A sfondo perduto o le figure dell’assenza
di Sergio Arecco
Siamo nell’estremo nord della Russia. Ma Artel non designa un villaggio – come potrebbe esistere un villaggio anche sperduto, in mezzo a quest’immensa distesa polare? –, bensì una piccola comunità di pescatori autogestita, una sorta di cooperativa che vive del suo, mettendo in comune, qui, il pescato. Con Artel (b/n, 35mm, 2006, 30’), Serhij Loznytsja intende dunque farci condividere – lavorando sempre sull’algebra dello spazio-tempo e sulla concomitanza del sonoro non parlato (rumori, voci indistinte) entro quadri perlopiù fissi, qui 22, intervallati da cesure nere, come fossero altrettanti segni d’interpunzione tra una lettera (è il titolo di un suo corto più recente) e l’altra – un’assenza. E le lettere di Artel ci raccontano di un pescato-non-pescato, alla fine di un’odissea incompiuta del lavoro di squadra che ne rappresenta la crudele metafora: tanto più intensa in presenza di un non-luogo di cui non ci viene detto neppure il nome (specificazione che lo scrupoloso Loznytsja spesso fa). Di cui ci viene mostrata unicamente la marginalità estrema, esemplata da un insieme di baracche (neanche dacie) e capanni, di cortili innevati ridotti a canili, su uno sfondo di barche rovesciate prigioniere del ghiaccio e di pali della luce sbilenchi, come in un capitolo (II, 3) del primo romanzo ‘siberiano’ del franco-russo Andreï Makine, Il testamento francese (1999) – questo almeno ci dicono i primi 6 segmenti, seguiti da un settimo che documenta la violenza delle raffiche con le quali il blizzard spazza senza requie la crosta di ghiaccio. Ne aveva già parlato, peraltro, in termini di struggente evocazione del remoto (l’artel esiste dal XII secolo), il tradizionalista Ivan Šmelëv nel romanzo autobiografico Il sole dei morti. Epopea (un’epopea della guerra civile tra rossi e bianchi, cap. 31, 1923).
Incompiuta per la rudimentalità dei materiali impiegati? Per l’arretratezza delle tecniche? In Giovinezza sotto il ghiaccio, il corto di Nagisa Ôshima (1962), di cui Artel costituisce in qualche misura un calco – con le identiche movenze e tecniche adottate dai pescatori del mare di Ochotsk, compreso tra la Siberia orientale e la costa settentrionale di Hokkaidô – il pescato, alla fine dei 40’ di mute sofferenze, non è un non-pescato: i molti pesci irretiti sotto la crosta scavata a forza di braccia vengono imballati in un grosso contenitore di plastica e il tutto viene avviato su slitte verso il villaggio. Anche in Artel, si tratta, per i quattro componenti la squadra, di fendere in profondità la crosta infrangibile. Il primo, il più attrezzato, ci prova con una sega elettrica – per circoscrivere almeno una superficie entro cui scavare. Gli altri ci provano con picconi, pale munite in cima di reti raccoglitrici (per liberare la fanghiglia rimossa), ramponi. Tuttavia i primi risultati paiono nulli, tanto che uno dei rarissimi movimenti di macchina praticati da Loznytsja all’interno del suo cinema-ipnosi (con l’eccezione di Paesaggio, 2003), quindi sintomatico, vale a dire un carrello da destra e sinistra, segue il riposizionamento dei pescatori alla ricerca di un ‘terreno’ più favorevole, un centinaio di metri più in là. Come se, eccezionalmente, fosse la mdp stessa, la quale è poi la vera protagonista di un cinema-cinema di tale portata – erede, qui più che altrove, della lezione di La région centrale di Michel Snow (1971), titolo tra l’altro ripreso da Godard, con il suo gusto onnivoro della citazione, in un capitolo di Livre d’image, 2018 – a suggerirlo, a pronunciare, nel generale mutismo, la sentenza che non ci si aspetta: più in là.
