Atlas finis mundi. A proposito di Abel Ferrara
di Giovanni Festa
Abel Ferrara con Sportin’ Life e più in generale attraverso un gruppo di opere “minori” straordinarie (a partire almeno da quel film che profeticamente metteva in scena già tutta la pandemia a venire, 4:44 Last Days on Earth), sta riuscendo a montare insieme storia personale e storia collettiva riempiendo di materiale eterogeneo (home-movies, filmati youtube, riprese di telegiornali etc. oltre a sequenze prelevate meticolosamente dai suoi stessi film, e che quindi appartengono, godardianamente, alla storia del cinema) un tessuto finzionale che si scopre sempre più poroso e pieno quindi di buchi, slabbrature, aperture. Solo un altro cineasta, ci sembra, sta percorrendo forse con ancora più lungimirante persistenza, una strada che, nonostante tutte le differenze, appare in certo modo simile: ci riferiamo, naturalmente, a Julio Bressane (pensiamo, e solo per fare un esempio a Rua Aperana 52).
Cominciamo allora, per poi muoverci rapsodicamente a ritroso, proprio dall’ultimo film di Ferrara, migrando attraverso i “documenti” (parola da intendersi, qui, nella sua accezione di immagini non interpretate o, ancor di più, trasformazione, piegatura, di un’immagine in materiale non interpretato) che lo costituiscono. Tutto facile in apparenza: in realtà, la sfida che Ferrara si è posto è immane (e commovente, e filosofica): da un lato rendere l’immagine una sapiente contromossa davanti agli ostacoli di un accadere storico eccentrico, discorde, irregolare, grazie alla possibilità dataci dal montaggio di verificare l’attimo torbido che stiamo vivendo (“la vicinanza”, recita una frase folgorante di Ernst Bloch che avrebbe potuto essere di Godard, “rende le cose difficili”), per ri-articolarlo e rimontarlo a posteriori (il montaggio arresta il panta rei torbido dell’esistente aprendolo alla sua verifica incerta e sperimentale); dall’altro, facendo dell’immagine la traccia, insieme sensibile e archivistica, del pre-apparire (“per colpi di proiettore”, verrebbe da dire) di un orizzonte, diversamente possibile, di esistenza, orientando lo sguardo (e, quindi, il pensiero) verso la storia e la sua genesi, la produzione, l’origine, la formazione stessa della realtà.
Il film inizia con i frammenti di una intervista a Abel e Willem, che si conoscono a memoria, complici (quando l’attore ripete, come in una litania “I love it” enumerando alcuni aspetti del lavoro con Ferrara, capiamo quanto sia “dentro” l’ultima produzione del regista che lo vede sempre coinvolto), una serie di concerti della band rock di quest’ultimo (da Alive in France), la presentazione di Siberia a Berlino e Tommaso a Cannes. Seguono brani dei film di Ferrara, mixati insieme al materiale found footage del mondo “fuori di sesto” contemporaneo (a volte diventa difficile distinguere i due blocchi perché la realtà risucchia le immagini di finzione o viceversa: una sequenza dal balcone della casa del regista – come ce ne sono tante in Tommaso – mostra la fila delle ambulanze del 118 davanti ai palazzi nei giorni più oscuri della pandemia). Al primo “blocco” appartengono, in uno scivolamento fatto di baluginii, Willem che in giacca di pelle nera cammina nelle strade notturne di New York deserta come durante il lockdown (da 4:44); Lili Taylor trasportata su una lettiga in un corridoio di ospedale o dietro un separé (da The addiction), come nelle degenze della pandemia; ma anche un primo piano di Forest Whitaker (da Mary), un frammento di conversazione (da Go go Tales), una soggettiva oceanica nella foresta di smeraldo (da Siberia), e un brano dell’intervista finale a Pasolini nel film omonimo dove, con sconcertante lungimiranza, il poeta-cineasta riflette sull’orrore della civiltà dei consumi, profetizzando il nostro essere “tutti in pericolo”. Nel secondo blocco affiorano notiziari e filmati da internet o dalla televisione (la foto di auto in colonna davanti a un centro distribuzione di alimenti in Texas; la messa pasquale di Papa Francesco dell’anno scorso, la statua di Padre Pio nell’abisso e le stimmate; gli “sconti” nei negozi di armi presi d’assalto; i Ramones; New York svuotata; una sessione del Congresso dove parla la giovane esponente dell’ala sinistra del partito democratico Alexandria Ocasio-Cortez; le immagini di eventi sportivi; il video di una canzone di Del Shannon; infermieri lavorando in ospedali al collasso mentre si ascolta il rantolo dei malati; i cartelli “cinema closed”) in una connessione folgorante fra documento che aderisce alla finzione prefigurando il futuro (come sa bene il Soderbergh di Contagion) e la finzione che letteralmente “sgrana” fino a mostrare di possedere in sé la filigrana del documento (è questa, una delle lezioni più moderne di Roberto Rossellini).
