63ª Festa dei Popoli: Conversazione con Véréna Paravel
Un incontro transmogrificato
A cura di Edoardo Mariani
Il cinema etnografico, l’etnografia visuale, l’etnologia visuale è uno spazio filmico in cui i corpi e i dispositivi si mescolano (ri)dandosi al mondo in una nuova forma di vita. Ciò che abitava al nostro interno, sia visivamente che invisibilmente, è ora fuoriuscito, si libera e raggiunge il mondo esterno, si unisce al corpo, ai corpi.
In questo contesto nasce e si sviluppa il lavoro del SEL (Sensory Ethnography Lab), un laboratorio sperimentale della sezione di Arte e Antropologia dell’Università di Harward, in cui ricercatori e autori indagano attraverso le forme espanse del film, del video, della fotografia e della fonografia, e cercano di combinarne l’estetica (derivata dalla registrazione della realtà attraverso l’utilizzo di dispositivi tecnici di riproduzione) fondendoli con la tradizione dello studio epistemologico e con le prospettive di analisi delle scienze sociali, naturali e delle scienze umane. Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel sono due degli autori più attivi e autentici in questo universo parallelo (che spesso viene rilegato e catalogato come “cinema documentario”, nello stesso modo in cui vi sono inseriti, Nanook, Moi, un noir, Sans Soleil, Gigi la legge…) e in qualche modo osservando i loro film ci si misura continuamente con la sensazione di partecipare ad un esempio di trasmutazione della realtà. I dispositivi, le camere, i microfoni, gli schermi sono i catalizzatori di questo nuovo mondo. La camera è onnisciente, il suo punto di vista si estrae in qualche modo dalla più terrena rappresentazione ordinaria, l’immagine è reliquia liberatrice e fonte di un filosofare autonomo sull’essere umano.
Con il loro ultimo De Humani Corporis Fabrica, presentato nella Quinzaine des réalisateurs alla 75ª edizione del Festival di Cannes, i due autori-ricercatori dimostrano che il corpo umano è questo sistema intricato di pulsioni e movimenti infinitesimali, una serie di scene interiori che la natura ha voluto tenerci lontano dal vedere, ma che essenzialmente sono la fabbrica della nostra vita, sistema che solo i medici sanno realmente leggere. Persi in questa materia anatomica irregolare e astratta, il film è una vera e propria esperienza di visione straordinaria, che riporta quella surreale verità che si nasconde nel nostro corpo e ce la propone come una visita non guidata e individuale al suo interno.
Durante la 63ª edizione del Festival dei Popoli di Firenze è stata organizzata una splendida retrospettiva sul lavoro di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel, e proprio in onore dell’ultima proiezione del loro film più conosciuto, il crudissimo Leviathan (che nel 2012 vinse il premio della critica al Festival di Locarno), ho avuto la fortuna di incontrare Véréna Paravel, con la quale abbiamo potuto conversare e, in qualche modo, districare l’inestricabile pratica del cinema etnologico prendendo in analisi le esperienze vissute durante gli anni di ricerca degli ultimi film da lei ripresentati a Firenze in quei giorni.
EDO MARIANI: …Un certo Jonathan Larcher…certe volte le cose si mescolano…soprattutto a Parigi…
VÉRÉNA PARAVEL: Ed è stato lui che le ha parlato dell’Etnologia Visuale? Sono quasi sicura che una volta sia venuto a casa mia…
E.M.: Sì, questo professore teneva un corso all’Università di Nanterre in Cinema e Antropologia, e ci parlò del SEL (Laboratorio Etnografico Sensoriale), ma anche di Stéphane Breton, e attraverso questi nuove scoperte avevo iniziato a chiedermi tra me e me stesso sulla relazione tra che lega la necessità di tenere sempre con sé la camera e l’approccio etnografico, che in parte ha una destinazione scientifica, ma che è anche una forma cinematografica completamente libera ed aperta. Il punto di partenza è sempre quello di una ricerca antropologica, etnologica, che poi quando passa sullo schermo non è più soltanto una documentazione, ma…
V.P.: Si, in queste opere esplodono le discipline, tutte le classificazioni, tutte le categorizzazioni.
