Atlantide di Yuri Ancarani
Sulla strada bagnata
di Francesco Scognamiglio
Vorrei fosse mia, pensavo ogni notte, prima di crollare per la stanchezza. Il dovere si confonde al piacere durante le visioni dei film in concorso al Festival di Venezia. Una città fantasma che, sotto la luce della luna, offre una desolazione appagante per chi non teme la morte.
Steso su un ponte dietro l’Arsenale, immaginavo: potrei correre ovunque, potrei dormire qui, se lo volessi. Ma questa città non è mia. C’è qualcosa che accade da sempre tra le acque tranquille della laguna, troppo scure per essere oltrepassate persino da uno sguardo.
C’è qualcosa che vince il silenzio e le ombre, a cavallo tra la luce lunare e quella solare.
È così che appaiono, a tutta velocità, i barchini potenziati dei giovani veneziani.
Tra un salto e un atterraggio è un eterno viaggio nello Zenit assoluto.
Ed è proprio a Venezia, durante la 78ª edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica, che il film Atlantide viene presentato. Il regista, Yuri Ancarani, ha osservato e ripreso i veritieri giovani abitanti della città marittima, raccontando per lo più il quartiere Cannaregio e girando il film ha avuto la possibilità di vivere e forse capire cosa spinge questi ragazzi a guidare le autovetture acquatiche chiamate barchini.
Orientato fino a questo momento sul lavoro di videoclip e videomagazine, il regista milanese in questione sceglie un lungometraggio in bilico tra documentario e finzione per raccontare una Venezia che esiste in un impossibile scenario reale.
I personaggi sono apparentemente come tutti gli altri ragazzi del pianeta, annoiati a morte dal loro dover sembrare già adulti, ma su di una barca, di non poco conto, veloce.
Un tempo qualcuno ha fatto 85 km orari. Lo dice il cartello alla fine della tratta di laguna in cui i ragazzi si sfidano. Daniele, Il protagonista è uno di questi ragazzi, ossessionato dal battere il limite. E mentre si prepara a conquistare la velocità si aggira per le acque traghettandoci nel suo mondo nascosto e allo stesso tempo semplice che accomuna molti abitanti delle isole venete.
L’esperienza è accompagnata dai bassi profondi che riecheggiano dall’acqua. “SKYWALKER SULLA BASE”.
Solamente la Trap, il sottogenere dell’hip hop contemporaneo di cui è composta la colonna sonora, riesce a intrattenere e riempire gli involucri vuoti dei loro corpi.
In un’intervista Ancarani dichiara di come si è lasciato trasportare dalla vita e dai principi di questi ragazzi e di come ha scelto di riprenderli nella maniera meno invasiva possibile; una maniera amica. Per questo ha sfruttato per maggior parte del tempo la luce naturale, anche nelle scene notturne dove il colore della luce neon delle barche infuoca i volti dei guidatori1.
L’interesse verso le persone filmate ha trasportato la troupe nei veri luoghi vissuti dai ragazzi (come quello del convento di San Francesco del deserto in cui i ragazzi organizzano feste convivendo con la realtà dei frati).
Lasciandosi trasportare dal film si nota come quello che c’è al di fuori dell’inquadratura trova un suo spazio percepibile nell’immagine. La narrazione, infatti, non può fare a meno di essere a un certo punto interrotta dal documentario. O meglio da quello che dovrebbe sembrare tale. Percepiamo la presenza dell’esperienza filmica che i soggetti ripresi hanno vissuto e in questo modo alcune verità iniziano a venire allo scoperto nonostante la finzione continui a operare senza alcun indugio.
C’è stato un incidente, qualcuno si è fatto male davvero? Maila, la ragazza di Daniele, è uscita di scena perché si sono lasciati. Stavano insieme davvero? Ora Daniele è più ossessionato che mai a battere il limite. Muore.
Muore? La vita e la morte di Daniele erano state ricostruzioni di un fatto realmente accaduto?
Il cinema si fa sentire facendo dileguare il confine tra realtà e finzione.
Gli elementi reali, osservati, analizzati e infine inseriti in un contesto estetico-narrativo ora fanno parte del sistema Film. Gli elementi fittizi, studiati a tavolino e recitati ora sono veli nel montaggio intenti a proteggere la purezza delle vere storie, delle vere immagini.
Risulta infatti chiaro di come l’apparente struttura poser del film (una comoda estetica fashion pubblicitaria) sia accompagnata anche da una ricerca sui punti in cui la realtà si manifesta in quanto metafisica.
Differenziandosi dal metodo anti-film Anna (Grifi, 1975), fondato su di una ricerca documentaristica politica senza distacco, attenta all’evoluzione del contesto ripreso, come spesso è accaduto già in molti film italiani dell’ultimo decennio (La bocca del lupo, Le quattro volte, I racconti dell’orso, Omelia contadina, A Chiara, Re Granchio), in Atlantide tutto confluisce verso il confine labile tra realtà e sogno. Il portale. L’altro rumoroso che stava aspettando di essere visto. Ognuno ha il suo modo di farlo vedere. Ancarani ha scelto di andare sott’acqua e di capovolgere la cinepresa. Percorriamo così il tunnel senza fine di ciò che già c’era sotto la laguna, dentro ognuno di noi.
È tutto mio finché non morirò. E alla morte, quella sensazione di altro che ogni tanto ho posseduto, mi coinvolgerà per sempre.
1Q&A Venezia 78, Biennale Channel, 2021, https://www.youtube.com/watch?v=5SYiPNJXLl8&t=485s