Andrés Di Tella e il cinema come autobiografia: Cuadernos e Diarios
di Giovanni Festa
C’è un momento di Heroes y Tumbas di Ernesto Sabato al quale penso sempre quando vedo un film di Di Tella. Martín e Bruno stanno camminando per San Telmo, uno dei luoghi più famosi di Buenos Aires dove è ambientato gran parte del libro, e all’improvviso si imbattono in un anziano che cammina curvo. Uno dei due esclama: “è Borges” ed entrambi si avvicinano per scambiare qualche parola con lo scrittore. Gli chiedono, naturalmente, a cosa sta lavorando: l’autore de El hacedor gli risponde, celiando: “a unos borradores” (si riferiva, forse, al romanzo che non ha mai scritto, o finito di scrivere? ma questa è un’altra storia). Un montaggio di “borradores” (bozze, progetti, appunti) non è, forse, tutto il cinema di Di Tella? E questo non è assolutamente borgesiano? Borges è, non a caso, l’autore più citato da Di Tella (insieme a Piglia, che proprio a Borges dedicò pagine meravigliose -e un corso-) nel suo libro Cuadernos, una selezione di pagine autobiografiche, incontri, fogli di cose viste, non datate (come le pagine dei diari) ma dove tutto è raccontato in prima persona.
Dai Cuadernos (un testo che a sua volta è impossibile non pensare “accanto” ai Diari di Piglia) scaturisce e si alimenta una seconda opera, mista (insieme un montaggio di immagini e una performance dal vivo) i Diarios. Come mi spiega Di Tella alla fine, in ogni caso, “no se trata de una pelicula”; e quando gli suggerisco la parola “borradores” dice che l’espressione è perfetta. Proprio nei Cuadernos aveva scritto:
Il quaderno di appunti, il diario, la lettera, il bozzetto, il borrador, i fogli di lavoro. Figure provvisorie, inconcluse, circostanziali. Un metodo di produzione che può essere un modello artistico in se stesso. L’investigazione come maniera di esprimersi, il processo di lavoro come modo di presentazione. Il quaderno di appunti come forma dell’opera terminata.
La performance avviene in uno scenario nello stesso tempo del tutto semplice, spoglio, ed enormemente allusivo. Al centro, spento, sta lo schermo cinematografico. Sulla destra, uno scrittoio con una piccola lampada. Poi, la platea, con due file di sedie bianche. Sulla prima sedia del lato destro sono posti uno sull’altro, ordinatamente, tre quaderni molto usati con la copertina rigida e nera, un impermeabile e un cappello (come quello di Bogart, di Beuys e, naturalmente, di Gardel): le “appartenenze”, per così dire, del regista, che si materializzerà in due, calcolatissime, pause del flusso di immagini che appaiono sullo schermo.
Il film inizia con delle immagini flagranti, in super 8, con alcuni soldati che avanzano lentamente in una spiaggia lussureggiante del Pacifico: all’improvviso si fermano davanti alla riva e davanti a loro, nell’oceano, esplode una bomba e fuoriesce, mostruoso, il fungo atomico. I soldati rimangono a guardare, attoniti. Mi vengono in mente immediatamente altre immagini che si sovrappongono, invisibili, a quelle del film: Corea in Fiamme di Sam Fuller e La sottile linea rossa di Terrence Malick; il film di Bruce Conner che manipola al ralenti le esplosioni nell’atollo Bikini (che Di Tella inserirà più avanti); ma anche la scena de La Notte di Antonioni quando Lidia-Jeanne Moreau si ferma a guardare il razzo lanciato da alcuni ragazzi, in una spianata della periferia milanese (Antonioni che come sappiamo aveva filmato non la deflagrazione atomica, ma la sua latenza nell’ultima parte de L’Eclissi); una piccola tela di Francesco Guardi che mostra una folla assiepata sotto un portico della Giudecca mentre osserva un pallone aerostatico in volo; le frasi di Kant sul sublime e quelle di Anders sulla bomba; l’immagine, anche quella apparentemente più anodina o violenta, è sempre capace di stimolare l’immaginazione affinché possa produrre immagini-pensiero che, nel film, non ci sono: ma, come spiega Raul Ruiz, insieme al film ne esiste sempre un altro (Ruiz, citato anche lui nei Cuadernos). Anche Di Tella si interroga sempre se e come è possibile, in un documentario, mostrare quello che non ha filmato: «come faccio affinché quello che ho filmato termini riflettendo l’esperienza che apparentemente non ho filmato?».
