500% Kitano. Nulla da aggiungere (o BeatTakeshiKitano e la “Trilogia del suicidio artistico”)
di Edo Mariani
“Quando vedo il mare immagino il suicidio…
Il mare, è terribile, è il ritorno all’origine, la fine,
la fine nel senso del ritorno all’origine.”
Ci sono diversi esempi di autori e autrici che, a un certo momento della loro carriera, hanno sentito la necessità di raccontarsi in film-autoritratti. Nel caso di Takeshi Kitano, questa necessità viene espressa sotto forma di una trilogia cinematografica, composta da tre atti di un unico testo funebre e attraverso i quali il regista giapponese potrà dispiegare una sua lunga dichiarazione sul rapporto tra la vita, l’arte (cinematografica e non solo) e il successo. In inglese è stata soprannominata Kitano’s surrealist autobiographical trilogy, in italiano invece è conosciuta come la Trilogia del suicidio artistico.
Dovendo ritagliare una parte dall’intero percorso di questo controverso personaggio contemporaneo, non si può non considerare la storia di Beat Takeshi, il doppelgänger di M. Kitano, la controfigura comica del regista, il personaggio pubblico, conosciuto e amato dal grande pubblico grazie alle sue prime apparizioni sui palchi notturni dell’avanspettacolo a Tokyo e in svariati programmi televisivi dalla fine degli anni ’70 e durante tutti gli ’80. Kitano è ora riconosciuto da tutti, ma è nascosto dietro alla maschera di Beat Takeshi, attore-animatore, di cui non vuole liberarsi, ma che lo perseguiterà sempre, nel bene e nel male. Dopo la sua apparizione (con il suo indimenticabile sorriso nel finale) nel ruolo del Sergente Gengo Hara nel Merry Christmas Mr. Lawrence di Nagisa Ōshima nel 1983, Takeshi Kitano viene scelto per il ruolo di un film poliziesco, Violent Cop, del quale si autoproclamerà regista, dopo che Kinji Fukasaku abbandonò il progetto. Inizia qui l’avventura di Takershi Kitano, cineasta. Film dove la teatralità delle strade di Tokyo o della più esotica Okinawa, si fonde con uno stile noir ultraviolento, ma a suo modo dolce e sinestetico, sempre attento alla morale e all’anima del protagonista, spesso interpretato dallo stesso Kitano, che firma Beat Takeshi tutti i suoi ruoli da attore. Poliziotti più o meno corrotti, oscuri mafiosi di una Yakuza portatrice dell’eredità del Bushido dei samurai, o un Ronin cieco del XIX secolo, Beat Takeshi si lascia andare alla direzione di Takeshi Kitano, che è sempre anche sceneggiatore, spesso produttore con la sua propria società di produzione Office Kitano e soprattutto montatore dei suoi film. Se con Sonatine, presentato nel 1993 nella sezione Un certain Regard del 46° Festival di Cannes, Kitano conquista finalmente la critica e il pubblico occidentale, con la vittoria di Hana-Bi del Leone d’oro alla 54ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1997, Takeshi Kitano torna in Giappone e viene riconosciuto come un nuovo maestro del cinema giapponese.
Tra i due importanti avvenimenti era però accaduto un qualcosa che avrebbe per sempre cambiato la vita e la carriera dell’artista. Sono anni di follie e di insonnie, di stress accumulati, Kitano dorme tre ore a notte, gira una settimana i suoi film e l’altra gli show televisivi. Nel 1994 infatti Kitano tenta di produrre un’opera comica, in contrasto con i successi dei precedenti quattro film, firmando come Beat Takeshi un eccentrico film a episodi in cui parodizza eventi e opere dell’epoca: Getting Any?, una commedia aperta e altamente satirica, una collezione di gag del celebre Beat Takeshi tenute insieme da un sottile e raffinato fil rouge, dove tutta la cultura giapponese contemporanea e del dopoguerra viene presa in giro. Il film viene mal compreso dal pubblico giapponese, che abituati a vedere Beat Takeshi sullo schermo televisivo non riconosce e non comprende la comicità del loro beniamino e, anche se Kitano stesso ricorda questo come uno dei suoi film preferiti, Getting Any? sarà considerato come il film meno riuscito della filmografia dell’autore. Nello stesso anno, forse perseguitato da un qualche demone interiore, o forse dopo aver perso l’equilibrio mentale, Kitano ha un gravissimo incidente con la sua motocicletta nella notte del 2 agosto. In coma, viene ricoverato d’urgenza in ospedale dove rimarrà per circa un mese, e dal quale ne uscirà con la parte destra del volto completamente paralizzata e una serie di tic nervosi, tra i quali l’occhiolino, divenuto poi un simbolo del nuovo Takeshi. Quello che nel 1994 Kitano ricorderà come una sorta di “suicidio incompiuto”, dà il via a una nuova fase dell’artista: “Da dopo l’incidente non so quando morirò, e quindi giro i film come mi pare”.
