AMERICAN SNIPER
Due articoli sul nuovo grandissimo film di Clint Eastwood.
1.
Pedagogia di un eroe
di Edoardo Bruno
Here he lies where he longed to be
Home is the sailor, home from the sea
And the hunter home from the hill .*
Robert Louis Stevenson
Possiamo definire American Sniper di Clint Eastwood un esempio di ‘teatro’ didattico nel senso brechtiano (o anche nel senso didascalico di Benjamin) cioè pedagogico, proprio come una pedagogia dell’eroe, un conoscere, nell’analizzare la causa di un fatto, la coscienza del mondo in cui vive (Rossellini), la ragione politica di una educazione al delitto.
Eastwood conosce bene l’America con i suoi conflitti (Home From The Hill), il Texas, le sue azioni violente, l’impeto alla vendetta, la funzione repressiva della protezione di gruppo. Il film nasce dopo l’11 settembre, quando New York si ‘sveglia’ nella sua fragilità indifesa e gli USA si sentono colpiti nella loro incolumità, come in un affronto loro che hanno attraversato la guerra senza conoscere gli effetti dei bombardamenti. Vendicare questo affronto, colpire e distruggere il presunto avversario significa mobilitarsi contro un ‘diverso’ ,in questo caso contro l’Iraq, accusato di preparare un guerra atomica contro la civiltà. Il protagonista Chris Kylee, per gli americani è la leggenda, l’eroe che in quattro missioni stermina uno ad uno 166 irakeni , come cecchino della SEAL (le sue prime vittime sono un bambino e una madre) in una epica non epica di una guerra, non ancora come in Good Kill (visto a Venezia) telecomandata, ma, siamo all’alba del 2000!, affidata alla precisione di tiratori scelti, lungamente addestrati in allucinanti e violente lezioni di guerra. Eastwood scruta i gesti, le azioni, i movimenti di questo ‘eroe’, e le sue pause d’amore nella sua presunta umanità, vede il marcio senza diagnosticarne la follia, ma più politicamente registrando la violenza irrazionale dei suoi comportamenti che lo portano, ad essere ucciso, in patria, da un ex militare, affetto da stress, che voleva recuperare. Chiuso in se stesso, senza retorica, ripetitivo nelle scene di una guerra senza emozioni, il film termina con il lungo piano-sequenza di un funerale nella autostrada, invasa da macchine della polizia nella luce insistente e allucinante, dei rossi e blu dei lampeggiatori
* “Qui riposa dove voleva essere il marinaio a casa al ritorno dal mare e il cacciatore al ritorno dalla collina.”
2.
La morte a distanza
di Alessandro Cappabianca
La distanza. L’avvistamento. Lo sparo. Un corpo che d’improvviso si abbatte.
L’analogia tra macchina da presa e arma da fuoco è sempre stata nel DNA del cinema americano, tra war-movies e scene di caccia, tra western e film di gangster. Il colpo (letale) percorre la distanza in un attimo, la rende insignificante senza annullarla, come se lo spazio stesso, il fatto stesso d’essere identificabili in uno spazio, uccidesse.
Nei war-movies in particolare, quando si filma una battaglia, nessuno muore se non è inquadrato dall’obbiettivo (della mdp), e dunque ogni entrata in campo, ogni inquadratura in cui compare, rappresenta, per il personaggio, un potenziale pericolo – si sa che la morte, indipendentemente dal coraggio e dalla qualità dell’addestramento, può arrivare in modo casuale, all’improvviso, da un colpo sparato magari a casaccio. Difficilmente, nella guerra moderna, il nemico si incontra – spesso neanche lo si vede, per quanto, in un film, campo di battaglia e campo dell’inquadratura coincidono.
Solo per certi soggetti forniti di doti particolari, come Chris Kyle, il cecchino americano soprannominato “la leggenda” per l’infallibilità della mira e il record di nemici ammazzati, sembra che il caso non c’entri. Kyle sceglie un punto d’osservazione elevato, da cui possa inquadrare una porzione sufficientemente ampia della zona di battaglia, un punto che dunque coinciderà quasi sempre con quello che la mdp occuperebbe in modo ottimale : il punto di vista dell’inquadratura, allora, sarà quello stesso del tiratore, quello stesso da cui si genera la minaccia mortale, e si evidenzia l’analogia mirino del fucile/mirino della mdp (non a caso si vedranno a un certo punto, su un apparecchio TV, le immagini girate da un cecchino che ama filmare le sue vittime mentre le uccide).
E’ anche evidente, non solo per ragioni inerenti alla biografia familiare di Kyle, l’analogia con la Caccia. Non si tira a sagome di cartone, come in un tiro a segno, ma su bersagli viventi, siano animali o esseri umani – e qui, incidentalmente, possono essere bambini o donne. Ad ogni colpo riuscito (ad ogni morto) una tacca sul fucile, e se ne possono collezionare centinaia se, come Chris, si è abbastanza abili, abbastanza freddi.
Il fatto è che non lo si è mai abbastanza. C’è un cecchino rivale, altrettanto abile, tra i guerriglieri iracheni – in realtà è un siriano, già campione di tiro alle Olimpiadi. E’ una figura reale (si chiama Mustafà), ma è anche il fantasma di Kyle, il suo Doppio, che gli mostra, senza l’alibi del patriottismo, le radici insanguinate dell’interminabile carneficina.
Kyle 1 e Kyle 2 non si trovano mai faccia a faccia. Si scambiano colpi a distanza di chilometri – ma Kyle 1 potrebbe impazzire, se non riuscisse a eliminare il suo Doppio. Per questo tenta il colpo disperato, indirizzando verso il contro-campo virtuale il proiettile fortunato, che colpirà forse il bersaglio dopo una lunga traiettoria, filmabile in una sorta di ralenti.
Assieme al rivale, però, non scompare il fantasma. Subito dopo, si scatena l’apocalisse d’una battaglia generalizzata, della quale, in mezzo a un’improvvisa tempesta di sabbia, non si riesce a vedere praticamente nulla: solo frastuono, grida, bagliori e furore, in mezzo a uno schermo invaso da polvere gialla – le immagini si cancellano, svaniscono nell’invisibile. La guerra si rivela come un accecamento oscuro, malgrado gli apparenti alibi ideologici, in uno tra i film più straordinari di Clint Eastwood.