Borges è presente fin dall’inizio sia nei Diarios che nei Cuadernos: nel primo caso, l’esplosione dell’ordigno nella sequenza iniziale è commentata con la frasi di quel racconto dove tutta la storia del mondo finisce per comporre il volto di un uomo; nel secondo il richiamo è alla fondazione mitica di Buenos Aires: secondo lo scrittore la capitale argentina non viene fondata sulle sponde del Riachuelo, ma nel barrio di Palermo dove è cresciuto; Di Tella, a sua volta, sposta la creazione della città in un altro barrio, Belgrano, dove si trovava la casa dei genitori, quella di una coppia di amici e, di fronte alla seconda, la casa di Norah Lange, la Beatriz Viterbo de El Aleph.
E non è di nuovo El Aleph di Borges a suggerire a Di Tella un’indicazione utile per un cinema “in prima persona”? Borges, nel racconto, ricorre alla prima persona e persino al nome proprio, per dare credibilità alla storia (riflessione che Di Tella raddoppia con il riferimento a Jonas Mekas che dice “I’m not a filmaker, I do not make films! I just film!” proprio come fa Di Tella nei suoi documentari; e in un altro testo fa riferimento a sé stesso come un altro:
«All’altro, a Borges, è quello a cui succedono le cose. Io cammino per Buenos Aires e perdo tempo, forse già meccanicamente, per guardare l’arco di uno portico; Di Borges ho notizie per posta e vedo il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico. Così, la mia vita è una fuga e tutto lo perdo e tutto è dimenticato, o è dell’altro […]. Non so quale dei due scriva questa pagina».
Per Di Tella ogni film è un’autobiografia. Ma è insieme un’autobiografia che si costruisce attraverso una biografia, ossia il racconto della vita di un altro (come non leggere così i film dedicati allo scrittore e filosofo Macedonio Fernandez, al regista Claudio Caldini e ai Diari di Emilio Renzi di Ricardo Piglia?). In un passo dei Cuadernos scrive:
«L’aspetto interessante del meccanismo autobiografico è che, giustamente, permette vedersi a se stesso come un altro. Colui che scrive racconta la vita dell’altro che l’ha vissuta. Nell’autobiografia contemporanea l’identità dell’autore non è un punto di partenza. L’autobiografia si converte in esperienza che permette di sbozzare un’identità. L’identità come qualcosa di contingente, necessariamente incompleto, che muta in forma permanente, in funzione dell’esperienza che si confronta con distinte possibilità».
E viene in mente, naturalmente, Piglia, amico e maestro di Di Tella, quando, nei suo Los diarios de Emilio Renzi, scrive: «Ha la strana sensazione di aver vissuto due vite. Quella scritta nei quaderni e quella impressa nei suoi ricordi. Sono figure, scene, frammenti di dialogo, resti perduti che rinascono ogni volta […] Mi piacciono molto i primi anni del mio diario, proprio perché lì lotto con il vuoto. Non accadeva nulla, non accade mai nulla in realtà, però a quei tempi mi preoccupavo. Ero assai ingenuo. Cercavo tutto il tempo avventure straordinarie»; ma anche il diario di un altro scrittore, l’uruguayano Felisberto Hernández, che si muove tra Rimbaud e Lacan quando, nel suo Diario de un siverguenza scrive: «Non so dove sono io, come sono io, o com’è questo sentimento di essere io… A volte lo sento molto sicuro, e altre mi assalgono dubbi […] Il mio io se ne sarà andato via da me come un padre accusato di un crimine che quando si scoprì che era innocente un figlio uscì a cercarlo nella foresta?».