Il grande maestro Akira Kurosawa in persona disse a Kitano che il suo era un modo spontaneo di girare i film, differente da ogni modalità che il Giappone avesse già visto. Un autodidatta, nato e cresciuto nelle periferie di Tokyo nel primissimo dopoguerra, che conosce tutto ciò di cui parla, è un autore puro nelle tecniche (regia, scrittura, montaggio e recitazione) e libero di lasciar lavorare la fantasia, che lo stesso Kitano definisce come il portale con cui compiere salti temporali. Le sue opere hanno un gusto sempre nuovo, ogni volta riconoscibile e instancabilmente imprevedibile.
“Tutti vogliono mostrarsi attraverso una bell’immagine di sé…
Io voglio eliminare tutti gli artifici e mostrare solo ciò di cui sono capace,
senza usare trucchi o mentendo.
Mi piace quello che faccio”.
Takeshis’ (2003)
Dopo una serie di successi, dovuti ad un ritorno sulle scene, Kitano viene di nuovo colpito da una seria crisi creativa nel 2003, e durante un’intervista dichiarerà: “Credo che l’impulso dietro ad un film del genere sia la volontà di esplorarsi, sezionarsi e di sfogare un potenziale distruttivo che altrimenti non avrei potuto esprimere. L’idea è quella di dire: almeno nel film, lasciatemelo fare!”
Takeshis’ è la messa in scena di uno scontro (il primo dei 3 round) tra Mr. Kitano (l’uomo, il regista, l’artista) e il suo doppio, Beat Takeshi (il pagliaccio, il personaggio pubblico), entrambi interpretati dallo stesso Kitano, e qui trasformati in marionette guidate da un’entità superiore, ovvero l’artista che tecnicamente compone i suoi mondi e si materializza attraverso gli interventi di montaggio.
Il film rappresenta una sorta di incontro in una imprecisata dimensione onirica tra le due anime di Takeshi Kitano: il racconto, viene interrotto e in un certo senso ostruito da alcuni ritagli di montaggio che, con una cadenza irregolare, intervengono sul corso della narrazione. La volontà interiore del personaggio “Beat Takeshi” di diventare un attore e un artista di successo come “Mr. Kitano” viene esplicitamente illustrata dalle visioni e dai sogni del primo, che vede la sua monotona e triste vita trasportata in un vortice di incubi e armi da fuoco dal quale nessuno ne uscirà incolume, neanche lo spettatore a cui si rivolgono le ultime raffiche di mitra che chiudono la fabula come l’avevano cominciata.
L’impossibilità che le due anime dello stesso uomo possano fondersi è in un certo senso una dichiarazione sincera, una liberazione da parte del regista che dai tempi di Getting Any? aveva cercato di riunificare le due maschere. Attraverso la formula degli istanti immaginari che intersecano la realtà diegetica, il mondo dei due personaggi tende ad avvicinarsi sempre di più. Il clown disoccupato (Beat Takeshi) incontra i pericolosi e sinistri uomini della Yakuza che, fomentati dai personaggi interpretati nei film di Kitano, si presentano ai suoi stessi provini per tentare di sfondare nel mondo del cinema e, trovandosi faccia a faccia con i veri mafiosi diviene anche lui un inarrestabile killer. Il mondo dei sogni ingloba e si fonde con la commedia, trasformandosi in un ibrido Yakuza eiga tragicomico, dove il clown triste imbraccia pistole e artiglierie di ogni genere, è vestito come un personaggio dei film di Takeshi Kitano e spara ad ogni cosa gli passi davanti, rapina una banca e scappa dalla polizia a bordo di un’auto da corsa rosso sangue.
