43° edizione 2022 del Festival di Cinema e Donne a Firenze: Lo Spazio Felice
Lo Spazio Felice
di Daniela Turco
Nei giorni fitti di proiezioni e di incontri della sua programmazione (23-27 novembre 2022), la 43° edizione 2022 del Festival di Cinema e Donne a Firenze è stata accolta con la gioia condivisa di una vera e propria festa di restituzione, dopo l’interruzione forzata del 2021, a causa del mancato sostegno istituzionale da parte del Comune di Firenze.
E’ stato grazie soprattutto all’impegno, al sostegno e alla lotta di tante cineaste (tra cui, determinante, Margarethe von Trotta), giornaliste, critiche cinematografiche, insegnanti, rappresentanti delle istituzioni, che non si sono volute arrendere alla sua cancellazione, che il festival ha potuto essere ripristinato: un obiettivo politico raggiunto, che ancora una volta conferma il valore inestimabile della lotta. Non era possibile infatti rinunciare alla realtà di questo festival che nell’arco di 43 anni ha esplorato con passione in ogni suo percorso di linguaggio e in ogni paese del mondo, il cinema realizzato dalle donne, diventando per questo, nel tempo, un punto di riferimento internazionale, oltre a essere un appuntamento molto atteso e significativo per la città di Firenze.
“I mille volti della violenza” è stato il tema centrale di questa 43° edizione, ricorrente in molti dei film visti al festival, come ad esempio Un confine incerto, di Isabella Sandri, che ha ottenuto il premio “Gilda film”, dove il problema della pedofilia, difficile da trattare, viene affrontato nei suoi aspetti più sfumati e non per questo meno inquietanti, proprio perché più diffusi e comuni, escludendo però ogni retorica o facile semplificazione. Il film di Sandri – cineasta indipendente e tenace, che costruisce sempre i suoi film su un lavoro di ricerca documentato e rigoroso -. sceglie invece un itinerario molto più arduo e, appunto, “incerto”, decisamente più produttivo, visto che, nella difficile e spesso frustrante ricerca della verità, si spinge con coraggio fin dentro l’oscurità di un bosco, che è insieme reale e metaforico e che rappresenta quel luogo opaco dove spesso il perturbantepuò sconfinare – quando non coincidere proprio – con il familiare, mettendo così faticosamente in luce una delle zone di maggiore e profondo disagio, radicato nelle società contemporanee.
In questa edizione del Festival di Cinema e Donne si è anche aperta una nuova possibilità di incontro/confronto, con la scelta da parte del Laboratorio Immagine Donna, il gruppo che da sempre organizza il festival, di confrontarsi con altri festival, ospitando i film e le responsabili di altre manifestazioni europee, dedicate al cinema delle donne, come la Mostra International de Films de Dones di Barcellona, il Film, Femmes, Mediterranée di Marsiglia, e il Tricky Women/Tricky Realities di Vienna, che si occupa di film di animazione realizzati dalle donne e da altre soggettività queer. Questo confronto molto vivo ha promosso una circolazione di informazioni e di strategie, tra donne che lavorano, tutte, nei festival di un cinema realizzato da donne, che hanno provato a mettere la propria esperienza in comune, discutendo di ogni aspetto, economico, organizzativo, culturale ed estetico, al fine di ottenere un allargamento di visione, di proposte e di idee; qualcosa di molto lontano dalla competizione abituale che avviene tra i festival, e che si afferma nel segno libero della differenza, nodo centrale della politica femminista.