Nello stesso tempo ogni biografia è incompleta, fatta di frammenti (Di Tella direbbe che si può scrivere solo in forma frammentaria) e contiene un elemento di finzione:
«Nell’autobiografico c’è sempre un elemento di finzione, inevitabile quando qualcuno si racconta a se stesso. È necessario, per lo meno, inventare questo personaggio che io sono, il narratore dell’autobiografia è una costruzione che rivela una verità».
Sullo schermo, intanto, appaiono “giorni felici” (Piglia, sempre lui, direbbe che «Sono visioni, flash inviati dal passato, immagini che perseverano, isolate, senza cornice, senza contesto, sciolte e non possiamo dimenticarle»): un giro su un ottovolante con la figlia Lola; una lanterna kongming che viene fatta volare l’ultimo dell’anno (chissà perché viene in mente la terrazza di 4:44 Last days on earth di Ferrara; più avanti, scopriremo che l’associazione non è così disparata); ma anche, l’ossessione per la morte del regista dopo il racconto della sfida con la malattia mentre sullo schermo scorrono immagini liquide, a un passo dall’amorfo, vagamente leonardesche: la pioggia che sbatte sui vetri, che fluisce in un canale di scolo, trasformando lo schermo da finestra sul mondo a superficie rigata, fluida, disciolta, e poi il mare visto dalle rocce nella sequenza dedicata al grande regista colombiano Luis Ospina recentemente scomparso.
All’improvviso, come abbiamo accennato all’inizio, il diario filmico si interrompe e Di Tella appare sulla scena, leggendo (e non più filmando) le sue pagine “arrancadas” di diario; sfogliando, scegliendo, perdendosi mentre cerca un passo che non trova (ogni performance è quindi potenzialmente diversa) ricordando apologhi cinesi (Chuang-Tse e il granchio) o brevi rivelazioni, come quando racconta di come, grazie ad un taccuino posto sul tavolino da notte, riuscì finalmente a ricordare i propri sogni (proprio come aveva fatto Kerouac, protagonista di un’altra “nota” dei Cuadernos), fino a comprendere che non solo non avrebbe sognato senza il quaderno, ma che è lui, il quaderno, che sogna.
Seduto in quello scrittoio ci fa pensare, nello stesso tempo, al posto da scrivano occupato da Bartleby (curioso, nella sala non ci sono finestre che danno su un muro di mattoni, ma lo schermo cinematografico aperto su un paesaggio che è quello della memoria) e alla stanza dove Krapp riavvolge il suo ultimo nastro. Come il personaggio di Beckett anche Di Tella riavvolge il filo dei ricordi ma invece di utilizzare un dispositivo e ascoltare una voce – la sua che viene dal passato e che spesso non riconosce o considera ridicola – utilizza dei testi che legge (invece che ascoltare) ad alta voce (alcuni presenti anche nei Cuadernos e quindi “raddoppiati” dall’immagine-video): la parola e l’immagine, i Cuadernos e Diarios, finiscono così per fondersi. Come quando, sullo schermo, appare quella parte dei Cuadernos che si chiama “Diario di Londres”, la città dei genitori e dell’infanzia: la casa inglese dove viveva da bambino con un albero nel giardino che Di Tella, nei Diarios, inquadra con la cinepresa fissa (ma sono davvero l’albero e il giardino di cui scrive? E se l’immagine mentisse? Si aprirebbe allora, un abisso che non è solo quello tra immagine e parola, fra visibile e dicibile, ma anche fra vero e falso. Ma perché dubitiamo? Di Tella, lettore di Piglia, lo sa bene: siamo diventati tutti lettori – e spettatori – paranoici, e in effetti aggiunge: «Inizio a filmare l’angolo di strada, case e alberi, senza sapere con esattezza qual era la loro». Poi osserviamo l’angolo di strada dove incontrò sua madre per l’ultima volta: il pezzo di strada di cui avevamo letto passa ad essere, come in un sogno, filmato (ma il sogno è quando lo abbiamo immaginato leggendolo o adesso che lo vediamo sullo schermo, con l’immagine sgranata a causa di un supporto antiquato?): il palazzo che fa angolo color giallo-kodak; la curva della strada; i palazzi (Di Tella dice che potrebbe tornare, qui, a filmare un film).