In una scena paradigmatica, vediamo l’ennesima sparatoria tra gangsters, ma questa volta rappresentata come una farsa, un disegno infantile di scintille e movimenti esaltati che viste dall’alto assomigliano alle costellazioni. Prendendo quindi questa fenditura tra il mondo della narrazione e quello della rappresentazione autobiografica dell’autore come uno schema con cui rileggere l’intero film, in Takeshis’ Takeshi Kitano è il bambino che da sfogo alla propria fantasia (“voglio restare integro e fedele a me stesso e alla mia verità”), che alla regia e al montaggio di quest’opera sogna di sognare: è lui il clown, è lui il gangster, è lui ogni personaggio e ogni cosa vivente nell’universo da lui creato. Conferma e conclusione di questa rilettura è la scena che apre e chiude il film (forse potremmo dire l’intreccio per richiamare alla presenza attiva dell’autore all’interno di Takeshis’): siamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale e una truppa di soldati americani sbarca sulle coste giapponesi, arrivate ormai allo stremo dopo una lunga resistenza. Un soldato giapponese, interpretato da Takeshi Kitano, è a terra sofferente e incrocia lo sguardo senza pietà del nemico che, dopo aver lasciato scorrere l’intero film, punta il fucile e… nero.
Glory To The Filmaker! (2007)
“I sogni e la fantasia sono un salto temporale. Le persone hanno un orologio personale con cui scandiscono il tempo della loro vita a seconda di come percepiscono gli eventi” è l’incipit di questo secondo round, o secondo film della Trilogia del suicidio artistico di Takeshi Kitano. Rimettendo in scena lo schema tentato in Getting Any?, Kitano disegna un nuovo autoritratto meta-cinematografico ad episodi. Giocando sul tema dei generi cinematografici Kitano si prende gioco della cultura nipponica, madre che ha dato alla luce il suo amato pubblico ma che si è lasciata “fagocitare dagli Stati Uniti che nel dopoguerra distribuivano gomme da masticare e cioccolatini” agli orfani della sua generazione.
Siamo all’interno del processo artistico di un regista in crisi creativa: accompagniamo Takeshi Kitano, che questa volta tiene il suo doppio in braccio essendo una sua riproduzione in scala 1:1 in vetroresina, all’esplorazione dei limiti del cinema. Glory To The Filmaker!, già a cominciare dal titolo, è una grande ode satirica alla figura del regista (la traduzione del titolo originale giapponese è infatti 監督·ばんざい! ovvero Regista – Urrà!), e affronta il tema della ricerca di un affermato regista di elaborare il suo prossimo film. Al principio infatti Kitano aveva pensato di intitolare il film Opus 19/31, dove Opus significa letteralmente “opera”, “31” è il numero di film a cui Takeshi Kitano spera di arrivare e “19” è il numero totale di film che aveva prodotto fino a quel momento più il numero di cortometraggi che erano in fase di realizzazione. Ispirandosi in parte all’idea di 8½ di Federico Fellini, Kitano si rappresenta qui nella parte non soltanto di se stesso, ma di un Takeshi Kitano nel ruolo del filmaker. Partecipiamo quindi come spettatori alla realizzazione del “miglior film della storia del cinema” composto da una serie di possibili film, a partire dall’episodio Pensione in stile Yasujirō Ozu, passando per il film romantico e strappalacrime La porta della memoria, fino al film storico Catrame & Rikidozan, ogni cortometraggio è l’inizio di una storia della quale non vedremo mai lo sviluppo. Ogni episodio è introdotto dalla sarcastica voce narrante che, parlando in terza persona del regista in questione se ne prende gioco e ne presenta i vari tentativi come una disperata serie di esitazioni o comunque tenta di spiegare i motivi per cui Kitano dovrebbe tentare di fare, rifare o disfare un film. Ognuno di questi film mancati diviene per il cineasta anche un pretesto per dimostrarsi e dimostrare al pubblico che il cinema permette di comporre le più diverse costellazioni di generi, attori e attrici, costumi e trame, e soprattutto di essere un regista capace di padroneggiarne le tecniche e gli stili.
In occasione della presentazione del film, la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia creò il premio alla carriera Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker e ne assegnò il primo proprio a Takeshi Kitano. Il riconoscimento viene assegnato a coloro che attraverso le loro sperimentazioni hanno lasciato un segno nella storia del cinema.
Achille e la tartaruga (2008)
Il terzo ed ultimo capitolo di questa trilogia è forse il più diretto e completo dei tre, infatti qui Kitano assegna ad una narrazione più classica il compito di raccontare le proprie verità sul suo rapporto con il mondo dell’arte, e di conseguenza, come d’altronde ha cercato di fare con questi tre film, con il suo pubblico. Kitano aveva cominciato a dipingere durante il periodo di convalescenza dell’incidente che lo aveva immobilizzato nel 1994, e da quel momento ne ha fatto il luogo in cui liberare lo spirito “disegnando come i bambini ma senza imitarli, rappresentando qualcosa che un bambino avrebbe potuto fare – dato che – si può dipingere per 10 anni delle tele senza venderle, ma al cinema non ce lo si può permettere. Non si possono fare per molto dei film che la gente non vede”.
