As Bestas di Rodrigo Sorogoyen
Homo homini lupus
di Marco Allegrezza
In Spagna, a Santoalla do Monte, un remoto villaggio rurale della Galizia, nel 2010, accade un tremendo fatto di cronaca nera. Questa vicenda ispirò diverse opere: prima Santoalla, un documentario indipendente di due autori statunitensi, Andrew Becker e Daniel Mehrer, che prende il nome dalla località dove accadde il dramma, poi l’incursione di finzione realista di Rodrigo Soroyen, As Bestas, sfortunatamente inserito nella sezione non competitiva Cannes Première alla 75ª edizione del festival.
La vicenda, ribattezzata dalla cronaca come “delitto di Petin” (piccolo comune sottostante l’isolata microcomunità di Santoalla), vede una coppia olandese trasferirsi nel minuscolo villaggio di Santoalla, immerso nel nulla della natura galiziana, con l’idea di avviare un’attività agricola eco-sostenibile. Segue un evento fatale: entrano in contrasto con l’unica altra famiglia che abita il luogo sperduto, composta da due fratelli e dai loro genitori. L’epilogo è dei peggiori, tanto era l’odio per i due innocenti stranieri visti come colonizzatori, che spinge Juan Carlos Rodriguez, uno dei fratelli, dopo un percorso di minacce e soprusi, ad assassinare Martin Verfondern, il quarantenne olandese. Di occultare il corpo e il veicolo della vittima se ne occupa invece il fratello Julio.
Da questo seme nero di realtà, germoglia l’oscuro e spaventoso racconto di Sorogoyen, come un’ortica che, se ci si avvicina troppo, non lascia indenne lo spirito di chi, angosciato e teso, osserva la battuta di caccia all’uomo.
La coppia olandese nello schermo diventa francese, sono Antoine Denis (Denis Ménochet) e Olga Denis (Marina Foïs). Venuti dalla città, il loro intento è quello di dar luce a un sogno condiviso, che li porta a rifuggire dalla vita urbana per un’esistenza più lenta e naturale. Abitano in un’essenziale abitazione, coltivano degli appezzamenti di terra dai quali raccolgono i frutti per poi venderli al mercato locale, sostentandosi così con ciò che autoproducono. Quando non è il campo ad occuparli, ristrutturano vecchie case abbandonate e diroccate, nel tentativo di riqualificare la zona in abbandono. Esso è frutto di una condizione di vita molto dura causata dalle poche possibilità di un luogo povero e isolato, e dal conflitto generazionale, che vede la rottura finale dell’ingranaggio della prosecuzione sociale, perché i figli e i nipoti non hanno intenzione di spendersi per la vita campestre, tra agricoltura e pastorizia.
Antoine e Olga sperano in una riqualifica che porti al ripopolamento, sia locale che turistico, ma il loro tentativo di riportare in vita una comunità morente e destinata alla diaspora, al nulla, alle macerie già presenti, che i due protagonisti con passione e dedizione cercano di restaurare, non va bene a tutti. Se con la quasi totalità della presenza locale c’è integrazione e si è creato un rapporto di benevolenza e perfino amicizia, l’ostacolo insormontabile lo rappresentano i diritti vicini dei protagonisti, i fratelli Xan (Luis Zahera) e Lorenzo (Diego Anido).
Qual è il motivo di quella che diventerà una lotta a perdita di fiato?
La coppia francese si oppone all’offerta di un’azienda energetica di istallare delle pale eoliche sul territorio, che portano a un indennizzo economico allettante, ma di contrappasso obbligando ad abbandonare l’area. Questo rappresenterà il fulcro vitale di una faida sempre più pericolosa e incessante, tra i (buoni) forestieri e coloro che hanno già firmato l’accordo, i (cattivi) nativi. Le bestie.
Sono loro che danno il nome a questo lavoro, armonico nella sua (dis)grazia, doloroso e spinoso, che pulsa incessantemente nel suo essere così un film di genere, ma anche una rarità rispetto ai classici stilemi del noir e del thriller.
L’opera galoppa e persegue una moltitudine di sotto-tracce, un atlante emerso dal buio, da esplorare con ardito coraggio.
Il dispositivo si manifesta come doppia arma tra condanna e salvezza (videocamera Vs fucile). Consapevole o meno, sembra volgere lo sguardo verso l’esempio della Francia di oggi e di questi anni: le possibilità del video di entrare nei processi e generare verità documentando atti lampanti, diventano minaccia per l’illecito. I due fratelli hanno paura di restare intrappolati per sempre nei frame, con infinte possibilità di replay e diffusione. L’offesa di chi colpisce, la difesa di chi filma.
Chi filma rischia molto, in Galizia tutto.
Le fiamme che alimentano questo fuoco fluttuano tra presente e passato, tracciando fratture incolmabili, scontri generazionali, di estrazione sociale e geografici, reminiscenze dolorose di un colonialismo che seminato il germe ancora oggi vede vivere il virus dell’odio nazionalista.