Good Morning Tel Aviv di Giovanna Gagliardo (che ha ricevuto a Firenze il premio Gilda Doc) inizia con il ritmo danzante di un musical nella notte piena di luci, di suoni e di persone, attraversata da un ritmo contagioso che circola per le strade e fa così interamente vibrare la città “che non dorme mai”, la più laica, cosmopolita e aperta di Israele, che il film racconta nell’arco di 24 ore, attraverso un mosaico di incontri e di storie diverse, in cui si rispecchiano i tanti volti di questa città. Già dalle parole del sindaco, Ron Huldai, confermato alla guida della città per cinque volte in un arco di 25 anni, emergono alcune delle contraddizioni di Tel Aviv – e Israele -_ come la realtà di un capitalismo – oggi più o meno ovunque eletto a sistema dominante -, che spinge la crescita economica di Israele, mentre, il paese all’inizio era stato immaginato molto diversamente da quei migranti in fuga dai pogrom in Europa, quando, animati dal pensiero socialista avevano costruito dal nulla e dalla sabbia i primi kibbutz. Già con Il mare della nostra storia (2018) Giovanna Gagliardo aveva raccontato Tripoli e la Libia, per mezzo di un punto di vista sia storico, sia umano e affettivo, attraverso i racconti e la memoria di quegli italiani che vi erano cresciuti o vi avevano abitato, a dimostrazione del vivo interesse della regista per quei paesi tra loro molto diversi, eppure tutti affacciati sul Mediterraneo, un mare che pur accomunandoci e riguardandoci tutti, resta drammaticamente controverso, segnato dai conflitti. A una prima visione del film, Tel Aviv potrebbe forse apparire come una città troppo moderna, troppo innovativa e cosmopolita, tanto da non essere quasi sfiorata dal conflitto con i palestinesi, nato con la stessa fondazione dello Stato nel 1948, ma a guardarlo con più attenzione, si comprende invece che non è così. Nel film, insieme alle ariose sequenze in camera-car che scorrono lungo le strade e mostrano il volto cubista di una città che cresce e cambia continuamente, tra monumenti millenari abbandonati, come la sinagoga su cui dipingono gli street artists contemporanei, tra le diverse testimonianze raccolte da Giovanna Gagliardo negli incontri con architetti, registi, artisti, direttori di museo, ecc,, si stagliano immediatamente le parole di una giovane palestinese che gestisce a Jaffa un piccolo negozio, e che usa parole molto profonde e dolorose sulla diffusa perdita di memoria per gli eventi che risalgono al 1948, l’anno della fondazione di Israele, una nuova casa per molti che a guerra finita erano appena arrivati dai campi di sterminio, ma, una catastrofe per i palestinesi, che dalle loro case se ne erano dovuti andare. Anche se in Good Morning Tel Aviv prevale comunque il volto più vitale in sintonia con la relativa giovinezza di questa città, fondata agli inizi del ‘900, dove, diversamente dall’Europa, la crescita demografica è sempre costante, il film trova però il modo di seguire a più riprese, le tracce di una donna che visita la tomba del compagno perduto, e di soffermarsi così su un dialogo tra i vivi e i morti che può continuare, sulla forza irresistibile dell’amore e dei ricordi. Non a caso poi Giovanna Gagliardo termina il film, in una chiave interrogativa, con il dipinto di Paul Klee Angelus Novus, conservato al Museo di Israele, e appartenuto a Walter Benjamin, che proprio a partire da quel quadro aveva scritto una delle sue più celebri e fulminanti tesi di filosofia della Storia: “Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso”.
Il cinema di animazione ha giocato un ruolo di primo piano all’interno del Festival, attraverso i corti proposti da Waltraud Grausgruber, che dirige il Festival Tricky Women/Tricky Realities di Vienna, e, soprattutto, con la proiezione di La traversée di Florence Miailhe, un film di animazione, coprodotto da Francia, Germania e Repubblica Ceca, estremamente elaborato e insolito, che affonda le sue radici nella pittura, assorbita e rilanciata nel movimento del cinema. La traversée, si muove in una dimensione di pura sperimentazione, vera e propria pittura in movimento, tra i colori accesi di Gauguin e i segni grafici che riprendono i mondi, di volta in volta, di Chagall, Vuillard, Derain, Matisse. Ispirata da una storia di persecuzione personale e familiare (la nonna di Florence Miailhe, era ebrea e all’inizio del 1900 aveva dovuto fuggire da Odessa a causa dei pogrom), La traversée, nell’intenzione della regista prende però la forma di un racconto universale, dove le coordinate di uno spazio e di un tempo determinato saltano, per fare posto a una dimensione fiabesca. I protagonisti sono Adriel e Kyona, due adolescenti, fratelli, costretti dalla persecuzione a fuggire dalle loro case insieme al resto della famiglia, da cui ben presto vengono separati. Florence Miailhe si richiama esplicitamente anche alla storia di sua madre, pittrice, che, come Kyona, non si separava