Al borde di César González
Immagini di un futuro negato.
di Giovanni Festa
“I wanna try to nullify my life” canta Lou Reed in Heroin. Può una tale pulsione di morte impadronirsi di più della metà del popolo di una nazione? È quello che accaduto domenica 19 novembre in Argentina: l’anarcocapitalista Javier Milei, leader di una coalizione “libertaria”, e in realtà liberalista radicale discepolo delle scuole economiche più conservatrici come quella di Chicago, mescolate con le idee negazioniste, razziste e classiste dell’estrema destra, ha vinto le elezioni presidenziali contro il rivale peronista Sergio Massa.
La campagna elettorale di Milei (e della sua vice, Victoria Villarruel, che Vox e Fratelli d’Italia conoscono benissimo) è stata tutta incentrata sull’idea di una futura privatizzazione selvaggia di ogni settore dello stato, l’odio di classe, la riscrittura della storia, progetti irrealizzabili (la dollarizzazione). Milei ha utilizzato tutto il tempo quelle che Simone Weil chiamava “parole maiuscole” e, riferendosi a una “cultura di destra”, Furio Jesi chiamava “idee senza parole”. Nel primo caso si tratta di parole a cui niente di reale può davvero corrispondere perché non significano niente e per le quali gli uomini, a furia di ripeterle, accumuleranno rovine su rovine e spargeranno fiumi di sangue; nel secondo, si tratta di luoghi comuni, stereotipi che non hanno bisogno di essere compresi per operare. Si tratta di concetti tangenti che, poveri di significanza reale e sovrabbondanti di segno, proliferano in una società post-ideologica, resi ancora più sdrucciolevoli e inafferrabili dalla rete e dai social network.
Queste idee hanno trovato in Argentina (come già in Brasile, negli Stati Uniti, in Italia, per fare solo alcuni esempi) terreno fertile. Ma nel caso di Milei, queste idee senza parole, tipiche di un pensiero di destra, si associano con un melting pot di esoterismo (la sorella Karina è un medium che vendeva torte), complessi irrisolti, economia selvaggia, riferimenti al mondo dei comics (in un meeting è apparso travestito da Ape man), e una recente conversione all’ebraismo. Non tutta la società argentina, però ha votato quello che chiamano “El Loco”. E c’è un regista che quest’altra Argentina subalterna e creativa, marginale e produttrice di valori “altri”, in febbrile contraddizione con la vulgata del potere neoliberale e fascista, ha deciso da sempre di raccontarla: il suo nome è César González.
Al Borde è stato girato durante il mese che ha preceduto le elezioni presidenziali, prodotto da una radio popolare, Futurock, e grazie al supporto di donazioni da parte di più di 800 persone.
César, ripetendo il gesto paradigmatico di Pasolini in Comizi d’amore, con un apparato ridotto a una macchina da presa portatile e a un microfono, accompagnato dal suo attore preferito, Alan Garvey (cantante rap e autore di un interessante corto, Caotico), fa domande, ma non interviene, ascolta, ma senza commentare le preferenze elettorali degli intervistati. Presto capiamo che i veri temi del film sono altri e che, al di là dell’inchiesta da cinema verité, il cineasta mostra il ritratto di una società sotto attacco non solo dall’ultra destra ma anche, per esempio dall’aumento vertiginoso dei prezzi causato dall’iper svalutazione della moneta argentina e, allo stesso tempo, individua l’unica barriera possibile contro il collasso: la coscienza politica, il lavoro, la solidarietà, le associazioni e i movimenti civici. Ed è qui che interviene il secondo riferimento di César dopo Pasolini, ovvero Jean-Luc Godard che, in una Histoire seule dice: “Sì, la notte è giunta. Appare un altro mondo, cinico, analfabeta, senza memoria, disteso, piano, come se fosse stato soppresso ogni prospettiva, ogni punto di fuga”. Come costruire nuove prospettive e creare punti di fuga che permettano di organizzare orizzonti possibili? Come scardinare il racconto unitario del potere, che non permette aperture? Costruendo immagini che siano, allo stesso tempo, giuste e resistenti, e articolandole attraverso le gai savoir del montaggio che ci permetterà scoprire come gli oggetti di una prassi (la militanza) siano anche oggetti di una passione; passione e prassi passano, infine, attraverso un atto di sopravvivenza.