E.M.: Perché il discorso qui va in profondità quando è lo spettatore a ritrovarsi in balia di queste esplosioni, ed è in questa posizione che alcuni autori riescono a farci ritrovare, un po’ come nelle ultime opere di Chris Marker, non si pensa al film come contenitore di immagini-movimento, un po’ come nei vostri film. Quel professore di Nanterre ci fece vedere Foreign Parts, dove c’erano questi corpi, questo contesto in cui questi personaggi erano prima ancora gli abitanti di questi luoghi negli Stati Uniti…
V.P.: Si, certo, è nella periferia di New York, nella città di New York.
E.M.: E proprio su questo film si è posato per me il mio primo sguardo, poi ho scoperto Leviathan e i suoi gabbiani oscuri…Ed è proprio in queste opere che la forza viene rilasciata nell’incontro tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive, e questa mescolanza tra questa rappresentazione e il dispositivo che filma, che testimonia, qualcosa che tempo fa avevo cercato di spiegare nel concetto dell’”immagine corporeale”, dove ogni singola opera rilascia una nuova dimensione e visione di mondo, di realtà, di vita, non solo nel suo fondersi con il digitale, ma anche separandosi dal tempo e nello spazio. Una volta Stéphane Breton mi aveva detto che quando si ha sete si beve, allo stesso modo in cui quando si ha bisogno di filmare si filma. Come se non ci sia un motivo universale sul perché filmiamo qualcosa e perché non filmiamo qualcos’altro.
V.P.: Io credo che sia qualcosa di estremamente personale la risposta stessa. Non c’è un’autorità che ci impone cosa vedere. Non c’è una formula, non c’è una verità soprattutto su questa questione. Non c’è una verità sul perché premiamo quel pulsante, penso che la differenza che c’è tra Lucien e me è che ci lamentiamo sempre entrambi di non avere abbastanza memoria e di dimenticarci sempre delle cose, ci lamentiamo perché abbiamo troppe immagini, ma se per esempio viaggiamo insieme per un festival o per filmare, io faccio sempre tantissime foto, di continuo e filmo il più possibile perché so già che mi dimentichi di essere stata lì, e anche perché ho una sorta di necessità, di pulsione che mi spinge a cogliere un istante, a inquadrarlo. Mentre Lucien respinge tutto questo, non fa neanche una foto, mai una foto. E quando lui filma, filma in un modo molto riflessivo. Io penso che quando premiamo il pulsante REC è perché siamo chiamati a filmare, nel senso di sentire improvvisamente un’ispirazione. Ad esempio oggi io sono stata al Museo di San Marco per vedere le opere di Beato Angelico, ed ero completamente affascinata per tutta una serie di cose…Ho avuto bisogno di guardarle a lungo, di ricordarmi di quel momento in cui le stavo osservando, ma prima di partire mi sono sentita obbligata a fotografare le opere per poterle rivedere come le avevo viste, per poter ritornare su quelle immagini, ripensarle. Quindi se Lucien fosse stato lì con me non avrebbe fatto neanche una foto ai Beato Angelico, ma sicuramente avremmo passato lo stesso tempo ad osservarli. Non lo so, forse quando filmiamo qualcosa seriamente, quando stiamo facendo un film ad esempio, ci sono sempre una serie di criteri riuniti che ci spingono a farlo. Se politicamente ha un senso, se socialmente o antropologicamente ha un significato…Se intellettualmente ha un senso. E se esteticamente troviamo delle possibilità, delle sfide.
E.M.: Una volta che si ha davanti il materiale filmico, come ad esempio per De Humani Corporis Fabrica, dove ci sono immagini di almeno cinque o sei ospedali di Parigi, ogni suo film rispecchia il mezzo e il dispositivo che è stato usato per filmarne le vicende. Come ad esempio se in Leviathan c’erano le GoPro, qui ha utilizzato documentazioni video prese direttamente dai macchinari medici che esplorano i nostri corpi umani. Mi chiedevo quindi, quando ci si ritrova davanti a questo grande contenitore di file digitali differenti, come si arriva a metterli insieme per raccontare qualcosa? Perché io ho l’impressione guardando i suoi film di vedere qualcosa di non scritto, non so se lei scrive qualcosa?
V.P.: No, non scrivo mai niente.
