ANNETTE di Leos Carax
Bosco di notte
di Daniela Turco
E’ già nella simmetria di un’entrata e di un’uscita di scena dei vari attori e membri della troupe all’inizio e alla fine dopo i titoli di coda di Annette di Leos Carax, che si mostra il nodo che sostiene interamente il film, che parla di una radicale impossibilità a uscire dal registro dello spettacolo, unico orizzonte possibile cui non è dato sfuggire. Al limite, dallo spazio di un palcoscenico ci si può avventurare verso l’illusione di una prossima scena, come fa la cantante d’opera Anne (Marion Cotillard) in una delle sequenze più sospese ed emozionanti del film, quando, mentre è in scena, si muove verso il fondo del palcoscenico le cui pareti si aprono improvvisamente su un bosco, lo stesso che circonda la casa dove Anne vive con Henry (Adam Driver). Lì, tra gli alberi, l’inquadratura inattesa di un cervo semi-nascosto dai rami, riporta al presente un’immagine identica in Brigadoon, sollevando anche qui, in Annette, lo stesso tema drammatico che Vincente Minnelli aveva già affrontato prima in Band Wagon (Spettacolo di varietà, 1953) e, poi, appunto, in Brigadoon (id.,1954). In Spettacolo di varietà già si stringeva vita e spettacolo in un’unica forma, sigillandoli in un unico mondo chiuso, sebbene ancora scintillante, ma solo un anno dopo, lavorando sul materiale fiabesco e sospeso di Brigadoon, il villaggio fatato e per qualcuno dei suoi abitanti, già simile a una prigione, Minnelli si era ritrovato con la furia di un pittore maledetto ad ammassare nel film un’inquietante moltitudine di ombre. Questo era del resto il senso del cinema di Minnelli, dove scorre in sottotraccia una violenza minacciosa e reale, appena dissimulata dietro lo smalto seducente dei colori, che velano la realtà di un mondo dove tutto si divora o viene divorato, secondo la splendida lettura di Jean Douchet sui Cahiers[1], che vedeva nel melodramma minnelliano la ferocia di una lotta dove sogno e realtà si facevano a pezzi a vicenda. Carax, in Annette, del genio di Minnelli – regista da lui molto amato – mantiene il punto di folle convergenza e di conflitto tra musical e melodramma, che anche qui si sovrappongono, mentre spinge il legame amoroso di Henry e Anne dentro la parabola più oscura e abbagliante di Hollywood, aggiornandola con la necessaria durezza politica del testo di Debord sulla società dello spettacolo.
Il bosco incombe come presenza ricorrente nei film di Carax, in Pola X, ad esempio, era la cornice del primo incontro fra Pierre (Guillaume Depardieu) e la fin lì sconosciuta sorella Isabelle (Yekaterina Golubeva), situato ai margini di un bosco notturno dentro il quale, poi, la ragazza fuggiva spaventata, facendolo sembrare più che un luogo reale, la materializzazione di uno strano sogno angosciante. Anche Freud in una lettera all’amico Wilhelm Fliess, in cui gli anticipava il suo testo sull’interpretazione dei sogni, vedeva nel bosco “una foresta senza prospettive nella quale è facile perdersi e da cui si esce attraverso uno stretto passaggio nascosto” l’immagine più prossima ai movimenti sotterranei dell’inconscio e del sogno. E nel film precedente ad Annette, nella sequenza iniziale di Holy Motors, si vedeva Leos Carax risvegliarsi all’interno di una stanza dove il motivo della tappezzeria alle pareti era quello di un bosco fitto di alberi. Il regista, tastando il muro palmo a palmo, trovava, tra un albero e l’altro, “ uno stretto passaggio nascosto” attraverso il quale penetrava all’interno di una sala cinematografica, piena di spettatori immobili, forse morti, forse addormentati. Carax, in un’intervista, aveva parlato di quella sequenza come della messa in scena di un racconto di Hoffmann di cui, al tempo di Pola X, gli aveva parlato Yekaterina Golubeva, attrice in quel film e sua compagna nella vita, in seguito prematuramente scomparsa. Holy Motors non avrebbe potuto iniziare con un prologo più emozionante ed enigmatico di questo, dentro una sala cinematografica tra l’onirico e lo spettrale che annuncia un film composto di una serie di “scene” isolate e a sé stanti, in cui Denis Lavant/Oscar entra ed esce, come dalla limousine –camerino, caricandosi e spogliandosi di identità sempre diverse, senza alcuna apparente via d’uscita o chiave d’accesso, mentre, man mano che il film procede, è il cinema stesso come dispositivo a mettersi a nudo, come macchina celibe dada, come gioco-trappola, insorgendo come fantasma e schermo di ogni proiezione possibile, all’infinito, come feticcio e motore sacro, infine, periferia e centro della visione. In Annette, ritorna la figlia Nastya, che compariva bambina in Holy