Punti di fuga oltre le soglie del tempo. A proposito di Il cavallo di Torino
di Bruno Roberti
A Napoli dal 17 maggio al 2 giugno ha avuto luogo una retrospettiva integrale del cinema di Béla Tarr in diverse sale e quartieri della città, promossa e finanziata dal Comune di Napoli. Contemporaneamente il regista ungherese ha realizzato un workshop gratuito per giovani filmmaker under 35 provenienti sia da Napoli che dal resto d’Europae del mondo. Alla retrospettiva si sono anche affiancati momenti di confronto teorico, una tavola rotonda all’Accademia di Belle Arti, e, inoltre, un momento musicale al Riot Studio a cura diSergio Naddei e Antonio Raia. La retrospettiva corredata da un catalogo ricco di interventi è stata curata da Armando Andria, Gina Annunziata, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce, Salvatore Iervolino, Marcello Sannino, per Ladoc.

“Non abbiamo che l’oblio, la notte fredda, il passaggio del vento. Sono ombre di mani i cui gesti sono l’illusione madre di questa illusione”
Fernando Pessoa
Il cavallo di Torino di Béla Tarr (film estremo e terminale, ma anche dischiuso su un crinale di infinita ostinazione nella resistenza dell’immagine e della vita ‘malgrado tutto’, e questa volta realizzato più che mai in simbiosi con Agnes Hranitzky, sua inseparabile montatrice) non è tanto il film della fine del tempo quanto il film della sua “infinitudine”. Il film del “perdurare” della fine, del suo protrarsi e protendersi, del suo racchiudersi e insieme aprirsi in un tempo di “fine senza fine”. Il tempo del dopo, per usare il titolo del bel libro di Jacques Ranciére, si rapprende in un oltrepassamento dello stesso scorrere del tempo oltre se stesso, tempo che più che dilatarsi si rinserra (in uno spazio che concreta il tempo e lo fagocita) nella resistenza del corpo umano e animale (il cavallo nietzschiano non è né allegoria né emblema ma singolarità intensiva che ‘fa eco’ all’empatia perduta entro cui il gesto del filosofo tedesco risolveva e dissipava la possibilità di ogni ulteriore pensiero) resistenza e persistenza che insieme di quei corpi costituisce uno “sfinirsi”. L’avamposto di una terra desolata, luogo della ripetizione del gesto e dell’attesa di un avvento che non ha nome ma risuona in un incipiente suono circolare (la partitura ipnotica e ossessiva di Mihaly Vig, e il vortice sibilante degli elementi naturali) che avvolge e assedia il padre (il vetturino Ohlsdorfer) e la figlia che lo assiste, e insieme sembra annunciato e trasportato da una furia degli elementi, dal soffio incessante del vento, dal turbinio di una tempesta che incombe, quell’avamposto (che richiama alla mente gli spazi della condizione umana svuotata e in balia dell’interrogativo ultimale di Eliot, di Kafka, di Beckett) diventa anche una ‘oltranza’ dell’immagine che sembra ogni volta bilicare sul suo riassorbimento, sulla sua revulsione, sulla soglia del suo interdetto, del suo accedere a un buio che reclama. La scansione in sei giornate del film pare incedere come una genesi ‘all’indietro’, come il rovesciamento di una palingenesi: niente rinnovamento, nessuna escatologia catartica, eppure tale rovesciamento che rifluisce in un eterno ritorno dove la circolarità si involve e prende la forma di un risucchio della fine nell’inizio e dell’inizio nella fine ( eterno ricominciare ma dove la ‘resistenza’ e la ‘persistenza’ è sempre sul punto di aprirsi su un fuori che sembra inattingibile ma che, nella forma filmica del fuoricampo, del ribaltamento del campo, del rovescio dello sguardo, dell’attagliarsi ‘di schiena’ alle due presenze, offre l’ostensione di un punto di fuga la cui interdizione potrebbe a ogni istante incrinarsi), tale rovesciamento, si diceva, costituisce tanto l’approssimarsi della notte quanto il suo finire ( “il mattino diventerà notte e la notte finirà” lanciando la possibilità di un mattino solo in quanto ‘residuo’ e ‘resto’, come dicono i versetti del libro profetico lasciato dagli zingari che la figlia legge come assorta e sgomenta). Si tratta di una immanenza di vita nella singolarità dei momenti, dei gesti che si ripetono ma procedono nonostante tutto verso uno scarto, una differenza di cui ad ogni conclusione di giornata il film accede, come se le immagini si facessero cenno di un annuncio, nel loro fluire in piano sequenza, e nei tagli netti al loro interno che conducono ( come una ferita dell’occhio, una frattura del gesto ) a un prolungamento che ogni volta produce un atto di resistenza in più, o ancora nel soffermarsi