E.M.: E allora sono piuttosto le immagini che scrivono, che trasportano con esse la narrazione. Prendendo ad esempio le prime immagini di De Humani Corporis Fabrica, con questa inquadratura bassa a seguire la camminata di un cane da guardia accanto al suo padrone, in un film in cui poi finiamo per esplorare le viscere di questo animale sociale, che è l’essere umano, e che finiamo per rivedere in quell’affresco grottesco alla fine del film, con tutti i medici e i chirurghi che festeggiano in questo locale. Quando aveva presentato questo film al Festival di Villa Medici a Roma, lei aveva chiesto al pubblico di non chiudere gli occhi davanti a queste immagini più che vere di come siamo fatti. E non avendo mai visto qualcosa del genere, è stato qualcosa di sconvolgente ma allo stesso tempo illuminante, soprattutto il fatto di vedere tutto questo su un grande schermo. Entrare dentro alla nostra essenza più materiale, nei nostri organi…E riprendendo il discorso sui dispositivi, come ci si ritrova a utilizzare questi materiali filmici. Come si riesce, partendo da questi file digitali, a trasformare tutto questo in opere d’arte, forse attraverso il montaggio…
V: No, io non comincio assolutamente dai file digitali. Io comincio dall’esperienza. Quando filmiamo, con Lucien, partiamo per degli anni. Quindi non so se con queste domande lei voleva capire come ci si ritrova a filmare, come ci si ritrova a montare, come ci si ritrova a presentare tutto questo in un’opera, in un film. Ma per me c’è una grande differenza tra il momento in cui siamo entrati per la prima volta in un ospedale e il momento in cui sono qui a presentare un film. Inizialmente sono cinque o sei anni che passano, degli anni e degli anni… Quindi l’obiettivo di questa storia non è di essere dei bravi antropologhi che seguono il metodo antropologico, certo, siamo in stretta relazione con queste persone che non saremo mai, perché non saremo mai dei chirurghi, non saremo mai pescatori, non saremo mai meccanici per me, o pastori per Lucien, anche se abbiamo imparato molto in questi settori e che possiamo dire di avere qualche competenza, ma la nostra idea è quella di vivere questo incontro, e che il film è il marchio di questo incontro, che produce una forma di conoscenza che non è una forma di conoscenza ortodossa. Non segue in nessun caso l’ordinamento imposto dalla disciplina antropologica, né dalle regole accademiche che tentano di preservare un complesso di norme come fossero i guardiani di chissà quale verità, di una tradizione epistemologica, di una produzione di conoscenze, ma che queste conoscenze sono il nostro statuto ma che allo stesso tempo noi dirottiamo altrove in questi film, che hanno un valore e un potere di tramandare la conoscenza incredibile. È incommensurabile e si misura soltanto nell’incontro successivo con lo spettatore. Per me non c’è una dissociazione tra tutte le esperienze passate filmando e non. Può succedere ad esempio, qui per De Humani Corporis Fabrica, negli ospedali, alla fine abbiamo più di quattrocento ore di girato, ma dietro queste quattrocento ore ci sono anche delle altre centinaia di ore dove mangiamo, dormiamo e passiamo la notte nel reparto di rianimazione, o ci fumiamo una sigaretta con loro ogni quindici minuti, partecipare alla riunione di gruppo della mattina, o entrare negli orari di visita dei pazienti della mattina dopo che ci abbiamo già passato tutta la notte, o che rientriamo a casa all’alba…E tutto questo fa parte delle esperienze. Torni dall’ospedale dopo che hai visto una giovane ragazza di diciassette anni che si è suicidata e che non sono riusciti a rianimare. Vedi una bambina morire davanti a te, poi riprendi la tua bicicletta, sono le sette di mattina e torni a casa sapendo che il giorno dopo riparti e torni lì. Per me è tutta questa serie di cose… È per questo che molto complicato presentare un film alla fine, perché è soltanto l’oggetto che non ci permette rispondere a delle domande, ma per aprirne molte altre.
E.M.: Potremmo dire, sperimentiamo con voi questo viaggio di ricerca antropologica, esplorando con voi dal di dentro queste realtà quotidiane che voi avete seguito per molto tempo. Immagino che tutto questo sia in qualche modo necessario per lasciare che coloro che sono i soggetti della ricerca dimentichino perché siete la, e la presenza della camera.