Tutto sembra obbedire ad una savia pulsione di aggregazione dell’eterogeneo e del marginale che ci fa a pensare all’ultime tavole dell’Atlas Mnemosyne (i Patti lateranensi in Vaticano; una pubblicità di carta igienica e quella di un’agenzia di viaggi; una giocatrice di golf) e ancor di più ai Combine di Robert Rauschenberg (non erano le serigrafie, con questa loro aderenza automatica a un reale sempre già fuggito, una specie di punto di contatto estremo fra riproducibilità tecnica e arcaismo magico dell’impronta?) e, naturalmente, alle Histoire(s) di Godard. Come annota in maniera fulminante Daniela Turco nel numero 15 di filmparlato, rintracciando proprio questa pulsione auratica godardiana in Ferrara, si tratta di una «vasta nebulosa di detriti di immagini e suoni, disposti in costellazione, in cui la domanda che continua ad attivarsi è sempre la stessa, Che cos’è il cinema, perché lo si fa?». Visioni queste, se possibile, sempre di scorcio, lo scorcio essendo il punto di vista prediletto di Ferrara, perché combina insieme slittamento e taglio, vertigine e difficoltà di “presa”, caduta e presa di posizione scalena davanti a un mondo irredento. Tutto secondo l’idea di un montaggio della catastrofe che sfrutta gli spazi interstiziali delle immagini per connettere fra loro termini lontani e disattivare le associazioni dirette (banali), concentrandosi su quello che Rancière parlando di Godard, chiamava “non-legame”. Ferrara, proprio come Godard-Bressane-Warburg-Rauschenberg, tratta con rigore insuperato tutto quel “materiale che ci sta davanti” tutte quelle immagini “pesanti” che altrimenti galleggerebbero (in rete, nei network tv) non diventando realmente visibili, ossia non rivelando i diversi strati del loro poter essere. Il flusso del reale (davanti al quale restiamo acriticamente sorpresi), deve essere frammentato, per manifestarsi come intreccio di processi aperti che si articolano in un mondo incompiuto. Tra l’altro (e Ferrara lo sa benissimo), solo nel frammento, inteso non come cosa morta ma dialetticamente, in uno sforzo di adeguazione costante e sempre come brandello o scheggia che si aggiunge ad un altro e a un altro ancora, si annida la cosa.