Per cui l’addetto alla sega elettrica ricomincia a incidere solchi un po’ più lontano, mentre gli altri tre continuano a sfinirsi a colpi di rampone – che sì bucano il denso strato di ghiaccio ma non arrivano a produrre squarci di entità tale da potervi poi infilare una lenza e pescare. Sennonché – è solo un flash ma è forse un’illuminazione metalogicamente proficua – la parola rampone evoca ramponiere, e ramponiere evoca a sua volta, a queste latitudini boreali, il ramponiere del Moby Dick melvilliano. Al punto che l’evocazione della balena assicura una rilettura meno cronachistica del bianco assoluto di Artel – lo spostamento della mdp ha comportato appena un cambio di sfondo: prima una grigia collinetta lontana, ora un grigio bosco lontano. Un bianco-incantesimo: ed è forse per l’effetto di un incantesimo maligno che l’odissea del lavoro umano si è arenata. Un bianco-immensità ‘disumano’: “che ci colpisce alle spalle con il pensiero dell’annullamento”. Un bianco-incolore: un non colore che è assenza visibile del colore (a meno che non lo si intenda come fusione di tutti gli altri), sinonimo di ‘vacuità’, di un “incolore onnicolore di miscredenza”, da cui si tende a prendere religiosamente le distanze. “L’universo ammorbato sembra disteso sotto i nostri occhi come un lebbroso; e come, in Lapponia, il viaggiatore ostinato rifiuta di portare occhiali colorati e coloranti, così come il povero infedele perde la luce degli occhi fissando il monumentale sudario bianco che avvolge ogni aspetto del mondo che lo circonda”.
Inutile bluffare. Tutte le espressioni o frasi tra virgolette appartengono a Melville, esattamente a quel XLII capitolo del romanzo in cui lo scrittore assimila la caccia alla balena albina alla caccia condotta su un’albina, inesplorata, distesa di ghiaccio. Ora, la Lapponia è una regione finlandese, ma l’etnia lappone è distribuita lungo l’intera regione artica, dalla Finlandia alla penisola di Kola, dove potrebbe essere stato girato Artel. La cui geografia, perciò, sarà sì metafisica o metaforica, ma non tanto da non poterci regalare, nel segmento ventiduesimo e ultimo del corto, la mirabile visione del disgelo, dei gorghi che rifluiscono a primavera sotto i lastroni di ghiaccio. Gorghi di un bianco assoluto, però, nello stretto formato 1:33 – che è poi il vecchio formato televisivo 4/3 – scelto qui da quel selezionatore e ricognitore di spazi senza tempo che è Loznytsja. Per provare a circoscrivere l’incircoscrivibile, come del resto Loznytsja prova a fare nei segmenti 9 e 10, e poi ancora e ancora nei segmenti 14 e 17, il pescatore munito di sega elettrica, potenziale alter ego del regista. Nemmeno nei segmenti successivi, dall’11-12 (intervento di reti e sonde anche lunghissime) al 18-20 (intervento di tubi e lenze), si riesce a scoperchiare il “monumentale sudario”; e nel segmento 20 si registra il malinconico rientro dei quattro sulla slitta a motore, con un vagoncino vuoto, tra i cani che latrano e le palizzate storte.
Che si sia trattato di uno stage, dal momento che i macchinari necessari sarebbero ovviamente stati un bulldozer o una scavatrice? È un sospetto che ci raggiunge al pensiero che il cinema di Loznytsja è sempre cinema congetturale, virtuale, cognitivo, nel quale la stessa odissea del lavoro umano-disumano viene sovente esibita come fine a se stessa, irrituale, e pertanto a fondo perduto. Cade a proposito la citazione del corto precedente, a suo modo complementare, Fabbrica (colore, 2004), la vicissitudine del fuoco prima di quella del ghiaccio, modellata – in due parti: Acciaio – Argilla – nell’interno corrusco di un’acciaieria, tra colate di metallo fuso da poi rapprendere in blocchi e un personale tutto maschile chiaramente disincantato, oppure troppo rodato da tanta routine; e nell’interno un po’ meno corrusco ma ugualmente spaesato di una fornace, affidata in prevalenza a un personale femminile, chiamato a ripartire i mattoni già fabbricati con l’aiuto di nastri scorrevoli. I quali macchinari, tuttavia, appaiono nell’ottica di Loznytsja, in tutta la loro rudimentalità e obsolescenza, come accadrà di nuovo per i materiali da pesca di Artel. Data per scontata la praxis dell’elusione del regista, formalista della vecchia scuola, in merito a una qualsivoglia critica del regime, non resta che l’opzione etica, ambivalente come sempre: comune vocazione storica al declino, al mantenimento in perdita dell’esistente? o comune vocazione transtorica alla pausa di ripensamento del passato per ricostruire, sulle sue macerie, un qualche avvenire?