della m.d,p. sui campi lasciati vuoti dai corpi umani ma in cui insiste il loro psichismo riversandosi come un’aura immota sui semplici e materiali oggetti da cui emana una epifania sottratta a ogni trascendenza ma in cui ciò che li trascende è proprio la loro immanenza, l’annuncio di una apparizione di qualcosa che accompagna e precede ogni sparizione. “Ma tu siedi alla finestra e immagini che giunga a te, quando scende la sera”, scriveva Kafka nel racconto Un messaggio dell’imperatore. Anche nel film il tempo dell’attesa viene assunto come l’implacabile vanità di ogni pretesa che possa sussistere un senso nascosto dietro l’ineffabile nulla che ci avvolge, se non la materia semplice della vita e la lotta per la sopravvivenza, così come dell’opposizione per sottrazione alla morsa del potere. Ogni termine di giornata nel film fornisce l’accesso a questo: l’irrompere profetico di una apocatastasi rovesciata, non una reintegrazione ma una disintegrazione entro cui però è contenuto un punto di reversione, un punto di conversione tutto e solo interno alla deterritorializzazione e alla disantropomorfizzazione, a un divenire vitale al di là e contro oltre ogni presa di possesso da parte della volontà di un ‘cattivo demiurgo’ che procede al degradare e a compiere la rovina del mondo con la logica del profitto e della corruzione, salvo comprendere come il cambiamento e la metamorfosi consista nell’andare al di là del bene e del male, del dio e degli dei ( così come l’ “ebbro profeta” con accenti nietzschiani apocalitticamente pronuncia). Si tratta di altrettanti punti paradossali di apertura e chiusura simultanea del tempo. Che sia ciò che Rancière chiama il ‘tempo del declino’ che si potrebbe appaiare a un tempo dello sforzo, dell’opposizione al procedere dell’andare in rovina, del prosciugarsi dell’acqua, del misterioso silenzio dei tarli che smettono di corrodere lo spazio o dell’esaurirsi dell’olio delle lampade, dello spegnersi del fuoco della stufa. O che sia il “tempo del cambiamento”, sempre secondo Rancière, quello del tentativo di partenza di padre e figlia per poi ritornare sui loro passi a riabitare quel tempo della ripetizione che (è sempre Rancière) torna a coincidere con il tempo dell’attesa. Anche l’irrompere degli zingari nel loro dionisiaco sviscerare un punto intensivo di irruzione risponde a questo disegno del cerchio ‘chiuso aperto’, per usare ancora una locuzione di Rancière. Così è al destino impersonale dell’accadere e del divenire che il film si affida anche nell’attribuire a un compresente farsi-disfarsi degli atti, dei gesti, dei movimenti di macchina, dei volti, del buio e della luce, il senso implicato di un cinema che mentre finisce e si riassorbe nel nero, come una stella lontana che ormai rifluita nel tempo continua ad emettere pulsazioni di luce.Scaturendo da un gesto nietzschiano il film non può non far pensare al concetto di ‘eterno ritorno’, ma credo lo si possa pensare nei termini con cui un saggio di Pierre Klossowski scritto nel 1969 Nietzsche et le cercle vicieux riprende il Nietzsche della follia e dei frammenti postumi, entro cui l’eterno ritorno è visto come una macchina ‘differenziale’. Non si da eterno ritorno, secondo Klossowski senza lo scarto differenziale, la ripetizione circolare è interconnessa con il moto della differenza, trascinando l’essere nel divenire, e in divenire che si da come parvenza, illusione. All’interno del circolo vizioso si dischiude una situazione paradossale dell’identità: essa diviene nel suo dissolversi : “il soggetto è coinvolto nei travasi senza fine dell’identità nella disindividuazione e, all’opposto, della disindividuazione nell’identità, riformandosi continuamente nella sua stessa dissoluzione” […] Come l’ombra che segue necessariamente il corpo cui appartiene, un ritorno si accompagna sempre all’altro, a un circolo segue sempre l’altro circolo, al moto in un senso corrisponde il moto nell’altro senso”1. Nel film sussiste la duplicità della relazione padre-figlia, delle azioni e delle inazioni, dei movimenti e della immobilità, del guardare l’orizzonte interdetto del fuori (con il suo beckettiano alberello rinsecchito) seduti davanti al vetro della finestra, dei gesti quotidiani e delle fatiche incombenti che assumono una sorta di opaca cerimonialità, una ritualità entro cui si dispone e si decanta il gesto ripetitivo facendo entrare e uscire contemporaneamente il film dal circuito della rappresentazione e della materialità del set, riconducendo il loro procedere dalla