mai dall’album da disegno e ancora adolescente, durante la seconda guerra mondiale, era stata perseguitata in quanto ebrea, tuttavia la regista sceglie di trasportare la sua storia su un piano più universale e nello stesso tempo più prossimo al nostro presente, anch’esso, del resto, segnato dolorosamente dall’esperienza delle migrazioni. Kyona e Adriel nella loro fuga dalla violenza finiscono dapprima nella casa, inospitale, di una nuova famiglia, che non li ama e da cui i due fratelli sono costretti a scappare per trovare riparo in un bosco, quasi fatato, dove si perdono, per incontrarsi di nuovo in un circo, finché, dopo molte peripezie – a un certo punto vengono anche internati in un campo di detenzione – riescono finalmente a trovare la libertà. Il fascino profondo di La traversée più che nel racconto, così simile a quello di tanti esuli e migranti di ogni tempo, consiste nell’aver dato a questo aspetto tragico dell’umano, segnato dalla violenza, dalla paura e dalla ricerca di una vita migliore, una forma poetica nuova, che risplende nei colori trasparenti e brillanti catturati in un incantevole movimento di danza. Florence Miailhe, infatti, non fa dell’animazione tradizionale, in cui di solito i disegni vengono realizzati prima su carta, per poi essere filmati, ma, nei suoi film, diversamente, i disegni sono dipinti su lastre di vetro, a più strati sovrapposti (fino a 13 lastre), il cui insieme viene filmato in tutte le sue trasformazioni, che avvengono, a vista; un po’ come se si dipingesse con la macchina da presa. Esiste uno strato per i colori chiari, uno per quelli scuri, e questo permette un risultato di assoluta nitidezza; ciò che è dipinto su ogni lastra di vetro procede infatti insieme all’animazione, così come le scene e i personaggi; una tecnica complessa che porta nel film un senso di innovazione e nello stesso tempo di rischio, perché filmando il divenire del dipinto su vetro, occorre un’estrema attenzione, dato che rimediare a un errore diventerebbe quasi impossibile. Non sorprende che per portare a termine La Traversée ci sia voluto un lungo lavoro di anni, oltre al coordinamento di tre staff di animazione, quasi tutte donne, uno per ogni paese di produzione. Il film di Florence Miailhe (che a Firenze ha ricevuto il premio Angela Caputi, “Maestre del cinema”) inizia con una lunga sequenza all’interno di uno studio, affollato di quadri e di tele, ingombro di tutti gli arnesi di un pittore, incluso un piccolo album da disegno, posato su un tavolo, che viene aperto, da due mani disegnate: è proprio da qui, dal taccuino, che il film passa dalla realtà fotografica all’animazione che è il mondo del film, mentre alla realtà fotografica, si fa ritorno solo alla fine, con i titoli di coda che scorrono accanto alla fotografia della madre pittrice, ritratta in quello stesso studio: è a lei, alla sua storia, e al suo mondo di immagini, che il film è dedicato.
Anche Amalie Rothschild, filmmaker e fotografa americana, da molti anni radicata a Firenze e assidua frequentatrice del festival, come Florence Miailhe ha avuto una madre artista, di origine ebraica, di cui porta anche lo stesso nome. Nel suo indimenticabile Nana, Mom and Me (presentato anni fa al festival), un documentario a colori in 16mm del 1974, improntato alla pratica femminista del partire da sé, Amalie coinvolgeva la madre pittrice, insieme alla nonna materna, Addye Rosenfeld, in un confronto tra generazioni diverse, molto movimentato e divertente, ma anche attraversato dalla malinconia, dalle incomprensioni e dai silenzi, che verteva sulla possibilità o meno di vivere una vita familiare piena, di avere dei figli, senza per questo dover rinunciare al proprio lavoro di artista, al proprio mondo creativo, ai propri desideri.
In questa edizione del festival Amalie Rothschild ha invece proposto It Happens to Us, realizzato nel 1971, il primo documentario americano che attraverso una serie di testimonianze spontanee di donne di età e provenienza sociale diverse, mette in campo il tema dell’aborto e del diritto delle donne di controllare il proprio corpo e di poter scegliere autonomamente di mettere fine a una gravidanza indesiderata. Si tratta di un film/documento che, a distanza di cinquant’anni, mantiene tutto la sua forza d’impatto, restando, nonostante il tempo trascorso, estremamente contemporaneo e urgente. Realizzato due anni prima della storica sentenza Roe v. Wade con cui nel 1973 la Corte Suprema avrebbe legalizzato l’aborto negli Stati Uniti, It Happens to Us, di recente restaurato in 4K, è stato girato in 16 mm, a colori, da una piccola troupe di sole donne, un dato determinante, come ha sottolineato la regista, perché tutto si era potuto così svolgere in modo spontaneo e diretto e le donne che avevano partecipato al film si erano potute aprire con maggiore fiducia, di quanto sarebbe successo con una troupe tradizionale, formata per lo più da uomini.
