Abitare l’esilio. Promised Lands e Exiles Intérieurs di Amos Gitai
di Daniela Turco
Ormai da molti anni Amos Gitai all’impegno nel cinema continua ad affiancare l’allestimento di installazioni e di spettacoli teatrali, entrambi in stretto ambivalente rapporto, tra continuità e scarto, con i suoi film e con i materiali che ne fanno parte. Un particolare rilevante nelle sue installazioni, è dato dal fatto che siano spesso collocate all’interno degli spazi meno visibili o praticati dei luoghi istituzionali – musei o altro – in cui si trovano, in Europa e altrove. Questa scelta di privilegiare spazi dismessi o ai margini di luoghi espositivi ufficiali, era avvenuto per esempio nell’impressionante installazione Citations, allestita da Gitai nel 2009 a Bordeaux all’interno di una base navale ora in disuso, ma attiva durante la seconda guerra mondiale, in Traces, che nel 2010 occupava i sotterranei del Palais de Tokyo a Parigi, luogo in cui durante l’occupazione nazista di Parigi erano stati raccolti i beni confiscati agli ebrei, e in Architetture della memoria, allestita nel sottosuolo, di nudo cemento e con i contrafforti d’acciaio a vista, altrimenti invisibile, della Mole Antonelliana – originariamente una sinagoga – a Torino nel 2011. Si crede che questa scelta insolita e reiterata, operata dal regista sullo spazio, abbia a che fare per Gitai con una disposizione verso gli aspetti meno prevedibili della ricerca, molto vicini all’approccio di un sito archeologico dove si tenta di portare alla luce ciò che è nascosto, perduto, o che si crede non meriti di essere visto.
Quest’anno Gitai, lavorando tra febbraio e aprile su un doppio fronte, ha portato a Firenze l’installazione Promised Lands, all’interno della sala d’Arme di Palazzo Vecchio, e l’atto unico Exiles Intérieurs, presentato in due serate consecutive al Teatro della Pergola in coincidenza con la conclusione dell’installazione.
Promised Lands, è la risposta di Gitai alla città di Firenze che lo aveva invitato a immaginare un’installazione per accompagnare il summit tenuto in città dal 23 al 27 febbraio dedicato al tema dei destini umani dei popoli che, tra passato e presente, vivono nell’area del Mediterraneo. Si tratta di un’opera aperta, plurale, attraversata da una ricchezza di contraddizioni che la rendono frammentaria e nello stesso tempo coesa, concentrata e dispersa, trascinante nel suo stesso movimento, che riflette in profondità sulla migrazione a cominciare da quella stessa delle immagini, che trasformano lo spazio spoglio della sala d’Arme, dai muri in pietra e dal soffitto altissimo, in un viaggio misterioso, ipnotico-onirico, che diventa un’interrogazione politica.
Continuando a rivolgersi alla sua formazione di architetto, abituato a lavorare con pochi elementi essenziali, il progetto dell’installazione sembra squadrato e lineare solo in apparenza, mentre ricostruisce, invece, la realtà stratificata di una molteplicità di esperienze, legate al movimento di popolazioni, spinte in tempi diversi dalle guerre o dalla necessità alla ricerca di un nuovo luogo da abitare. Un tema urgente e sempre contemporaneo che si rispecchia nel fluire delle immagini che, in migrazione, a loro volta, dai film di provenienza, trovano nel montaggio una nuova interazione tra loro.
Per costruire questo emozionante work in progress (lo spettatore si può sedere all’interno della sala e farsi avvolgere dal loop di una visione-meditazione-viaggio della durata di circa un’ora), Gitai si è rivolto al suo archivio cinematografico personale – con una prassi foucaultiana di incontro fra tracce di realtà e archeologia del sapere -, per comporre un montaggio di suoni-immagini completamente inedito, che viene proiettato su tre delle pareti della sala: un intarsio risonante di sequenze prese dai suoi film, tra cui Kedma, Field Diary, Lullaby To My Father, Tsili, The Book Of Amos, The War Of The Sons Of Light Against The Sons Of Darkness, Kippur, ecc., che a loro volta interagiscono con una serie di fotogrammi da altri suoi film, tra cui Esther, A Tramvay in Jerusalem, Roses à crèdit, Kippur, ecc., stampati su lastre nel formato di un quadro e sospese orizzontalmente in aria con dei fili agganciati alle volte.
Secondo l’orientamento dato dalle luci al fondo della sala, le stampe dei fotogrammi, proiettando la loro ombra sulle sequenze che scorrono sulla parete di fronte, creano l’illusione di una scala fatta d’ombra, che sale dentro alle immagini, sovrapponendovisi, come una specie di via d’accesso o forse di percorso di fuga, all’interno del campo prospettico.