V.P.: Questo è facile, è il nostro lavoro. È la nostra formazione di antropologhi e di etnologhi. Quando passi diversi anni, diversi mesi, diverse giornate le persone cominciano a dimenticarsi di te. Sono delle vere e proprie tecniche. Sei sempre con la camera e le persone iniziano a prenderti per una cosa sola. Noi abbiamo sempre la camera su di noi, e la gente non ci vede mai senza la camera. Quindi siamo associati alla camera. E se la camera è accesa o spenta, non cambia. Ce l’abbiamo sempre su di noi. Puoi chiamarla tecnica, o metodo, in ogni caso per noi è così. Anche se discutiamo e parliamo per ore senza filmare la camera è con noi. È visibile, è la, sui nostri corpi, non siamo separabili con quest’oggetto con cui facciamo le immagini.
E.M.: Voi siete degli esseri umani in uno spazio vissuto da altri esseri umani ma vi entrate e vi partecipate con dei dispositivi. Voi vi presentate come ricercatori etnologici, e il fatto di volere, potere e dover filmare diventa motivo portante di questa vostra ricerca. Effettivamente non ci si può fermare alle motivazioni tecniche ed estetiche delle vostre operazioni cinematografiche. Non usate sempre immagini filmate da voi, ma vi mescolate materialmente, anche cedendo il compito di filmare e di generare le immagini agli stessi soggetti della vostra ricerca. Come in Leviathan sono le GoPro imbracate sulle salopette dei pescatori, o come negli ospedali potrebbe essere il filmare il lavoro dei medici e mescolarlo con le immagini delle endoscopie. Questa operazione apre in qualche modo nuove dimensioni spaziali dell’immagine cinematografica, spazi di solito chiusi dalle norme estetiche della narrazione, e quindi non significa soltanto aprire le porte a nuove possibilità estetiche e pratiche, ma anche un portare il dispositivo altrove.
V.P.: Certo, è grazie ai dispositivi che riusciamo a catturare questa realtà e che possiamo trasformarla, restituirla in un modo non abituale. Penso che sia un dialogo tra la realtà, i dispositivi e lo sguardo dietro questi dispositivi che fa in modo che alla fine ci sia una restituzione della realtà che fugge dalle norme a cui siamo abituati nel rapportarci alle cose, diversa dai modi con cui guardiamo con familiarità quella stessa realtà. Essa viene guardata da un’angolazione con uno sguardo tale che ci viene riportata in maniera sempre e completamente diversa. Penso che il rapporto tra dispositivo e suo utilizzatore sia fortemente inestricabile, e che dipenda diversamente da uno sguardo all’altro. Avvicinamento di corpi-sguardi, medium, qualsiasi esso sia, e dello spazio in cui tutti assieme danzano, in una sorta di trans-danse che lo attraversa tutto e tutto insieme, che fa in modo che questa realtà che restituiamo è transmogrified[1]. Fabbrichiamo una realtà di una realtà, ma che è la realtà, una realtà che, può essere, trascende l’hic et nunc, il qui e ora. Una realtà senza età, che va dall’inizio alla fine dei tempi, qualcosa di cosmico, di più universale. Potrebbe essere pretenzioso dire tutto questo…
E.M.: Si, ma penso che in generale vediamo e ci ritroviamo a vivere questa sensazione di danza eterna con il mondo proprio filmando, ma è difficile certe volte dimenticarsi del filtro tecnico della camera. Potrebbe essere interessante vedere sempre più persone che cominciano a conoscere il mondo e loro stessi attraverso lo sguardo in camera…Comunque la ringrazio molto, magari un giorno ci ritroveremo a Parigi, ma per il momento, ci vediamo in sala tra poco, mi metterò nascosto tra le poltrone e mi lascerò trasportare.
V.P.: Dalle onde! Grazie a lei e arrivederci.
E.M.: Recupero il mio dispositivo e vado.
V.P.: Forse rientro con lei perché qui fa un po’ freddo…
(Era il venerdì 11 novembre 2022 a Firenze, Cinema La Compagnia)
[1] “Transmogrificato”, l’atto o il processo di cambiare o essere cambiati completamente.