40º Tff: A Tale of Filipino Violence di Lav Diaz
“Fuck the rain, I’m thirsty!”
di Edoardo Mariani
Questi lunghi 409’minuti di pellicola 16mm sono la nuova “film novel by Lav Diaz” e in questo teatro da sitcom televisiva (il film è una sorta di ricostruzione, di impasto, di materiali girati da Diaz per la televisione filippina, bloccata dopo la salita al potere del figlio di Ferdinand Marcos Jr., figlio del dittatore Ferdinand Marcos, e rimontati per essere mostrati in Europa) comincia un never ending nightmare sulla storia del colonialismo spagnolo nelle Filippine che tormenta, che tortura, che lacrima incessantemente attraverso le piogge torrenziali, come in un naufragio dipinto da William Turner, ma senza la tormenta e le onde. Qui c’è solo l’acqua che recide le memorie, che cade senza bagnare le ombre, che è trasparente in questo bianco e nero materico e, appunto, violento.
Piove, piove a dirotto, e quando non piove, il sole prende, cattura, divora i personaggi, i corpi, alle spalle. Non ci saranno mai primi piani, ma una serie di capitoli, di storie intrecciate nel tempo e nello spazio di cinquant’anni di storia delle Filippine, che scorrono come fondali teatrali e reali di questa zattera destinata al sacrificio. La natura osserva e permette l’esistenza e l’immanenza queste memorie dimenticate, ma non fa niente per riportarle a galla, e in qualche modo partecipa all’oblio. Gli orizzonti di questi spazi infiniti sono cieli annuvolati e ammalati, che si stagliano alti sulle oscurità e sulle ombre degli esseri umani, entrambi abitanti del pianeta terra, fusi in uno yin e yang cinematografico.
Piove, soprattutto negli incubi, nelle Filippine, sui diari dei conquistatori spagnoli, sulle foreste selvagge e sulla luce sacra e spirituale che filtra tra i palazzi e le strade, trasformando questa terra in una casa calorosa e umida, invivibile. “Prima della venuta degli stranieri colonizzatori qui i nostri dei erano il sole, la luna e gli alberi” – dice a un certo punto uno dei contadini parlando ai suoi compagni di vita e di lavoro – “ma niente è cambiato. Tranne le nostre credenze, nelle loro religioni, che non sono le nostre”. C’è Kristo, un giovane che si aggira nelle immagini del film vestito di bianco che decanta la religione cristiana durante una sessione di massaggi, con un megafono, disturbando la quiete pubblica, disturbando la pace sacra di una giornata senza pioggia, e viene cacciato via dalla comunità di ciechi, che non vedendo nessuna redenzione nella religione, e nessuna corruzione nello spirito, percepiscono con purezza infantile il loro paese, lo sentono, lo descrivono per quello che è e non per quello che sarebbe potuto essere. “Non discriminiamoci, non ci sono né re né schiavi, siamo tutti gay.” Come se quindi Lav Diaz volesse dividere gli abitanti del suo paese, censirli in una sorta di bilancia a due piatti in cui i personaggi più oscuri (coloro che pesano sulla storia delle Filippine) non sopportando la luce (quella della pace interiore, quella del cinema) si spostano sempre verso l’oscurità, dove quasi svaniscono e dove si nascondono dalla verità.
“God sees the truth, but meanwhile he is wondering”, viene citato, a un certo punto, così da Lav Diaz Lev Tolstoj, prima di trasportarci in una nuova linea narrativa e temporale nel percorso del film, guidata dalle apparizioni discontinue di una voce fuori campo, di un ragazzo di spalle che scrive e contemporaneamente rilegge dei diari dai quali vengono raccontate le storie del periodo della colonizzazione. Questo A Tale of Filipino Violence è una novella di ispirazione storica che tratta attraverso l’ascesa e la decadenza di una famiglia proprietaria di una potente hacienda di zucchero, dell’immobilità costretta del popolo filippino davanti alla corruzione e al monopolio dei proprietari, successivamente entrambi rappresentati dalle figure dei narcos. Come anche in When the Waves are Gone, Lav Diaz raccontava nella conversazione con Daniela Turco e Bruno Roberti che “la natura ci dona moltissime cose, ma nello stesso tempo può anche essere estremamente distruttiva, di nuovo, è proprio della natura essere così: da un lato generosa, mentre dall’altro ti può uccidere. La natura è qualcosa di insidioso, può essere accogliente come una madre, e infatti la chiamiamo Madre Natura, ma ci può anche fare del male. Anche qui, ritorna la dualità di cui si parlava prima… Nel caso del mio paese lo si può vedere molto bene, le nostre vite dipendono molto dalla natura, il mare può essere generoso, ma anche molto pericoloso. E i tifoni che arrivano ogni anno, spesso possono essere estremamente distruttivi, ma poi quando tutto si calma, e la vita si rigenera dopo l’inferno, la natura può tornare ad essere qualcosa che nutre. È qualcosa di ciclico, che ricomincia sempre.”
(https://www.filmcriticarivista.it/venezia-79-conversazione-con-lav-diaz/)
Il never-ending nightmare è quest’uomo immobile, in piedi su una zattera a galla su di un fiume, che si lascia trascinare dalla lenta corrente e travolgere da una potente, quasi divina, pioggia torrenziale. Nel film, durante le quasi sette ore di durata, questa immagine torna, ritorna, sfugge e riappare, di continuo, ma dopo lunghe distanze temporali una dall’altra, in qualche modo, come gli incubi, come le tragedie, come il Fujiwara effect, una combinazione di due cicloni che ruotano su loro stessi e giocano a distruggere tutto ciò che sfiorano nella distanza di mille chilometri.
Le Filippine in tutto il prolungato e delicato lavoro di Lav Diaz sembrano essere costantemente messe in ombra da questi eventi catastrofici, prima naturali e poi di conseguenza umani. “Are you will to loose everything?” si chiede il film riferendosi alla memoria dei diversi personaggi, tutti provenienti dallo stesso seme maledetto, tutti raccolti e disintegrati sotto la pioggia dello stesso incubo ricorrente. È qui che la camera si slega, diviene protagonista, comincia una incredibile sequenza a metà tra la camera a mano d’esplorazione etnologica di Chris Marker e le soggettive del Dark Passage di Delmer Daves, dove il film stesso diviene l’assassino e l’assassinato, vittima e carnefice, l’incubo reale del film-romanzo. La finzione uccide la natura e la cultura di un paese, e di un popolo tutto, in cui la corruzione degli animi ne cancella ogni purezza, ogni attrazione verso la luce. “Sono nato dalle tenebre della violenza, un seme piantato nella follia”, dice prima di essere giustiziato uno dei carnefici del film.
Diaz acceca, si lascia accecare, si schiera con la comunità di non vedenti, che non potendola vedere, non hanno paura della catastrofe imminente, continuano a percorrere la loro vita senza lasciarsi spaventare, senza naufragare, senza violentare gli ultimi attimi che gli restano. “GIVE PEACE A CHANCE”, c’è scritto ad un certo punto sul poster di un bar, citando quindi anche le parole antiguerra dell’inno pacifista scritto da John Lennon, nel periodo in cui suonava con la Plastic Ono Band.
Con il testo di una ninna nanna tramandata di madre in figlia, il film si chiude con parole di speranza, che come si dice, è sempre l’ultima a morire: “Stealing moments from memories…I always look back…The hearth is cold…I keep waiting for you…” (“Rubando momenti ai ricordi… guardo sempre indietro… Il cuore è freddo… Continuo ad aspettarti…”).