Motors, filmata dietro a una finestra, con il suo bel volto su cui si riflettevano gli alberi attraverso il vetro; nella sequenza iniziale di Annette Nastya, ora adolescente, è insieme al padre e agli Sparks all’interno dello studio di registrazione, il luogo fisico e concettuale – che si specchia in One Plus One riprendendone il movimento son-image- da cui prende le mosse il film – “…so may we start ”-, che apre un lungo piano sequenza, simmetrico a quello finale, che dall’interno dello studio accompagna tutta la troupe in corteo sui marciapiedi di Los Angeles. A Serge Daney agli inizi degli anni novanta Carax sembrava il solo regista della sua generazione a potersi installare con spavalderia fra passato e presente, fra il romanzesco e un romanticismo, che lo rendeva prossimo a Godard, il regista al cui cinema doveva di più, collocandolo nello stesso tempo in una posizione di intimità estrovertita, nella sua evidente filiazione rispetto a Gance, Demy, Minnelli, ecc…[2]
Oggi si continua a essere grati a Carax, come a Godard, a Tarantino, a Garrel, a Lynch e a tutti i registi che continuano a considerare il cinema e tutta la sua storia infinita come un corpo ancora vivo e pulsante, che non ha mai smesso di pre-occuparci, perturbarci e di esserci contemporaneo. Più di qualsiasi altro regista della sua generazione Carax non ha avuto paura di confrontarsi con autori estremi come von Stroheim, da cui ha preso la violenza organica e il disordine delle pulsioni, al lavoro in Merde (2008) e in Holy Motors, re-incarnate nel suo attore feticcio Denis Lavant, mostruosa, ripugnante creatura che emerge dalle fogne e si nutre divorando fiori, o come King Vidor, di cui trascina più volte nei suoi film (nel corto Sans Titre del 1997 e di nuovo in Annette) alcuni frammenti da The Crowd (1928), come l’immagine finale di un pubblico che ride dentro una sala cinematografica, tra cui i protagonisti, tornati al cinema e alla vita dopo il lutto per la morte della loro bambina. Per Carax, che nell’adolescenza ha passato molto tempo chiuso dentro la Cinémathèque di Parigi, facendovi un’esperienza estatica della potenza del cinema muto, riuscire a riattivarla ancora accogliendo dentro i suoi film alcuni fotogrammi, come qui da The Crowd, significa inserirsi in una genealogia precisa, che accetta l’eredità pesante di un mondo straordinario, pericoloso e perturbante che chiede di farlo vivere e vedere ancora.
In Annette la tensione tra mondi diversi e tra loro distanti (il canto di Anne versus la comicità sarcastico-corrosiva di Henry) si gioca anche attraverso l’incontro/innesto tra opera rock contemporanea – la musica degli Sparks – e una fiaba crudele dove la figlia di due artisti, una cantante d’opera e un comico satirico prende la forma di una marionetta (ideata nei suoi vari stadi da Estelle Charlier e Romuald Collinet), che sembra a sua volta uscita da un racconto di Hoffmann, e che dopo la morte della madre, precipitata in mare durante una tempesta, come per magìa ne assume la voce di cristallo.
Carax ha spesso dichiarato che i suoi film non hanno a che fare con un tema specifico, meno che mai Annette,che era un progetto che gli Sparks gli avevano proposto, ma che se fosse stato proprio chiamato a farlo, lo avrebbe definito come uno studio sulla morbosità.
Il film si conclude nel carcere dove è finito Henry dopo la denuncia, dall’ultimo palcoscenico, di Annette, con un confronto durissimo tra padre e figlia, che diventa umana (magnifica, la piccola interprete Devyn McDowell), solo nel momento dell’esposizione della verità, lasciando abbandonato sul pavimento, come già il burattino Pinocchio dopo la trasformazione in un bambino, il suo corpo di legno.
Si direbbe, allora, che Carax, stia ancora e sempre parlando morbosamente di cinema, mentre lo sta facendo, nel senso di un mezzo come nessun altro, a metà strada – come Annette – tra l’umano e il meccanico, la cui voce, se ascoltata davvero, può venire da molto lontano, perfino dal regno delle ombre, da cui Carax non si fa mai abbandonare, essendo, per sua stessa dichiarazione, l’immagine/ scena primaria di un orfano davanti a uno schermo, la percezione a cui il regista continua ossessivamente a ritornare, perché ogni volta gli fa ritrovare la strada che può riunire tutti i fantasmi che il cinema può risvegliare, quelli di un passato che risale su fino al muto, e quelli più dolorosi della propria vita personale, in un unico, abbraccio commosso, in un movimento di danza, in una sola voce.
[1] Cahiers du Cinéma n° 150-151, dicembre 1961-gennaio 1962.
[2] Cfr. S. Daney, Il cinema e oltre…Diari 1988-1991, Il Castoro, 1997.