AFTERNOON di Tsai Ming-liang
Amore fra le rovine
Daniela Turco e Lorenzo Esposito
Una stanza vuota, con gli angoli ingombri di calcinacci, che la fa sembrare un avamposto estremo delle case diroccate di Stray Dog; nessun mobile intorno, solo due poltrone di cuoio nero accostate, una vicina all’altra, e sul fondo, a richiamare e riassumere contemporaneamente tutti i buchi, gli incunaboli e tutti gli acquari delle case di Tsai Ming, due voragini nel muro, oltre i quali si increspano, battuti dal vento e dalla luce, le cime degli alberi che declinano in profondità in quella che sembra una foresta, o una valle, o un promontorio.
È questo il set precario, deliberatamente dismesso dove Tsai Ming-liang e Lee Kang-sheng “mettono in scena” se stessi, per oltre due ore, in tre riprese successive, senza soluzione di continuità, spalancando un abisso incolmabile, al limite dell’indocumentabile (ma che del documento fa ipotesi ambigua e necessaria: cinematografica), nell’oscuro avventurarsi tra sentimenti e finzione, attraverso le parole di una conversazione ardua e asimmetrica, bucata a sua volta dai silenzi, inceppata a tratti dalla commozione, dalle interruzioni, da una resistenza ineliminabile, che monta come una marea, mentre si scivola insieme a loro dentro la china, di nuovo e sempre lacunosa, di un sodalizio, di cinema e vita, iniziato oltre vent’anni prima con Rebels of the Neon God (1992).
Le fronde degli alberi, dicevamo, mosse dal vento, entrano liberamente nella casa in rovina attraverso le due aperture-finestre, insieme alla luce che si sposta progressivamente dal pavimento al muro, seguendo il corso del sole e la scansione del tempo. È, ancora una volta, il mistero stesso, naturale e insormontabile, dell’organico, la poesia violenta e insondabile dell’elemento naturale, a entrare con gentilezza, penetrando lo spazio del set, ed è sorprendente scoprire che quanto più ci si accosta, nel racconto, ai materiali, fluidi e sfuggenti, di vita e di cinema che hanno sempre costituito il mondo di Tsai Ming-liang e di Lee Kang-sheng, ossessiva stella fissa fin dagli esordi, tanto più si avverte un movimento altrettanto potente, uguale e contrario, che con il progredire stesso della conversazione, alimenta una distanza siderale, che, proviene dall’uso stesso delle parole che, come farebbe osservare Jean-Luc Nancy, proprio nell’atto di rivelarli, di fatto allontanandoli, li ri-vela. Nessuna rivelazione appunto, ma l’accumularsi impietoso di un’ossessione amorosa, debordante, nonostante il tentativo di scolpirla qui e per sempre, soprattutto nei silenzi e nell’incertezza del futuro (“dimmi che film fare”), nell’isteria, quasi paranoica, della ricostruzione di un passato insieme in giro per il mondo…
È certamente il corpo di Lee Kang-sheng a innescare, per averla inscritta naturalmente da sempre, questa resistenza, a opporre a ogni parola, a ogni domanda una dolce, ostinata opacità espressiva, allineata con il suo personaggio, che nell’arco di vent’anni compariva in ogni nuovo film di Tsai Ming-liang, uguale e tuttavia diverso, il suo stesso volto esposto, plasmato e ri-tracciato dalle linee invisibili del tempo, naturale e filmico-documentale, trasformandolo nell’emblema stesso di quel motore oscuro e crudele del cinema, nel marchio della “morte al lavoro”. Anche l’inquadratura fissa, che non ha nulla di museale, è semmai ulteriore inganno, giocando al suo interno un movimento irrefrenabile, vibrante fra l’elettricità delle circuitazioni cromatiche e gli smottamenti del cuore. Siamo qui o altrove? Ci amiamo? Ci siamo mai amati? Tu, mi hai mai amato? E dove andremo? Cosa faremo? Io sono qui, tu ci sei? Ma io sono veramente qui?
Lee Kang-sheng, corpo-attore-maschera-persona-personaggio, forse tra i più misteriosi e meno decifrabili del cinema contemporaneo: “Sei forse l’attore più strano che sia mai esistito…”, gli dice a un certo punto Tsai, che definisce il proprio lavoro come una serie di occasioni, di “incidenti”, forse capitati per caso, e tuttavia guidati potentemente proprio dalla presenza del volto di Lee Kang-sheng, che gli aveva imposto, allora e sempre, di essere filmato (volto qui avvolto nell’ombra, quasi a segnalarne ancora l’indecifrabilità).
E se ci sono nel lavoro di Tsai Ming-liang echi di molti altri mondi, lontani e affini, Pasolini, Fassbinder, Truffaut, tutti registi disperatamente impegnati a incrociare gli sguardi con la vita, per mostrarla, prenderla nel vivo, assorbirla, forse nessuno di loro, come ha fatto Tsai Ming-liang, ha mai costruito un intero film, Il fiume, a partire dalla malattia reale del proprio attore, filmando le sue visite e i tentativi sempre più angoscianti e inutili di curare il torcicollo cronico e “reale” di Lee Kang-sheng.
Malattia, morte, lacrime, reticenza, e il sottrarsi vertiginoso di un cinema che quanto più si avvicina alla realtà tanto più ne è respinto, ellitticamente, un cinema che quanto più si apre e si racconta tanto più è destinato a sottrarsi in se stesso, materialmente fisico e metafisico, inaccessibile e segreto. È questo forse il dono più prezioso e doloroso di Afternoon, titolo dolce e amaro che fa pensare ai passaggi temporali e alle stagioni di Yasujiro Ozu, dove, come qui, sono gli attimi quotidiani qualsiasi che si scoprono definitivi e già persi nella stretta del tempo…