Nel secondo intermezzo il regista si alza in piedi, e cammina curvo: il fantasma di Beckett, la passeggiatina di Krapp, sembra, per un attimo miracoloso, riapparire sulla scena.
Poi ritornano le immagini sullo schermo, montando la soggettiva da una moto della polizia che scorta il pullman del Boca davanti allo stadio del River; le immagini di un pic-nic; un cimitero ebraico; il brano di Nina Simone da Youtube, registrato integralmente, che recita “I got no country, I got no friends”. Un evento inatteso è l’impronta bianca, quasi ectoplasmica, che una colomba lascia sul vetro di una finestra chiusa. E viene alla mente (sempre per quella latenza che l’immagine conserva dentro di sé) un brano di un altro Diario (più esattamente, il “diario di una borsa di studio”, che è la lunghissima prefazione a un romanzo inconcluso scritto anni prima), La novela luminosa di Mario Levrero. Anche lo scrittore uruguayano osserva con interesse le colombe dal suo balcone quando arrivano, sole o in gruppo, a morire: «Mi chiesi che sapranno della morte le colombe […] La testa di una colomba senza piume né carne è solo becco, enorme in rapporto al cranio». Una sequenza evocativa è quella della performance di un artista e performer giapponese che ricrea per un suo spettacolo la nebbia londinese, ormai quasi del tutto scomparsa. Nella scrittura diaristica non si materializza tutto come attraverso una nebbia? Ad esempio la morte della madre, che Di Tella ricorda dettagliatamente (la scena dell’infarto, nel bagno, finanche il colore delle maioliche) nonostante non fosse presente e che intanto il tempo ha trasformato in ricordo.
È il tempo la vera presenza dietro ogni film di Di Tella; esso può apparire nella scrittura, sotto forma di aforisma:«Mi viene in mente un’idea assurda. Quello che è successo ieri pomeriggio appartiene tanto al passato quanto a ciò che accadde venti anni fa o cinquanta. Quindi il passato non esiste». Può sopraggiungere attraverso il ricordo di una performance alla quale ha assistito e dove l’attrice rivela: «Venti anni dopo incontro un jeans Lee degli anni sessanta di mia madre che è esattamente della mia taglia. Indosso il pantalone e comincio a camminare verso il passato». O nel paradosso raccontato da un amico cineasta durante una lezione all’Università: «Se il tempo è una linea lungo la quale accadono eventi, e il presente è un punto su questa linea, possiamo dire, dato che il punto, per definizione, non ha dimensione, che il presente non esiste».
I Cuadernos, usciti nel 2020, non contengono riferimenti ad una lunga sequenza dei Diarios dedicata alla pandemia (e vengono alla mente quei frammenti di Sportin’ Life di Ferrara dedicati proprio ai giorni del lockdown: frammenti di telegiornale, la messa del Papa e le immagini dall’appartamento romano del regista e della strada deserta filmata dal balcone). Di Tella preferisce concentrarsi su un punto di vista solo personale, e se le strade vuote vicino casa e il punto di vista dal balcone di un palazzo ricordano il film di Ferrara, colpisce il progetto di un film sulla Pampa (lo descrive nei Cuadernos, montando insieme due testi su quelle terre crepuscolari e virtualmente infinite) che “inizia” ricorrendo il grande territorio piano descritto da Saer nel suo libro La Ocasión grazie a Google view, in una curiosa mescolanza di precisione ed effimero.