Il film inizia con la testimonianza dolorosa e coinvolgente di una ragazza del Sud degli Stati Uniti, che racconta di quando, rimasta incinta a sedici anni, non aveva avuto altra scelta che dare il bambino in adozione, e in seguito trovandosi di nuovo alle prese con una gravidanza indesiderata, per non rivivere il trauma della separazione dal bambino, aveva deciso di abortire. Il film, che dura 32’, è girato in uno stile scarno e diretto, che accresce l’impatto della visione, ed è costruito attraverso una serie di ritratti/testimonianze, espressione di quella pratica dell’autocoscienza e del partire da sé – una nuova narrazione, rivoluzionaria – portata avanti dai gruppi femministi di allora. Davanti alla macchina da presa, compaiono donne di età e di condizione sociale anche molto diverse, ci sono ragazze molto giovani e donne sposate con figli, ma tutte accomunate dalla durezza di una stessa esperienza: una gravidanza non voluta, e la scelta, sempre difficile e sofferta, di non portarla a termine. E’ da questo vibrante mosaico di donne diverse che raccontano la propria storia, spesso drammatica, che proviene un senso di emozione e di solitudine profonda, più intensa ancora del disagio e della paura, insieme allo choc che deriva da alcuni dettagli, nei casi ad esempio di aborti praticati senza una profilassi adeguata, con i racconti di infezioni e di dolori atroci, associati al diffuso senso di colpa per essere rimaste incinte e per aver deciso di abortire. Nel film, un vero e proprio manifesto della politica delle donne e della volontà di sapere e di diffondere la conoscenza, erano inoltre incluse le relative schede statistiche sull’argomento, così come venivano mostrati gli strumenti impiegati per praticare l’interruzione di gravidanza, con il preciso intento, diffuso nei gruppi di self help, di approfondire il più possibile l’analisi del problema in ogni aspetto, una pratica politica immediatamente utile a sconfiggere il silenzio e la paura. Ma la forza straordinaria di questo film, proviene in primo luogo, dai corpi e dalle parole di queste ragazze, di queste donne, che mettono a nudo la realtà della loro esperienza dolorosa e rompono così la cappa di solitudine, di vergogna e di senso di colpa che allora, e non solo allora, circondava questo evento. It Happens to Us è un film che segna l’inizio di una pratica politica e militante e non soltanto perché è legato al movimento delle donne di quegli anni – a un certo punto, viene filmato un breve frammento di una manifestazione femminista dove si chiede un’educazione alla contraccezione e un aborto libero e sicuro –, ma, piuttosto, per il gesto inaugurale con cui restituisce la parola alle donne, e, attraverso la parola, è restituito loro anche il corpo, su cui nessun altro, all’infuori di ogni donna per sé stessa, può arrogarsi il diritto di decidere. Oggi che tanto negli Stati Uniti come in Italia il diritto a un aborto assistito e sicuro – una conquista della lotta delle donne – è di nuovo sotto minaccia, il film di Amalie Rotschild It Happens to Us, parla ancora di qualcosa che ci succede, negli anni ’70 come oggi, qualcosa che ci riguarda da vicino come donne e come soggetti politici autonomi.
Per introdurre Lo spazio felice un documentario realizzato nel 2019 da Margherita Abbozzo, Maresa D’Arcangelo – che insieme a Paola Paoli co-dirige il Festival di Cinema e Donne – si è giustamente riferita a Carla Lonzi, indiscussa stella polare del femminismo italiano per la sua ricerca teorica, autrice di testi fondamentali tra cui Taci, anzi parla, e Sputiamo su Hegel, che, negli anni ’60, era stata uno dei critici d’arte più influenti e innovativi, non solo in Italia. Anche nel suo lavoro nel campo dell’arte contemporanea la ricerca di Carla Lonzi mirava soprattutto a destituire il ruolo del critico d’arte di un potere e di una presenza giudicante che sentiva essere troppo ingombrante e limitata di fronte alla potenza del gesto artistico. Il suo testo Autoritratto, pubblicato alla fine degli anni ’60, sperimentava di fatto un modo del tutto nuovo di mettere l’artista in rapporto con il critico d’arte, e, attraverso l’uso di un registratore, lo schema consueto veniva capovolto ed erano gli artisti, tra cui Kounellis, Accardi, Fontana, Pascali, Paolini, Consagra, ecc, a riprendersi radicalmente la parola. In quel testo seminale spettava prima di tutto a loro tenere il filo della conversazione, alla ricerca di una condivisione nuova, dove fosse possibile lavorare insieme, diversamente. Anche la struttura di Lo spazio