Stoica resilienza (uber alles), i due protagonisti sono modelli-sentinelle senechiane, sopravvivono e resistono alle angherie che tendono la tela dello schermo quasi a strapparla.
La messa in scena vive di un’alternanza sinfonica di timbro e di ritmo, magistralmente eseguita da scelte registiche sempre oneste e quasi invisibili, veriste, che rispecchiano la lentezza della vita agreste. Il tempo necessario a Olga per affrontare il lutto e tentare di curare le ferite dello spirito è lungo come quello necessario a cercare ossequiosamente il corpo del compagno amato.
La prima sequenza del film è una dichiarazione d’intenti, o una premonizione. Vediamo degli uomini lottare, in ralenti, contro dei cavalli, a mani nude, fino a portare il capo dell’animale a terra, sottomettendo la bestia alla potenza dell’uomo. Sono gli “aloitadores”, i “lottatori”, che fanno parte di una tradizione viva da quattrocento anni che si svolge a Sabucedo in Galizia: si chiama Rapa das Bestas, “tosatura delle bestie”, è una festività quasi rituale che vede impegnati i cittadini nel rinchiudere i cavalli selvatici delle montagne in un recinto, per poi domarli, tagliargli la criniera e marchiarli.
Basta questa selvaggia sequenza per capire il resto del film, che si dispiegherà riportando l’uomo alla sua natura primigenia, in un’accezione puramente negativa, tra la volontà di sottomettere e prevaricare e il timore e la diffidenza verso l’ignoto, l’altro. Lo straniero, elemento di disturbo, di disordine e di rottura della normalità di un ecosistema (pre)esistente.
La macchina da presa si comporta così come all’inizio anche verso la fine, prima ci invita allo shock e poi ci riporta al dolore, alla brutalità senza possibilità di salvezza. Queste due scene madri sono due piani a tre, composti geometricamente, con movimenti lenti, a stringere, sempre di più, fino a soffocare, con un’analogia tra grammatica filmica e azione, mezzo e rappresentazione, significato e significante. Siamo a pochi centimetri dalle bocche dei due animali sconfitti (il cavallo e l’uomo), il secondo è il nostro protagonista, il frame è claustrofobico, sembra quasi di sentire il rumore degli ultimi affannosi e spezzati respiri. Arrivano il silenzio e la stasi, sfinito è il corpo in scena che esala immobile l’ultimo respiro, sfinito è il nostro sguardo verso la scena che ci riporta all’esigenza del respiro.
È nei corpi e nella fisicità che molti confronti, ideali e plateali, trovano luce. Denis Ménochet straordinario nelle vesti del gigante buono e sorridente Antoine Denis, un corpo imponente ma vulnerabile, non in grado di tutelarlo nonostante l’apparente possenza. È quasi frustrante allo sguardo, perché in potenza sembra poter frantumare come un colosso i minuti rivali. A lui contrapposto vediamo il fisico di Xan, dall’impressionante interpretazione di Luis Zahera, nevrotico e spigoloso, bilioso, nutrito e scavato dall’odio, intrappolato in un vortice di malvagia ossessione verso il “francesino” Antoine e sua moglie Olga, questi maledetti vicini che sembrano essere lì per provocarlo, come una sfida divina da superare.
Se i corpi occupano lo spazio scenico, anche l’assenza dimostra di avere un peso specifico.
Il fuoricampo irrompe bruscamente e si interfaccia con la narrazione principale.
La figlia dei protagonisti Marie (Marie Colomb), tenuta a debita distanza dalla faida di confine tra vicini, arriva a destino compiuto per cercare di raccogliere i resti (materni) e le ceneri (paterne).
Potrebbe aprirsi uno spiraglio per un nuovo racconto: quello di una madre che resta sola, con una figlia a distanza, a sua volta con un neonato da accudire. La complessità e l’umanità con cui questi legami materni e di donne vengono dispiegati è un saggio relazionale-pedagogico sull’esistenza femminile. Arriva dal nulla, dopo che il tutto è accaduto e precipitato, e delinea un rapporto tra amore e conflitto profondissimo, dove emerge tutta la forza di Olga: lei prima di tutto è una donna, poi una moglie e infine una madre, capace di gestire pressioni provenienti da qualsiasi parte, una forza ancestrale che proviene da qualche terra sacra, capace di sconfiggere ogni male.
Le sequenze sono come un ordigno atomico, che conservano la tensione con pazienza torturante, sempre sul punto di deflagrare. Lentamente, portano i personaggi in scena e lo spettatore allo stremo, facendoli giungere alla stessa esperienza di morte, una verità che toglie il respiro, prima del trapasso. La visione è anticonvenzionale nella sua assenza di estetizzazione della violenza, tranello di molte tendenze cinematografiche odierne.
Il detto è fondamentale quanto l’omesso, il logos di questa opera è in completa simbiosi rispetto alle immagini proposte. La sua scrittura è una danza armonica, che sa quando incalzare e rallentare, seguendo perfettamente le pieghe della narrazione, che spesso resta muta, persa nel nulla, nei silenzi soffocanti di dolore e in quelli rimbombanti di inquietudine e trepidante ansietà.