La politica, alla fine, filtra inevitabilmente nei Diari dell’autore di Montoneros, come nella parte commovente dedicata alla Rivoluzione dei garofani che mise fine, il 25 Aprile del 1974, alla dittatura in Portogallo, mentre insieme alle immagini ascoltiamo la canzone, Grandola, Villa Morena, cantata da alcuni militanti che accompagnano il canto battendo ritmicamente i piedi sul pavimento (sono filmati inviati al regista da Pedro Costa). Questa dimensione di resistenza dell’immagine, di immagine resistente, ritorna rovesciata nelle immagini del popolo vinto, quello tedesco del dopoguerra, che si aggira nella strade di Berlino in rovina; poi la voce over ricorda un altro racconto di Borges su una mappa che finisce per ricoprire l’intero territorio dell’impero che doveva descrivere e che poi viene abbandonata nel deserto, reliquia dell’antica disciplina cartografica. Anche nei Cuadernos ritorna lo spettro di Borges, rievocato attraverso un curioso montaggio che fa pensare anche a Puig (ma anche a Godard): frammenti minimi, “un alfabeto del cinema”, estratti da film su cui lo scrittore scrisse brevi critiche per la rivista Sur:
«C’è un uomo che precipita nel vuoto dalla finestra di un piano alto, ci sono dei gangster che si sparano dentro un vicolo, un pianista che canta una milonga davanti agli occhi di una donna, un maestro di cerimonie che scorre il telone di un teatro, una donna che apre la porta di un negozio, un’altra donna che saluta un uomo con un gesto della mano e un sorriso, un uomo che mormora le sue ultime parole, “Rosebud”»
La storia di un uomo, a partire dal 1895, finisce per coincidere sempre, è inevitabile, con la storia del cinema. Ma se questo è vero molte delle immagini che ricordiamo non ci appartengono, eppure fanno parte di noi e della nostra memoria personale ed è come se ci fossero state impiantate: come i ricordi degli androidi di Blade Runner (che Di Tella rievoca nei Cuadernos) che permettevano loro di credere ad un passato di un altro come se fosse il loro. Ma allora, ragionando per assurdo, la casa di Calle Sucre 3829, quella di La Pampa y Tronador o di Guatemala, Serrano, Paraguay e Garruchaga, la casa dove vivevano i genitori del cineasta, quella di Norah e quella di Borges (e chissà perché viene in mente un’altra casa ancora, quella di Rua Aperana di Bressane), ognuna potrebbe far parte dei ricordi di qualcuno impiantati dentro la memoria di qualcun altro che alla fine li ha assimilati come propri. Il diario, che doveva essere il luogo dei ricordi propri diventa così il luogo dei ricordi di un altro. O meglio, i ricordi di quest’altro si rivelano essere i nostri.
La Tavola vorrebbe illustrare qualcosa di simile. Fingere un film di famiglia per immagini fatta con i ricordi di un altro. Le immagini appartengono ad un album della mia amica Yamila (la vecchia casa di famiglia dove vive si trova in Calle Mansilla -curioso, Di Tella cita Mansilla nei Cuadernos: è l’autore de Una excursión a los indios Ranqueles, che vuole “montare” insieme con El país del diablo di Zaballos per il suo film sulla Pampa) e vengono riutilizzate come se mi appartenessero. È la storia breve dei viaggi di un uomo, un medico, presidente dell’ospedale Rivadavia, pittore, attore in piccole compagnie, amante dei viaggi, per i quali dilapidò gran parte della sua fortuna. Viaggiava con sua sorella, una pianista, maestra e fervente cattolica. Vissero tutta la vita insieme come se fossero marito e moglie. Lei morì cinque anni prima di lui che continuò a viaggiare. Era un collezionista di pipe, ne possedeva centinaia. Tutte le notti, a mezzanotte, si sedeva su una poltrona a fumare una pipa e a mangiare un sandwichito de anchoas. In punto di morte disse: “nunca dejé de sonreir”.
Tutto questo (la crociera, la pipa, i viaggi) da adesso fanno parte anche della mia memoria: se fossi un replicante, potrei credere che questi sono i miei ricordi di famiglia. Se fossi un replicante, non mi crederebbero.