Lo spettatore, guardando verso l’alto, si trova così a fronteggiare i fotogrammi su lastra, che lo sovrastano e che appesi in file regolari seguono il perimetro rettangolare della sala, mentre di fronte e da entrambi i lati viene contemporaneamente avvolto dal sonoro e dalle immagini in movimento, proiettate, sui muri. Ci si trova così immersi in un’esperienza che emoziona e nello stesso tempo destabilizza, mentre da sperimentale-percettiva si fa politica attraverso lo stesso processo di montaggio cui è affidato il compito di una ricerca dell’umano, da scoprire nei volti, nei gesti, nel sound mescolato delle lingue diverse. Sono tutte immagini e suoni in esilio, ammassati insieme, sospinti in una migrazione permanente, che ci prende perché ci riguarda e che diventa in sé una via d’accesso verso i sentimenti, le speranze, la paura e i sogni delle persone, dentro a un processo di deterritorializzazione, che è la forza e il senso stesso dell’installazione, non lontano da quelle operazioni di spostamento e di condensazione, proprie del lavoro onirico.
La madre del regista, Efratia Margalit Gitai aveva studiato a Londra con Anna Freud, e nell’opera del figlio Amos ci sono continui riferimenti alle figure per molti aspetti straordinarie di entrambi i suoi genitori – ben oltre i due film a loro espressamente dedicati: Carmel e Lullaby To My Father – e anche se il mondo della psicoanalisi non viene mai chiamato esplicitamente in causa, la pressione di una dimensione inconscia si fa continuamente sentire come invisibile rovescio che pesa sulle immagini e chiede allo spettatore di essere elaborata.
Sia nell’installazione che nello spettacolo, Exiles Intérieurs, Gitai insiste molto su certe sequenze-chiave (come la visione del paesaggio visto dall’elicottero in Kippur, o sullo scorrere delle rotaie in Lullaby To My Father) o sui dettagli di alcune immagini (splendido l’incontro ravvicinato con il volto e le lacrime di Sarah Adler in Tsili) o di primi piani sonori (la voce off di Jeanne Moreau, che legge una lettera drammatica di sua madre Efratia, all’inizio di Lullaby To My Father), che, prelevati dal loro contesto, vengono immessi in una nuova catena di ri-significazione, resa possibile da un lavoro di inventario, caro a Gitai (Devarim, appunto, “inventario”, era il titolo di un suo film del 1995), che si fonda sull’idea di archivio – ancora Foucault -, integrato dalla tradizione dell’ermeneutica ebraica che appartiene al contesto familiare del regista e alla sua formazione teorica. Non sorprende che Gitai da diverso tempo faccia procedere la propria linea di ricerca di pari passo con il proprio archivio (dal 2014 il regista ha anche avviato negli Stati Uniti una collaborazione con l’Università di Stanford, che ne ha appunto acquisito l’archivio, con la digitalizzazione di tutti i materiali), un metodo teso a coordinare in un progetto comune film, materiali, prassi politico-culturale, riattraversamento delle proprie opere e della memoria familiare, organizzati in un vero e proprio palinsesto, disponibile a ricercatori e a studenti.
Jean-Luc Godard ha sempre fatto osservare che era la pellicola – il cinema – la sua vera terra, e se Gitai, continua a considerare Israele, dove è nato, ancora il suo paese nella scelta di affidare le proprie immagini ad archivi diversi, sparsi per il mondo (al Moma di New York, al Centre Pompidou a Parigi, alla Cinemateque svizzera, all’università di Stanford ecc…), si avverte comunque diffusamente, la persistenza ostinata – genealogica – di uno sguardo apolide, che resiste e si mantiene attivo, come segno fertile della diaspora, a testimoniare una vocazione nomade, insieme a fragilità, dubbi, scetticismo, gli elementi essenziali del pensiero critico.
In questa chiave, il dono segreto di questo mosaico irregolare che fluttua alla deriva in Promised Lands, sembra quindi coincidere con la ricerca di un’apertura verso un mondo altro, finalmente diverso, che forse, in questo nostro tempo, sembra ancora irraggiungibile, il cui accesso, tuttavia, rimane sempre possibile in ogni istante come Benjamin aveva scritto della venuta del Messia.
Per Gitai, allora, continuare a cercarlo, significa tornare a sostare sulle lacrime, sulle lingue perdute e sulle ombre, rimettersi in ascolto delle parole di Jeanne Moreau e di quelle di Hannah Schygulla in Golem, L’esprit de L’Exile, degli affondi della musica klezmer in Kedma e in Lullaby To My Father, accettare di incontrare ancora gli sguardi insostenibili dei profughi palestinesi in Libano di Field Diary, le parole splendenti in poesia di Leah Goldberg in Lullaby To My Father, la sofferenza e la povertà dei lavoratori filippini in Pinepple. Significa anche non smettere di ritornare sull’urlo del palestinese Youssouf in Kedma che è il grido stesso della Palestina che continua, ancora oggi, a sfidare Israele: “Noi resteremo qui malgrado voi come un muro, generazione dopo generazione…”.