felice, un documentario tutto al femminile (le riprese sono di Naima Savioli e Silvia Mancini, che ha anche lavorato al montaggio), si richiama alle linee guida di Autoritratto, restituendo, cioè, quanto più possibile la parola all’artista. Margherita Abbozzo, la regista, docente di fotografia contemporanea e a sua volta artista, per realizzare il film si è rivolta a sette donne, che lavorano in Toscana, tutte artiste impegnate in campi diversi: musica, scultura, fotografia, moda, performance, ecc, chiedendo a ognuna di loro di parlare del suo rapporto con il proprio studio, lo spazio in cui lavorano ogni giorno. Si inizia con Silvia Bolognesi, contrabbassista jazz, filmata nel suo studio-rifugio, all’interno di un bosco, e da subito, si avverte che il film, come un tessuto composto di molti fili diversi, mentre sembra parlare di una cosa, ne lascia intravvedere delle altre, solitamente nascoste. C’è infatti in gioco molto di più in Lo spazio felice del desiderio di filmare queste artiste che parlano del loro lavoro dentro lo spazio dello studio – quella stanza tutta per sé di cui ha scritto Virginia Woolf – , nel film non si tratta, o almeno non semplicemente, di lavorare a una galleria, per quanto affascinante, di “ritratti” di artiste, piuttosto si avverte come a Margherita Abbozzo interessi spingersi più lontano, alla ricerca di qualcosa di imprevisto o di segreto, che possa far sentire, prima ancora che capire, che cosa significa e come funziona per una donna l’atto di creazione. E’ Donatella Mei la prima tra le artiste a fare un’associazione libera tra il proprio studio e il proprio cervello, che lei definisce come due vasi comunicanti, dove la mobilità all’interno dello studio è la stessa che fa muovere il pensiero. Donatella Mei racconta anche di aver avuto diversi studi, ognuno dei quali si doveva necessariamente aprire su un giardino, da lasciare, volutamente in disordine. Così, nel suo studio, sul tavolo da lavoro, insieme a carte, matite e pennelli, compare un piccolo nido, raccolto in giardino, che fa comprendere come per questa artista, piante, insetti, fiori, tutti gli elementi di una vita organica, facciano parte di una medesima comunicazione, poetica, profonda, senza parole e senza barriere. Janet Mullarney, scultrice, dice invece di avere due studi, uno più ordinato dove sono esposte le sue sculture, e un altro più selvaggio, che deve sempre rimanere in disordine; è in quello che va a cercare i pezzi di materiali che le servono, ed è quello in cui la casualità può prendersi tutto lo spazio necessario, fino a diventare una leva che libera dalla paura del giudizio. Janet Mullarney, scomparsa nel 2020, tra tutte, è quella che entra più in profondità nel merito del modo molto diverso di praticare la ricerca artistica da parte di una donna, secondo lei, molto meno concentrata, rispetto agli artisti maschi, sulla propria identità ma più inquieta, sempre in movimento, in una linea di ricerca psicoanalitica. Janet osserva anche, a un certo punto, che mentre la firma per un uomo è sempre molto importante, per una donna, forse, non lo è… Nel suo intervento luminoso e illuminante, Janet definisce il punto in cui è arrivato il suo percorso artistico, come uno “spazio felice” – il titolo del documentario viene infatti da lei -, un luogo in cui ci si può finalmente permettere di prendere tutta la libertà necessaria. La libertà del resto è la posta in gioco che circola continuamente fra tutte queste donne e in tutti questi studi, sia nella casa-studio dove si vive e si lavora senza soluzione di continuità di Letizia Renzini, artista multimediale, musicista, performer, DJ e, soprattutto, combattente, sia nello studio collettivo e condiviso di Virginia Zanetti, che porta avanti la progettazione artistica ovunque e che per questo considera il suo studio qualcosa di interiore:
“ il mio studio…è dentro di me”.
Lo spazio felice resta per questo e altri motivi, una delle visioni più intense ed emozionanti di tutto il festival, perché con delicatezza e determinazione apre una porta che di solito viene sempre lasciata chiusa, e come un colpo di vento improvviso, porta qualcosa di nuovo e di raro da vedere, anche soltanto per qualche momento, la presenza cioè di quegli aspetti invisibili ed essenziali che legano segretamente il processo dell’atto artistico al divenire del femminile, materializzandoli, attraverso il cinema, nella densa flagranza di uno stesso luogo, che può essere un’idea, una stanza, un corpo, un gesto, la potenza femminile di immaginare uno “spazio felice”.