Ma a tutto questo, ed è giusto ricordarlo, il regista ci aveva già abituato, a partire forse proprio da quel suo film disperatamente düreriano (il Dürer, ovviamente, delle litografie) a quel suo apocalypsis cum figuris che era The Addiction, dove montava insieme, attraverso l’inserto di una lezione universitaria ferocemente ballardiana, gli eccidi della guerra in Vietnam, i cadaveri nei campi di sterminio nazisti (“professionisti della sparizione”), con le deambulazioni notturne della protagonista e, nella scena in cui si inietta sangue (invece di droga), immagini di Maddalene tardo-barocche, tutte carne tremula e sudori che colano sul collo di animale sacrificale (pronto per il morso e il contagio), in un montaggio secondo il quale «non esiste la storia» perché, mentre la voce di Hitler fa capolino cacofonica «quello che siamo va sempre insieme a noi», e «la nostra demenziale esistenza si diffonde» (come un morbo presente e futuro, appunto), «in circoli sempre più ampi»: e così le immagini slittano, una sull’altra, infette, morbose, in un b/n che più che riprodurre quello dei film Universal degli anni ’30 sembra alludere alle videocamere di sorveglianza nelle strade della big city (cito Bloch: «l’epoca capitalista ha creato le strade senza fine, tutto un insieme spettrale cosi caduco che ci si meraviglia di trovarlo l’indomani»), grande occhio aperto della notte prima della proliferazione di schermi e visori, dove si deambula afflitti nudi e isterici buscando il proprio naked lunch (come fa Kathleen-Lili Taylor in una strada già desertificata di uomini, quando si contorce invocando la preda che appare all’improvviso fuori campo, saziandola). Il Vampiro in Ferrara non è solo la figura della dipendenza (dal sangue-eroina) ma in un certo senso quella figura proiettata (ossia protesa) e come lacerata, ferita dal reticolo di luce e ombra che l’attraversa, l’unica che, nosferatu, può muoversi non proprio liberamente ma con un incedere caratterizzato da salti, strisciamenti (l’ombra, baudelairiana come l’ala della Speranza nella poesia Spleen), viluppi (il morso, passione di corpi incollati nello spasimo), e motivata-saturata fino all’orlo dell’essere da un impulso dominante (la addiction appunto) walking through di tutti quei frammenti grazie ai quali il processo (della storia; del cinema) fluisce come non concluso (ed ecco perché alla fine, Kathleen è la fanciulla-revenant che getta un fiore sulla sua stessa tomba). Il Vampiro è il revenant dell’Atlas finis-mundi di Ferrara.
Revenant è anche, come vedremo, Cisco-Willem Defoe in 4:44 Last Days on Earth, dove in un appartamento-studio fatto di spazi comunicanti in continuità, l’occhio della cinepresa si muove fra lui e la sua compagna (non solo personaggi, ma punti di appoggio al deambulare caotico dello sguardo), nell’ultima notte qualsiasi del mondo. L’uomo è stressato e commosso fra chiamate skype e sul cellulare, pagine di diario, occhiate alla tv, passeggiate notturne in strada e sulla tettoia del palazzo (dalla quale, come da una Rear Window allucinata e impazzita, si vedono uomini suicidarsi con un colpo d’arma da fuoco o lanciarsi dalle scalinate di sicurezza) e una visita lampo a un gruppo di amici prima che il mondo finisca. La donna invece con la tecnica del dripping sta creando (mentre i colori lanciati si addensano, schiumano, cambiano di tonalità e si incupiscono stabilizzandosi) l’immagine rituale e cosmica, di un Quetzalcoatl, la divinità precolombiana e amerindiana, serpente piumato e stella del mattino (e non doveva essere proprio il 2012 – data di uscita del film -, la data fissata dal calendario mesoamericano come il quinto termine-inizio del mondo, secondo quella peculiare visione ciclica di distruzioni e creazioni periodiche?). Intanto, in mezzo, fra uno e due, c’è di nuovo la colata magmatica delle immagini televisive della rete (schermo tv più che mai bulimico videodrome): fuochi artificiali, un cobra, un crocifisso, San Gennaro (che il popolo superstizioso napoletano utilizzava in processioni paganeggianti-mosse come amuleto contro le sciagure e che da secoli è l’epicentro di un miracolo ricorrente, quello del sangue – appunto -), in un parossismo del tempo consumato e fuori sesto che ricorda un altro film teorico e apocalittico, Strange Days della Bigelow. Prima della solarizzazione finale i due sono stretti in un abbraccio convulso. Poi, il flash bianco. Fine o impossibile traslazione verso un altro punto spazio temporale?
