racconta la storia di una rivoluzione immaginaria in cui un facocero diviene il dittatore del mondo, e dopo aver fatto schiavitù di ogni essere umano, si fa impiantare un paio di mani d’oro, simbolo della necessità di umanizzare la sofferenza, la mano come arma antropica con cui trucidare i propri simili per interessi personali, o anche gli animali senza nemmeno farseli nemici. I personaggi che riempiono le scene sono dei piccoli modellini in 3D, maquettes imperfette di un mondo altrettanto fuori scala e difettoso, non si muovono, sono fermi mentre le inquadrature, accompagnate dalla immancabile, trascinante ma ostile voce narrante (scritta da Christophe Bataille, come già era stato in L’image manquante nel 2013), ne raccontano le vicende. Il film riattraversa, per volontà curiosa dell’Imperatore-facocero, una sorta di storia dell’immagine cinematografica, dalla quale il nuovo capo vuole prendere spunto per imparare e riscrivere una sua personale Storia del mondo. Spesso durante la visione di Everything Will Be Ok ci ritroviamo immobili, un po’ come lo sono i modellini che abitano le immagini, ad osservare materiali audiovisivi selezionati sottilmente e sparsi ad arte durante tutta la durata del film, sorta di attivismo dell’autore verso la forma aperta e illimitata che le possibilità del montaggio offrono oggi.
Divise in estranianti split screen rettangolari, si susseguono le immagini dei viaggi nel tempo del protagonista di La Jetée di Chris Marker, o anche diverse citazioni alle citazioni delle immagini di morte e antiumane mostrate nei diversi episodi delle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, approdando poi agli schermi di oggi, luogo dove Rithy Panh mette gli spettatori e le spettatrici davanti alla crudeltà a cui proprio questa nostra storia ci ha trascinati: sono messi a confronto dei video mukbang, format affermatosi negli ultimi anni in cui assistiamo ad una sorta di “grande abbuffata” solitaria e irrispettosa, dove una grande quantità di cibo viene ingerita in diretta da una sola persona; e le drammatiche immagini di sofferenza filmate da attivisti per la difesa degli animali.
Se Coma sminuzza il rapporto che l’immagine cinematografica ha verso il contemporaneo, mettendo in scena il racconto delle turbe e delle fantasie di una giovane ragazza liceale, Everything Will Be Ok è lo specchio semi documentaristico in cui si riflettono le paure e le ansie di un’intera popolazione per il futuro che non ha ancora imparato dagli errori del passato, allora À Vendredì, Robinson è semplicemente la realtà di due persone anziane che aprono i loro cuori al resto della comunità.
Mitra Farahani, che si era già cimentata nella scrittura documentaria della vita di un celebre pittore iraniano Bahman Mohassess in Fifi Howls From Happiness nel 2013, qui è alle prese con un altro artista, Ebrahim Golestan. Il regista e scrittore iraniano, che oggi abita in un’immensa tenuta nel West Sussex, a sud dell’Inghilterra, aveva diretto tra il 61 e il 65 alcuni lungometraggi ed ha collaborato alla traduzione di molti testi della poesia e della narrativa occidentale.
Oggi l’artista è stanco, ha 99 anni e si trascina lentamente su e giù tra gli immensi piani della sua villa silenziosa. Nel documentare la vita dell’uomo un giorno, un Venerdì, Mitra Farahani propone a Golestan di inviare una e-mail a Jean-Luc Godard, di qualche anno più giovane che abita nella sua piccola casetta su due piani a Rolle, in Svizzera. Nessuno avrebbe potuto prevedere che quella lettera elettronica avrebbe fatto nascere una grande amicizia tra due uomini che non si sono mai incontrati veramente, e che probabilmente, a detta loro, mai ci riusciranno.
Alla prima lettera Godard, che vediamo performare nel ruolo di se stesso nelle inquadrature registrate dal suo fidato assistente Fabrice Aragno, risponde a Golestan inviandogli una sorta di rebus digitale, allegando alla mail degli estratti scannerizzati dall’Ulisse di James Joyce, uno zoom sul dettaglio del dipinto Tres de Mayo di Francisco Goya e un video girato dallo stesso Godard con il suo iPhone in uno scorcio della piccola città svizzera in cui abita dove semplicemente scende una rampa di scale finendo per sparire nella luce del video. “Il bambino tocca, cerca, gioca con tutto, ma non si chiede mai il perché. Sono i genitori a insegnare al bambino a dire perché. Ma perché i genitori lo fanno il bambino non lo sa.” Dice Godard a un certo punto nel film, e Golestan gli risponde cantando a squarciagola “Vivoooo, Vivooo!” imitando il canto e le parole del Poeta de La Bohème di Giacomo Puccini.
“Il cinema non è una lingua ma un linguaggio”, afferma ancora JLG, artista che, come Picasso con la pittura, ha composto i suoi film seguendo inizialmente alcuni dei dogmi precostruiti del fare cinema (sceneggiatura, continuità, narrazione) per poi imparare a disfarli, a disfarsene, dando vita a uno degli esempi più importanti di pratica cinematografica che in questi ultimi anni ha aperto un nuovo capitolo nelle storie dell’arte cinematografica: potremmo noi oggi vivere nell’era dell’Adieu au langage ?
[1] Gilles Deleuze, L’image-temps, nel capitolo “Les cristaux des temps”, Les Éditions de minuit, p.112.