ANANKE di Claudio Romano
Un’infinità in continuo divenire
di Michele Moccia
È come se la finitezza del tutto si abbandonasse all’infinito della creazione. È tutto troppo immenso per uno sguardo e un corpo finiti ai quali non resta che lasciarsi scorrere nel fluire della vita. Di fronte all’opera prima di Claudio Romano, Ananke, si ha come una sensazione di smarrimento, abbacinati, fin dall’inizio, dalla bianca luce di un cielo sconosciuto, che filtra tra gli sghembi, attorti e spogli rami di un paesaggio boschivo di montagna.
Il film di Claudio Romano vive in questa luminosità, mentre nel buio della notte ci si affida ad una lanterna per vedere e vedersi, o almeno alla sommessa illusione che ciò sia possibile; una fioca vampa, forse il cinema, con cui provare a vedere e insieme a fare luce dentro se stessi.
Ananke è un pensiero che parte dall’uomo e ritrova l’uomo nella natura, mentre mi sembra di poter riscoprire in esso l’incontro tra la terra e il cielo, e il farne pienamente parte dell’uomo stesso. Di fronte alla secchezza delle immagini, al bianco e nero, alla semplicità dei piani, a quella ricerca che tende a vedere le cose raccogliersi le une nelle altre, e non può essere altrimenti, mi ritorna alla mente Friedrich Schelling: “Questo sollevarsi alla luce del centro più profondo non accade in nessuna delle creature a noi visibili, se non nell’uomo”. Un pensiero immagine che si accosta, nella consapevolezza rischiosa di mancarle, e tutto ciò si sente, tra ciò che manca, o è, da sempre, venuto a mancare, alla fragilità, alla finitezza e alla solitudine dell’essere uomo e del cinema che prova a restituircele.
In Ananke c’è la ricerca di un legame tra le cose, come se fossero sempre state, da tempo immemore, e dovessero soltanto ritornare a farsi vedere, a ridonarsi allo sguardo, come nella bella immagine delle vecchie scarpe che sembrano riposare sparse sui gradini della breve scalinata, come fossero parte di essi, con lo stesso colore che le unisce ad essi, insieme alla presenza dei fantasmi di coloro che le hanno smesse, nel loro essere ancora lì, presenti.
In quest’opera prima si cerca il respiro dell’uomo e delle cose, si insegue il silenzio, mentre lo sguardo esita sui volti, sugli interni malridotti, sulle pochissime vecchie case disabitate, che si intravedono tra gli alberi dei boschi e l’ondulato profilo dei monti, sulle aperture. L’insistenza di uno sguardo che si sporge fuori da una finestra e si imbatte nella presenza, insistita, di un albero che quasi sembra chiedere a chi lo guarda un riconoscimento. E poi la pioggia, il crepitare dei legni arsi nel camino, il tintinnio di un piccolo campanaccio al collo della capra Ananke, il cui latte è l’unico sostentamento per l’uomo e per la donna sfuggiti al resto del mondo a causa di una contagiosa malattia che porta alla morte.
E quando tutto sembra prossimo alla fine, il paesaggio e i pochi ambienti deserti risuonano del pianto di un neonato dato alla luce e lasciato solo, pianto che richiama alla vecchia abitazione la capra Ananke, scappata, in precedenza, all’uomo e alla donna. Nascita che mi riporta ancora con la mente all’archè schellinghiana: “Ogni nascita è nascita dall’oscurità alla luce; il seme deve essere immerso nella terra e morire nelle tenebre, affinché nasca e si schiuda ai raggi del sole una più bella forma luminosa”. Così l’errare della donna e dell’uomo si ripete, come se la fine non dovesse e non potesse essere altro che un nuovo inizio, per una nuova nascita, per sempre, nella fragilità e nella finitezza di un’infinità in continuo divenire.