Ferrara sembra, con Siberia, fare la continuazione apocrifa di 4:44, lanciando il corpo sopravvivente di Defoe in una landa gelata e poi, desertica (manifestazione insieme risibile e poderosa di quanto sconfinato possa essere il meramente possibile del pensiero quando viene lanciato fino al suo limite ultimo, diventando capace di saldare insieme – montage, mon beau souci – ciò che si contraddice). Il flash bianco che chiudeva 4:44 è allora, il lampo di distruzione-creazione, vertigo nell’occhio del serpente piumato che offre all’uomo un plus spazio temporale, un raggio d’azione ulteriore; dall’occhio vitreo del serpente simbolo di morte-rinascita fuoriesce una terra restaurata che però è ancora in divenire, in fermentazione, mondo incompleto e difettoso, utopia del cristallo della morte dove cercare residuali segni di vita in una peregrinazione insieme iniziatica e disordinata. Quello che doveva essere l’ultimo capitolo della storia del mondo si apre allora, con sguardo meravigliato, verso ciò che non è ancora chiaro ma appare transeunte e frammentato. In Siberia lo spaccio diClint-Defoe (che sembra uscito da uno dei capitoli della serie The Twilight Zone, quella anni ’80: su ogni oggetto si deposita la muffa non solo del tempo, ma della noia), luogo interstiziale dove si parla a segni, si beve un liquore che sembra un tritabudella, e si gioca con un’unica slot-machine polverosa, è il punto di partenza di una camminata cerimoniale (dopo il contatto fra Clint e la misteriosa donna incinta che rompe l’interdetto che lo spazio tempo oppone alla deriva infinita, simile a quello fra Giuseppe e il ventre di Maria in Je vous salue, Marie di Godard). Clint, su cui la meta, come altri personaggi ferrariani, agisce soprattutto come punto di orientamento da rimettere continuamente a fuoco, pellegrino accompagnato dalla cattiva coscienza, uomo oscurato da un viluppo di sentimenti affettivi non ancora chiariti, si muove attraverso un territorio che è simile a una specie di piramide rovesciata le cui immagini discordanti vengono assimilate in modo impressionistico (e ogni lato della piramide pietrifica): nella piramide, nel cristallo, ammonisce Hegel, abita un morto, un vuoto aborto a cui Clint è legato e di cui deve disfarsi (Ombra del fratello riflessa nelle acque stantie, chete e profonde, del sottosuolo o Corpo del padre, che racconta di una giornata di pesca, entrambi doppi risibili e fatali dello stesso Defoe) sapendo che lo spazio-Siberia (non una coordinata geografica ma, lo ripetiamo, la superficie morta di un cristallo su cui si spalma il verde dell’aurora boreale come una emusione tumefatta e splendente) possiede, come le piramidi, accessi inappariscenti dove si cade come dentro un crepaccio. In questa cave of forgotten dream dove i sogni dimenticati sono grotteschi, stilizzati e violenti proprio come gli animali dipinti sulle pareti paleolitiche, si incontrano non solo i doppi o un impiccato, ma strani festini carnascialeschi, freaks e pasoliniani. Il cristallo è infatti animato da una morte vivente e l’organico è nascosto, occulto o mummificato: nelle tende dei beduini si opera con il bisturi; la copula con la ex moglie avviene in uno spazio spoglio, disadorno, e la cassa colpita dai ragazzi dell’headbanging è la tomba-guscio di Clint-figlio. Ma la piramide riproduce il cosmo: come suggerisce di nuovo Ernst Bloch, nella sua geometrizzazione fanatica, sulle pareti inclinate la perfezione è quella della morte riprodotta cosmomorficamente. Ed ecco che allora in Ferrara compare una spinta opposta e contraddittoria, determinata dai