Sempre mantenendo rigida l’espressione, il nostro pierrot incarna questa volta la storia di un pittore: Machisu è un bambino che sogna ad occhi aperti, e cerca di rappresentare a modo suo tutto ciò che vede, nel suo profondo sa che è destinato ad essere un artista. Un giorno l’azienda multimiliardaria del padre subisce una grande perdita e, dopo aver perso tutta la sua famiglia, Machisu cresce nella famiglia dell’odiato zio di campagna, dove non riesce comunque a smettere di dipingere il suo universo. Cresciuto, il giovane va a vivere nella grande città, è solo e non rinuncia al suo sogno, ma è costretto a lavorare la notte e a vivere stentatamente, mentre si fa respingere da un severo gallerista che, senza saperlo, espone uno dei dipinti che il piccolo Machisu aveva realizzato quando era soltanto agli inizi. Una volta divenuto adulto si sposa con una “compagna che lo capisce” e con la quale continuerà le sperimentazioni fino all’estremo tentativo di dipingere dopo essersi fatto quasi affogare nella vasca di casa, aver utilizzato il volto della loro defunta figlia come tela e per ultimo, cercato di vendere a 200.000 ¥ una vecchia lattina di CocaCola.
Volendo dispiegare un’intera vita durante un film, Kitano riprende qui il Paradosso di Achille e della tartaruga di Zenone per il quale, attraverso un’ipotetica gara tra Achille, il simbolo della rapidità, e una tartaruga, simbolo di lentezza, essendo il movimento un’illusione, il primo non potrà mai raggiungere la seconda. Effettivamente, durante la narrazione della storia di Machisu, l’artista cerca durante tutta la sua vita di avere successo con le sue opere, di raggiungere in qualche modo l’approvazione che suo padre e altri durante il suo percorso gli avevano negato. Ma effettivamente, essendo la vita stessa una sorta di rincorsa di illusioni, Takeshi Kitano ci propone con un certo affetto e ottimismo di credere in noi stessi e nei nostri sogni più interiori.
La fiamma che spinge Machisu dall’inizio a fare arte diviene una fiamma diabolica ed infernale quando sente di essere rigettato dal mondo e, dopo una serie di esperimenti si isola e prepara lo scenario per il suo ultimo lavoro. All’interno di una casetta in legno, sperduta tra le campagne fuori città, posa un vaso di vetro su una montagna di balle di fieno in cui mette un girasole, poi prepara il cavalletto con la tela bianca e, dopo aver appiccato il fuoco, comincia a dipingere. Mentre il luogo, il soggetto del suo dipinto, la tela su di cui sta dipingendo e l’artista stesso prendono fuoco, Kitano ci dimostra non solo quanto certe volte l’arte può portarci all’autodistruzione, ma quanto ogni opera d’arte, ogni gesto, ogni proposta è geniale, è unica. Machisu è la raffigurazione di un artista che cerca di piacere agli altri invece di seguire la sua anima irripetibile e preziosa, tematica che si ripete in tutti e tre i film della trilogia, e che Kitano cerca di dimostrare a modo suo con le più disparate invenzioni, lasciando comunque sempre l’ultima parola ai fruitori che si trovano davanti alle sue creazioni.
Attraversando tutti i periodi, gli stili, i colori e le rappresentazioni dell’arte, prendendo maggiormente come riferimento quella occidentale, Achille e la tartaruga guarda indietro ad un passato che non potrà più ripetersi, accostando il concetto di “accademia d’arte” a quello del suicidio. Kitano è Machisu, e nel 2010 ha presentato a Parigi, nella Fondation Cartier pour l’art contemporain, un’esposizione intitolata Beat Takeshi Kitano, Figlio di un pittore, in cui ha esposto alcune delle opere che vengono mostrate nel film, che sono tutte chiaramente di produzione di Kitano stesso.
Vestito come un pittore, come un clown, come un mafioso, come un samurai, come un robot, come un povero giovane di periferia o come il più ricco degli uomini sul pianeta, Takeshi Kitano può rendere immortale la sua verità, essendo propositore di gesti ed espressioni, come una marionetta, si lascia guidare dall’istinto, immortalando questo suo oscuro entusiasmo verso il mondo di domani nelle sempre più imprevedibili e inimmaginabili opere cinematografiche, nelle più disparate arti plastiche, nei romanzi di letteratura, e sicuramente, anche nelle irriverenti gag comiche che lo hanno lanciato nel mondo delle arti e dello spettacolo.