BAD LUCK BANGING OR LOOSING PORN di Radu Jude
Radu Jude o della riscrittura ironica del mondo
di Daniele Dottorini
Una macchina da presa segue un personaggio che si muove tra le strade affollate di gente di una città. È un’immagine che si ripete costantemente in Bad Luck Banging or Loosing Porn di Radu Jude, Orso d’Oro alla Berlinale 2021. È una delle immagini che più colpiscono alla prima visione del film, più della sequenza iniziale – il porno amatoriale veramente loose, che coinvolge la maestra Amelia e il suo compagno e che finisce, virale, in rete – e più della lunga sequenza finale, il “processo” intentato ad Amelia dai genitori degli alunni.
Quel movimento colpisce più di altri non tanto perché più importante o decisivo nell’economia del film, ma soprattutto perché è a partire da quelle immagini che il particolare lavoro di riscrittura cinematografica del reale di Jude si rende manifesto.
Seguire un personaggio che cammina: non è questo forse uno degli indici di un cinema dall’impronta esplicitamente realista? Non è forse il pedinamento il termine centrale della teoria e pratica zavattiniana che ha fondato un certo modo di intendere il cinema del reale? sì, certo, ma non basta trovare un facile aggancio nel passato per etichettare rapidamente (il peccato critico più frequente) Jude come un epigono del cinema realista. Perché a ben vedere, quel movimento ha qualcosa di particolare: la macchina da presa segue Amelia nel suo peregrinare per le strade di Bucarest, ma costantemente interrompe il suo “pedinamento” per soffermarsi sugli spazi che il personaggio attraversa senza vedere veramente. Come dotata di una volontà propria, la camera erra “in eccesso” rispetto all’erranza del personaggio, si muove altrove per poi ritrovare il personaggio in un altro punto della città. Si commetterebbe un errore se si pensasse che questo errare ha a che fare con uno sguardo documentario, con l’idea di scoprire uno spazio reale a partire dal personaggio. Questo è sì presente, ma c’è anche altro: il movimento si mostra come tale, come scrittura che utilizza gli elementi reali della scena.
È questo l’elemento ricorrente nel cinema di Jude: l’idea cioè che la scrittura sia un lavoro costante di sovrapposizione di forme, in cui fluttuano senza sosta lo sguardo documentario e la riscrittura di finzione. È in questa prospettiva che allora si collocano film diversissimi tra loro, reinvenzioni della forma documentaria o riscritture dei generi. Aferim! , è una sorta di western ambientato nel XIX secolo, in cui l’erranza dei due personaggi, se da una parte ripete i movimenti del cinema di Ford o di Hawks, dall’altra lavora per una costante messa a distanza dei suoi modelli di riferimento. Il movimento avviene in questo caso mediante la riscrittura del genere, che in sé è attraversato da una linea direttrice costantemente proiettata in avanti (il muoversi verso ovest, La conquista del West). Solo che la riscrittura si pone come forma critica, negazione del suo movimento originario. Più i due poliziotti si addentrano nelle foreste a caccia del fuggitivo, più i territori si confondono, i personaggi emergono nella loro oscenità, nella loro mostruosità.
Il movimento è sempre falso, lo sappiamo. Per questo esso si presenta come sovrapposizione, operazione appunto di scrittura. In The Marshall’s two Executions, Jude presenta in montaggio alternato il footage dell’esecuzione del maresciallo Antonescu, dittatore filonazista in Romania, con la sua versione cinematografica, ad opera di un regista “patriottico” (Sergiu Nicolescu) nel 1994. Il montaggio rivela l’attenzione “filologica” di Nicolescu, che fa ripetere ai suoi attori gli stessi movimenti e gli stessi gesti che vediamo nel filmato originale del 1946. Ma la ripetizione non mostra gli stessi elementi, non dice la stessa cosa. In una sorta di corto circuito temporale, gli stessi gesti si oppongono radicalmente, mostrano la diversità di sguardo nei due “documenti”, che di conseguenza tendono non a confondersi, ma al contrario quasi a urlare la loro differenza radicale.
La scrittura è dunque un ri-orientamento nel mondo, attraverso torsioni e accostamenti di forme, soprattutto attraverso un lavoro di spiazzamento costante tra il testo e le immagini. Dead Nations e Uppercase Print lavorano infatti nella direzione di una doppia scrittura a partire dai due testi di partenza – il diario di un medico ebreo rumeno durante gli anni della svolta a destra e razzista del paese prima e durante la Seconda Guerra Mondiale; i rapporti della Securitate sulle indagini sul caso di un ragazzo che negli anni ottanta dipingeva sui muri di Bucarest scritte contro il governo. Testi diversi, che non nascono per essere messi in rapporto con immagini, ma che Jude utilizza come base per due operazioni diverse: da una parte, in Dead Nation, una sequenza di fotografie scattate in quegli anni in Romania; dall’altra, in Uppercase Print, una messa in scena ripresa da una pièce teatrale, in cui gli attori rimettono in scena gli interrogatori e le intercettazioni telefoniche in forma antinaturalista, volutamente straniante.
Erranza e stasi, i due elementi costitutivi di Bad Luck Banging and Loosing Porn sono dunque forme della scrittura che riflettono stati dell’essere, come le tre parti in cui è diviso il film – appunto alternanza di movimento e stasi – quasi una suddivisione in capitoli di un libro, che non rende il film un saggio, ma utilizza l’idea di cine-scrittura come modulazione di uno sguardo, come forma intermedia tra finzione e documentario (i due territori che attraversano costantemente il cinema del regista rumeno), capace di destrutturare il mondo che di volta in volta si dipana nei film. La sequenza pornografica che apre il film, nel suo porsi immediatamente come loose, squallida, goffa, pura imitazione delle tante clip che riempiono i server dei siti porno è allora l’ulteriore esempio di una riscrittura di una forma, di una cine-scrittura che si distacca dal suo modello di partenza.
Cine-scrittura, termine che assume un ruolo fondamentale nel cinema di un’autrice come Agnes Varda, il cui sguardo trova più di un punto di contatto con le immagini di Jude. Chiariamoci: si tratta di due percorsi profondamente diversi, in cui non è possibile trovare analogie; se non, appunto, nell’uso della scrittura filmica (estesa, espansa, intesa come ricerca costante di una ristrutturazione delle forme e dei generi), come pratica ironica del cinema. Non l’ironia socratica, apparentemente sottomessa alla presunta sapienza dei suoi interlocutori, e neanche l’ironia di matrice romantica, fondata sul senso di superiorità rispetto al mondo e agli uomini.
È quella di Jude (e di Varda), un’ironia kierkegaardiana, nel senso di un atteggiamento che può guardare il mondo, il suo orrore, la sua bellezza, le sue piccole e grandi miserie solo attraverso una scrittura in grado di staccarsi da esso, ma al tempo stesso impegnandosi in un percorso in grado di dirlo, in grado di trasformarlo in immagine. La scrittura come invenzione di uno sguardo, l’ironia come orientamento di ogni approccio. È anche qui che si gioca la scommessa di un cinema che proprio per questo rifiuta le facili etichette, i paragoni scontati, le comparazioni sterili. Con ironia.