continui rimandi a Cristo, all’organico, allo spazio dinamicizzato di una strada deserta vista come se fosse (secondo l’esempio di Schrader-Scorsese) un’unica, grande navata centrale ricolma di rifiuti e calcinacci: il vagabondaggio di Clint nell’immagine cristallo post-apocalittica deve aprirsi allo slancio ascensionale, alla passio, alla conformità con Cristo, all’esodo come resurrezione dalla tomba: ed è quello che fa Tommaso (a sua volta, in un gioco di scatole cinesi, regista di Siberia), in un cammino penitenziale e quotidiano (il rehab, le liti con la giovane la moglie, il tradimento, l’assassinio) che termina con l’happening (o la sua allucinazione) davanti alla stazione Termini, della Crocifissione. La superficie scalena della piramide, lo spazio morto si rompe così grazie alla spinta a raggiera, propulsiva, aperta, della croce, e nella magica conformità con quello che va inteso come un purissimo simbolo direzionale i cui bracci mirano a uno spazio dialetticamente aperto sui quattro lati. Dal corpo di Clint che vaga disorientato dentro il cristallo lontano dalla vita, al corpo di Tommaso divenuto punto nodale, inquieto e spumeggiante di una trascendenza tutta dolorosamente umana dove l’uomo riesce, logos rivestito di carne, malgrado tutto, e forzando al massimo le aporie della realizzazione, a rigenerarsi in una corporeizzazione di una idea-meta.
Cercando frammenti ferrariani su internet, mi sono imbattuto in un recital dove il regista interpreta una poesia di Gabriele Tinti, Bleedings, dentro la Pinacoteca di Brera e davanti al Cristo alla colonna di Bramante (immagine che si apre ad una costellazione di quadri manieristi e barocchi, fra cui la Cena in Emmaus di Caravaggio): inevitabilmente, i versi terminano per essere un confessione dello stesso Abel, che alla fine dice «il tuo grido mi lascia solo una cavea vuota, una smania di fiato…» L’incompiuto di Siberia solo attraverso il sacrificio può diventare il pre-apparire di uno spazio più umano, forzando un mondo in collasso ad aprirsi verso configurazioni nuove.
Che compito si è dato, allora, l’ultimo Ferrara! Tracciare dentro un mondo esaurito un’immaginaria linea di prolungamento-galleggiamento, verso un delta, un germe di futuro (anche) attraverso le affabulazioni, la deriva sfinita delle immagine-documento video, attraverso le quali l’utopia si rivela, innanzitutto, un incerto problema di verifica.
E siamo di nuovo a Sportin’ Life (titolo che fa venire in mente quello di un magnifico album di Diamanda Galas con John Paul Jones dei Led Zeppelin) dove il cristallo diventa enorme monolito minimale sulla cui superficie liscia appaiono le grinzature delle immagini addensate (come negli Achrome di Piero Manzoni) e termina con tre sequenze emblematiche: una soggettiva filmata da Abel che dice Only me, in un certo senso firmando quanto visto attraverso l’inserzione di un frammento scivoloso di Roma deserta; la scena che in The Addiction mostra l’incontro fra Lily e Cristopher Walken; e la sequenza delle manifestazioni di Black Lives Matter, che terminano con la foto del poliziotto assassino con il ginocchio sulla trachea di Floyd: la macchina da presa zooma fino, sembra, ai genitali del poliziotto, a mostrare il nero, il buco, lo spazio vuoto di questa “parte” fascista e razzista, d’America e, di contro, i disordini, le rivolte di quella parte “giusta” che rivendica, in un mondo (anche, non dimentichiamolo, cinicamente) in lockdown, un diverso orizzonte di valori e una possibilità di trasformazione attraverso la pressione, non pacificabile, non pacificata, dell’utopia.