Il film inizia con la ripresa di uno dei discorsi “tipici” di Milei: i desaparecidos non furono 30000 (o 30400, per essere più precisi, e probabilmente molti di più) ma poche migliaia: è il discorso negazionista dell’estrema destra, che vuole riscrivere la storia trasformando il genocidio perpetrato dalla Giunta militare dal 1976 al 1983 in “eccessi” dello stato contro i “sovversivi”. Alla voce di Milei se ne aggiunge un’altra: un uomo che delira su Peron e aggiunge che “i poveri non lavorano”. Seguono i primi corpi: quelli che si lamentano di un governo populista che “non ti permette possedere nulla” e ammettono di voler provare “qualcosa di nuovo” (cosa letteralmente smentita dai fatti, dato che Milei, per vincere le elezioni, si è subito alleato con la cupola di potere della vecchia destra argentina) e gli altri, che dicono che in caso di vittoria dell’esponente dell’ultra destra, “va a salir lo peor de lo que somos como especie”. Il film è un concerto di voci e di corpi che si susseguono, secondo il ritmo dell’accordo o dell’antitesi. Ma è, anche, un montaggio di immagini, che formano, a posteriori, sequenze. Una prima sequenza è quella delle strade, intese come spazio di aggregazione dove si raggruppano le manifestazioni popolari, per esempio la marea verde delle donne per la legge a favore dell’aborto; il picchetto dei popoli originari contro il saccheggio e la privazione delle loro terre; la vita quotidiana nella Villa 31, dove poi un gruppo di ragazzi, nella casa di una di loro, fa un bilancio del governo precedente e racconta speranze e paure future. Ma la strada è anche spazio soggettile graffittato (per esempio dai murales di Messi o di Mafalda e dalle scritte con lo spray) o saturato dai manifesti che diventano una seconda pelle, lucente e patinata o subito caduca. Uno è particolarmente creativo, e mostra l’alternativa fra due mondi: quello terminale degli zombie del kirchnerismo (con il candidato presidente Massa e, dietro di lui, il governatore della provincia di Buenos Aires, Kirchiloff) e quello sereno dei due esponenti de “La Libertad avanza”: questa seconda immagine fa pensare, involontariamente, al celebre quadro di Grant Wood American Gothic: forse gli esperti di marketing di Milei non sapevano che l’opera era una satira della vita degli americani e per alcuni la rappresentazione di un complesso edipico soggiacente.
Altre immagini, articolate secondo l’idea di un montaggio ritimico e iperveloce sono la copertina satirica di un settimanale; una scritta peronista (Lucha y vuelve); un’edicola con La Repubblica di Platone; un piatto di fagioli; un quadretto con scritto “drama” (che ritorna con funzione di leitmotiv); una pala abbandonata nel cemento fresco (allusione alle opere publiche che Milei vuole “congelare”?); un ragazzo che raccoglie cartone (Cesar ha raccontato l’odissea e il riscatto di uno di loro in Que puede un cuerpo?); un Cristo disteso e sofferente; gente che cammina nella strada; i palazzi del centro, sede del capitale finanziario; una scritta, “Fuera FMI”; alcune banconote; la testa tagliata del Battista; la giustizia bendata: Pathos e denaro, marginalizzazione e potere, allegoria e quotidiano, si raggruppano una costellazione benjaminiana (e di nuovo, godardiana) satura di forze.
Un’altra sequenza è quella dei prezzi, nei cartelli esposti fuori dai fruttivendoli o macellai: prezzi, in ascesa costante, numeri oscillanti, stregati da una svalutazione senza fine.
Il montaggio nel film, oltre che per costellazione, lavora anche per “attrazione”: è l’influsso di una certa idea di cinema eisensteniano, dialettico e politico, che riecheggia per esempio quando, dopo il riferimento ad un “paese dollarizzato” si vede l’assassinio del candidato presidenziale in Ecuador (che nel 2000 è passato al dollaro); un manifesto con la scritta “tu vida vale mucho” e una donna senza una gamba; i ragazzi di una scuola privata con le loro divise e una donna che vende fiori; un giovane che parla del voucher (il fantomatico “bancomat” promesso da Milei) e un carretto trainato da un cavallo; una ragazza trans che parla del “cupo de trabajo” (il governo Fernandez ha creato una serie di posti di lavoro per la comunità trans) e la vicepresidente Villaruel che si scaglia contro il linguaggio inclusivo in nome della “purezza” della lingua spagnola.
La sequenza più importante è, però, quella del lavoro inteso non solo come forza di sopravvivenza e improvvisazione creativa, ma di coesione, solidarietà e sviluppo. César filma il lavoro instancabile nelle villas, quello degli ambulanti, o nelle piccole cucine popolari; e poi quello, solidale e collettivo, di una cooperativa di Tucuman che insegna a costruirsi una casa con materiali di scarto; o i vicini di barrio che costruiscono insieme fognature e canali di scolo; fino alle immagini delle industrie del petrolio, che Milei vorrebbe privatizzare.
Alla fine il contrasto espresso dal montaggio si esprime nella grande contraddizione finale fra due idee di società: quella aperta e solidale del governatore Kirchiloff, in un giorno di sole, durante una grande manifestazione in una zona della provincia di Buenos Aires a quasi totalità peronista, La Matanza; e quella dei manifestanti pro-Milei, ripresi di notte, come se fosse solo quello lo spazio possibile dove possono attecchire le “idee senza parole” e i discorsi dell’egoismo e del sonno della ragione. Durante la sequenza girata in un porto, vediamo un operaio che, davanti alla macchina da presa, dimostra di avere ben chiaro la differenza fra questi due mondi così antitetici: da un lato un progetto di paese basato su produzione e lavoro, che vuole “generare”; dall’altra un’idea perversa di speculazione, che vuole “apostar” (scommettere) e depredare. Nel frattempo Milei è salito al potere, dopo quello che molti considerano un “golpe de estado democratico” e sta conducendo un atroce esperimento sociale. L’Argentina, che il film aveva immaginato “al borde”, sul precipizio, è adesso caduta in uno scenario da incubo dove si sommano la vecchia formula del saccheggio ultraliberale con quello della repressione selvaggia. Oggi più che mai servono voci libere come quella di César, e quelle delle voci e dei corpi che ha filmato e non smette di filmare, e che ci permettono di pensare a scenari alternativi di critica, lotta e resistenza. E a pensare che non bisogna smettere di coltivare la passione, cercando nell’altro quello che aiuta a riempire e colmare la nostra, costitutiva, mancanza d’essere.