Di questa moltitudine di immagini disperse in costellazione, in Promised Lands, nello spettacolo Exiles Intérieurs restano poche tracce, ridotte all’essenziale. Anche qui, al Teatro della Pergola, come nell’installazione, sono state utilizzate le sequenze di alcuni film di Gitai: Berlin-Jerusalem, Kippur, Lullaby To My Father, Promised Land, Tsili, proiettate sullo schermo nel fondo del palcoscenico, ma la scena dominante è tutt’altra.
Per riflettere sugli esili interiori, indicati nel titolo, Gitai ha operato un montaggio altrettanto essenziale delle attrazioni, questa volta a partire dalle parole, che entra subito nel vivo dello scambio di lettere tra Thomas Mann e Hermann Hesse (Markus Gertken e Hans-Peter Cloos), che si confrontano sulla necessità di schierarsi durante l’ascesa del nazifascismo e con la guerra imminente. Si entra poi nel carcere di Antonio Gramsci (Pippo Delbono) e di Rosa Luxemburg (Natalie Dessay) dove a essere in campo non sono i loro testi rivoluzionari, ma è la loro umanità e solitudine a venir fuori dalle lettere di entrambi. Poi, si ritorna alla poesia visionaria e febbrile dell’ebreo-tedesca Else Lasker-Schüler (Talia De Vries) – Gitai le aveva dedicato nel 1989 il film Berlin-Jerusalem -, che dopo aver vissuto l’esaltante stagione espressionista, alla fine degli anni Trenta aveva lasciato Berlino per “fuggire in me stessa” ed era poi morta a Gerusalemme nel 1945, completamente sola. Il montaggio, e la pièce, si chiudono con il discorso tenuto da Albert Camus (Jérôme Kircher) nel 1957 all’università di Uppsala, sul ruolo dello scrittore, e sulla libertà sempre difficile e strana della creazione.
Uno spazio scenico ridotto all’essenziale, le sequenze che occupano a tratti lo schermo, gli interventi struggenti e sospesi dei momenti musicali: Alexey Kochetkov al violino, Bruno Maurice alla fisarmonica, Philippe Cassard al pianoforte, partecipano, come pezzi irregolari raccolti in un collage, alla forma libera di questa pièce a metà strada fra l’immediatezza di un reading e un’idea di teatro politico derivata da Brecht e da Peter Stein, in cui viene mantenuto sorprendentemente teso, per oltre due ore, un contatto emozionante e continuo con lo spettatore. Unico elemento di decor un ampio tavolo in legno chiaro, sormontato da luci e microfoni, che si prende tutta la scena, dove siedono, avvicendandosi, i diversi attori che nelle loro lingue diverse: francese, italiano, tedesco, esprimono il loro pensiero in conflitto con altri, o, all’interno di loro stessi – gli esili interiori più profondi-, o, più diffusamente, con il mondo.
Jérôme Kircher, ha il ruolo di introdurre, in pochi tratti, il contesto degli scrittori, attivisti, poeti che abitano come fantasmi questo strano viaggio – la cantante Natalie Dessay interpreta, tra altri pezzi musicali, proprio “L’invitation au voyage”, di Baudelaire, musicato da Henri Duparc -, che si carica delle ombre più cupe del Novecento, la guerra su tutte, e la cui forza dall’inizio alla fine è quella di mettere al suo centro il pensiero, la capacità del pensiero di muovere le cose e di trasformarle.
«Guai al popolo che, proprio non trovando altra via d’uscita, pensi di trovarla nell’orribile guerra, odiata dagli uomini e da Dio!” , aveva scritto Thomas Mann all’università di Bonn quando gli era stato revocato il titolo dopo la sua presa di posizione contro Hitler, a un passo dalla catastrofe della seconda guerra mondiale. Anche per questo deciso ripudio della guerra, da parte di Thomas Mann, e, ancora prima, di Rosa Luxemburg, Exiles Intérieurs entra direttamente in dialogo con il nostro presente, di nuovo sotto la minaccia inaudita, ma reale di una guerra in Europa. In quale tempo ci troviamo? E’ questa la domanda che lo spettacolo, nella sua interezza, solleva e lascia in sospeso, una domanda che si fonda sull’idea di un passato che tra violente contraddizioni e conflitti non deve smettere di tornare a interrogarci, a ossessionarci, a farci pensare. “Creare oggi”, dirà alla fine Albert Camus, “significa creare pericolosamente”; è questo il segno aperto di un’opera tra le più personali e perturbanti realizzate da Amos Gitai negli ultimi anni, una lezione di storia che entra dentro le vite di alcuni dei protagonisti di un secolo mai davvero finito, per riportare, nello spazio vivo e concreto del teatro, qualcosa di essenziale che ha a che fare con la memoria, con il senso della lotta, con il coraggio, con il pensiero.