I dialoghi sono sempre giustapposti, unità fabbricate su misura, come piccoli tasselli essenziali di un mosaico pieno di ombre.
Un apice viene raggiunto con la scena del litigio tra la figlia Marie e la mamma Olga, in cucina, dove le battute dei due personaggi femminili si tramutano in rabbiose scosse sismiche, che generano faglie dalle distanze siderali, per poi riuscire con il dialogo successivo, a creare un ponte su queste fratture e tentare il tremolante riavvicinamento. La macchina da presa, il mezzo, sembra invisibile, e noi che guardiamo ci facciamo piccoli, restiamo impauriti e impotenti davanti all’alternanza di due forze naturali capaci di superare la rêverie, esplodere il frame e tappare l’ottica della cinepresa ormai persa tra ire e dolori insanabili. C’è chi “ha già perso un padre e non vuole perdere anche la madre” e chi invece non cederà mai al male che gli ha portato via l’amore, il compagno di una vita.
La sceneggiatura possiede poteri ambigui, capaci di far prendere svolte spesso diverse ed opposte, instillare dubbi e far valere con forza posizioni distanti. I confini tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato vacillano, e intimamente, persi nell’abilità della rappresentazione, ce ne vergogniamo, facciamo ammenda, ma continuiamo in qualche modo a pensarci, latentemente, nonostante i sentimenti ci guidino più che mai verso la resistenza, contro gli oppressori.
As Bestas è molto di più che un thriller rurale, è un saggio politico, sociale, personale e interpersonale, nella forma del film di finzione. È una lezione di cinema tout court, dentro e fuori dal genere, è un grido su come dovrebbero essere fatti i film oggi, l’ennesima conferma di un cinema spagnolo alla rivalsa, più vitale che mai, attuale, audace, di ricerca e d’impegno. Nello stesso anno, il 2022, abbiamo esemplari come Pacifiction di Albert Serra, presentato in concorso al 75º Festival di Cannes, con la sua indagine allucinatoria sul colonialismo, e ancora di più, Alcarràs, vincitore dell’Orso d’oro, che dialoga molto con As Bestas, occupandosi del mondo agricolo e della resistenza di piccoli microcosmi, le famiglie, che lottano per continuare a vivere nei e dei proprio valori, accanto alla semplicità della terra, in contrasto con il capitalismo contemporaneo.
Nell’immaginario evocato dall’autore madrileno, si aprono altre confluenze, europee e non. Vengono alla mente i rimandi a noi più vicini, legati soprattutto al principale tema trattato, con Il vento fa il suo giro dell’esordiente Giorgio Diritti. Forti legami e tangenze, negli habitat, nelle atmosfere e nelle dinamiche rappresentate, guidano l’istinto a guardare sicuramente verso il Cane di paglia di Peckinpah, come anche al Boorman di Un tranquillo weekend di paura, dove l’aspro e ruvido scenario naturale è quasi fautore di violenza e brutalità, capace di riportare l’uomo alla sua ancestrale natura selvaggia, la quale muta da palcoscenico ad arena, l’ultimo paesaggio ideale per un duello, tracollo e tripudio, dell’uno e degli altri.
La spaventosa opera di Sorogoyen svela l’odio e il coraggio in una miscela sola che passa attraverso sguardi e silenzi, la tremenda paura delle notti passate in solitudine di una donna col coraggio di mille guerrieri, a pochi passi dai carnefici, impossessati da una violenza atavica che li muove, feroci bestie indomabili, disposti a tutto con nulla da perdere. Poi l’omertà, il silenzio di un paese tenuto sotto scacco dal malefico carisma del boia – il paradosso di un’egemonia del terrore esercitata da un corpo vecchio ed esile -. E ancora, la polizia, in teoria garante della (nostra) sicurezza, posta a tutela dei “buoni” cittadini, spesso non è altro che spinta propulsiva di tetri drammi o, ancora peggio, come Ponzio Pilato, se ne lava le mani e volge il capo altrove. Sarà solo grazie alla tenacia dell’amore infatti, che si arriverà alla giustizia: la vittoria mutilata di Olga.
Come si possono dormire sogni tranquilli?
In questa valle isolata, un habitat divenuto psicotico e terrificante, sembra impossibile, almeno dalla parte dei lesi. I colpevoli invece aspettano solo l’inesorabile destino, ma per lo spettatore il risentimento accumulato durante la visione, non avrà sfogo in un tripudio scenico.
Basta uno sguardo tra donne, tra madri, il resto è chiaro a tutti, fuori e dentro la “mise en scène”, la società degli uomini termina con le loro colpe espiate dal femminile, giunge l’epilogo, finisce il dolore o invece resta per sempre, in primo piano, dentro gli occhi e lo sguardo della tigre vedova, e sembra sopraggiungere una stranezza, un sollievo di giustizia che ha le fattezze di “un solco lungo il viso come una specie di sorriso”.