fantasmaticità umbratile del bianconero raggrumato al peso specifico del corpo che più che ripreso viene ‘rappreso’ con la camera. Questa duplicità ancora umana ma spinta ai confini estremi della rappresentabilità dell’umano, si rifrange con la singolarità intensiva dell’animalità, del cavallo cioè che assurge ( rovesciando ciò che ad esempio in Bresson la grazia e il dolore dell’asino Balthazar, emettevano in quanto possibilità sacrificale/redentiva) in un passaggio tutto fisico e assolutamente concretato dalla corsa stremata e affannata controvento e controtempo dell’inizio, allo sfinimento immobile in cui si rinserra lo sguardo in macchina e in primissimo piano dell’animale restituito a pura contingenza che si disfa sottraendolo alla vista dietro la porta di legno della stalla. Così il film si libera e si disfa del rappresentativo dribblando la stessa rappresentazione attraverso la smagliatura progressiva di tempo, atto, situazione, silenzio, parola. La voce fuori campo che interviene all’inizio, al centro e alla fine del film sul nero del non visto, del non rappresentato è come se mentre si appresta a ‘suscitare’ (quasi come un atto interlineare e metalinguistico, un paratesto che enuclea la didascalia restituendola solo al ‘potenziale’ dell’immagine) ciò che poi si incarnerà nell’immagine, quella voce diventa una sorta di attivatore dell’eterno ritorno come esperienza, non come teoria filosofica, come vissuto estremo di dissoluzione del soggetto e insieme di suo assolvimento in un divenire che avviene con la fatica dell’esistere, con il tratto enigmatico, incombente e sovrastante di un fuori vago e vuoto, dove però l’altrove resta sempre possibile anche nella sua notte, nella sua inesistenza, nella sua privazione. “Che cosa succede?” chiede la figlia al vecchio padre come se attendesse una risposta che dia un senso a quella lotta contro gli elementi, contro le ingiustizie, contro la propria stessa disperazione, ma in nome di una stessa ostinazione a capire e a continuare a vivere. E il padre risponde “Non lo so. Dormiamo”. E se il fuoco alla fine non arde, con la notte si placa la tempesta. Tutto sembra riassorbirsi nello spalancarsi del buio e del niente, e lì, nel vuoto dell’immagine, far tornare un senso nella circolarità che fa dentro il suo scarto, il suo espandersi concentrico e il suo lasciar trapelare, laddove, come dice Rancière la luce diventa momento formante proprio quando paradossalmente si dissolve, manca a sé stessa eppure ritorna su di sé. Scrive Emanuel Lévinas: “Immaginiamo il ritorno al niente di tutti gli esseri: cose e persone. E’impossibile situare questo ritorno al niente al di fuori di qualsiasi evento. Ma che dire di questo stesso niente? Qualcosa accade, foss’anche la notte e il silenzio del niente”2. Appunto in Il cavallo di Torino questo accadere impersonale, affidato agli elementi naturali, agli oggetti, al divenire umano-animale lungi dal ‘chiudere’ il film in una sua impenetrabilità lo apre, lo dischiude, lo affida nonostante tutto a un presente dell’immagine che sembra, nella durata, materializzarsi e incorporarsi nell’incarnazione sotto i nostri occhi di quella immagine stessa. Ma qui le durate in piano-sequenza così tipiche di Bèla Tarr paiono raggrumarsi e disciogliersi nella percezione di istanti fuori della durata. Tutto pare avvenire qui e adesso, le cose come i corpi, il luogo interno e il paesaggio esterno, vengono incontro e non sono più scenari dove collocare ma sono loro stessi a collocare le immagini, a situarle. Si compone e si scompone, si costruisce e decostruisce tutt’assieme una rivelazione della materia che espone ed emette la circolarità del tempo come circolarità redimibile e sempre presente. Il film persegue, nota ancora Rancière, una teleologia della dissoluzione come una Genesi rovesciata. Ma questa ricapitolazione permette a ogni coacervo di gesti e situazioni in cui i giorni si concretano, di rendere possibile a ogni istante di non essere perduto ma presente e alla vita di perdurare, consistere, manifestarsi, non cessare di cercare un senso e di resistere in un intreccio in cui si manifestano i punti di fuga e la convergenza, come la divergenza, tra disperazione e speranza. Punti di fuga oltre le soglie del tempo.

- G.Brivio Il labirinto di Narciso. Sade e Nietzsche nei simulacri di Pierre Klossowski, Moretti e Vitali, Bergamo, 2015. pp.109 e 112 ↩︎
- E.Levinas De l’existence à l’existant, Parigi, 1947 cit. in G.Frank La passione della notte, Feltrinelli, Milano, 1982, p.90 ↩︎